21

Lenwood, California,

venerdì, 10 giugno 2011

«Dimmi, com’è stato avere una sorellina che ti rubava il cioccolato senza nemmeno toccarlo?» chiesi, con un pizzico della curiosità su cui noi detective siamo soliti fare affidamento.

Sarah soffiò sulla superficie del catrame bollente che l’Oakdene spacciava per «latte macchiato», denominazione con cui probabilmente intendeva «poltiglia scura con l’aggiunta di grumi di altra poltiglia bianca in polvere».

«Da bambine abbiamo vissuto separate. Per molto tempo non ho neppure saputo dell’esistenza di Tina e sono riuscita a rintracciarla soltanto due anni fa circa, quando ormai aveva trascorso quasi tutta la vita in clinica», disse Sarah, con tristezza.

Tacqui. Non c’erano dubbi che le due ragazze fossero figlie degli stessi genitori – bastava un’occhiata per accorgersene – ed era palese che si adorassero. Non potevo immaginare come fosse stato, per entrambe, dopo anni di beata ignoranza, apprendere di avere una sorella.

«Allora quando e come hai scoperto che sa fare ciò che fa?»

Fu una divagazione, certo, ma per qualche motivo ebbi la sensazione di dover passare a un argomento che ritrasformasse il suo dolore in qualcosa di simile all’orgoglio.

Funzionò.

Sorrise. «Cambiare la sequenza? È così che mi piace chiamarlo, perché è questo che fa, credo. Lascia che la sequenza temporale proceda in modo normale, ma costringe tutti gli altri numeri al suo interno a muoversi in una nuova direzione. Cambiare la sequenza», ripeté, come se stesse descrivendo un premio per tutti noi irraggiungibile.

«Me ne sono resa conto la volta in cui mi sono arrabbiata con lei. Ero qui, forse per la terza o quarta visita, e non sapevo proprio come comportarmi con Tina. La pazienza non è mai stata una mia virtù. Stavo cercando di spazzolarle i capelli e lei voleva prendere uno Snickers dalla mia borsa. Era mio, tra parentesi, non suo. Non sapevo ancora che le piacessero.»

Bevve un sorso di caffè. «Dunque, la sto pettinando e Tina si ritrae, perciò ho iniziato a urlarle addosso per l’esasperazione. È andata fuori di testa. Dio, qualcuno avrebbe potuto credere che la stessi uccidendo, tanto si agitava. Dopo un minuto circa, la borsa si è spostata di un metro o un metro e mezzo, più o meno la metà della distanza che ci separava. Ho pensato di averlo immaginato.»

«Ma non era così?»

«Assolutamente no. Qualche settimana dopo è successo di nuovo. Ormai sapevo che Tina era golosa di Snickers e gliene avevo portato uno, ma le ho detto che non gliel’avrei dato finché non avessi finito di spazzolarle i capelli. Però devo aver impiegato un po’ troppo tempo, perché si è infuriata, ha cominciato a dimenarsi e lo Snickers è scivolato giù dal tavolo. Era almeno a trenta centimetri dal bordo. In quel momento ho capito che non era stato un evento fortuito.»

«E allora cos’hai fatto?»

«Ho cominciato a parlargliene, per capire, e le ho domandato se fosse in grado di perfezionare quella dote. Le sono occorsi mesi, ma poi è stata soddisfatta quando ha imparato a controllarla, almeno in una certa misura. Non si concentra o cose del genere, si limita a guardare un oggetto e a desiderarlo. Se lo vuole abbastanza intensamente, succede.»

«Non è pericoloso?» Avevo visto più film di Stephen King di quanti sarei stato disposto ad ammettere.

«Suppongo che potrebbe esserlo se Tina si arrabbiasse troppo, ma, a essere sincera, non ha un briciolo di cattiveria. Credo sia l’ultima persona al mondo che farebbe un uso sbagliato di questo dono. A differenza di qualcuno che conosco.»

«Chi, Creed?»

Rise. «No, Creed non distinguerebbe il proprio culo da una buca nel terreno. Ma ricordi quando ti ho detto che Klein, il tipo dello scavo americano, è uno scienziato? Be’, oltre alle aziende di sua proprietà, gestisce alcuni progetti per il governo e offre consulenze per gli studi sul paranormale.»

Ingollai un lungo sorso di caffè e me ne pentii all’istante. «Studi sul paranormale? E lavora per il governo?»

«Altroché. Percezione extrasensoriale, telepatia, telecinesi, proiezione ipnotica, teletrasporto, e così via. Oltre ad alcuni fenomeni più oscuri come la visione a distanza, hai presente? La capacità di essere sdraiati su un letto a Washington e vedere cosa sta accadendo in uno sperduto covo di terroristi e, forse, persino di localizzarlo. È una cosa di cui la CIA si occupa sin dalla fine degli anni ’50.»

Mi squadrò come se si aspettasse che scoppiassi a ridere, ma con l’aria di chi fosse intenzionato a uccidermi se avessi osato farlo. Se non avessi visto ciò che avevo visto – ed ero ancora abbastanza sicuro di averlo visto –, avrei pensato che fosse tutto a dir poco ridicolo. Ma il numero di Tina con lo Snickers e lo sguardo di sua sorella dimostravano che era tutto vero.

Alzò le spalle. «Nulla garantisce che le tavole contengano risposte comprensibili, ma suppongo che trovarle sia un ottimo punto di partenza. In realtà, i fisici delle particelle sono lì lì per scoprire come funziona il mondo anche senza poterle consultare; hanno già intuito che l’universo è numerico e che ci sono delle regole. Essendo scienziati, però, si rifiutano di credere che queste regole non siano fortuite, e così sono a un punto morto da anni.»

«Dimmi, come funziona esattamente il mondo?»

A parte noi due, chini sopra bicchieri di carta fumanti, la stanza era deserta, fredda e sporca. Tuttavia, era quanto di più simile a una mensa l’Oakdene potesse offrire.

Quando l’edificio era una scuola, il locale aveva il nome assai più romantico di «refettorio»: una quindicina di persone che cucinavano piatti dal profumo squisito per orde di bambini affamati. Ormai il cibo veniva consegnato a bordo di un furgone, precotto e avvolto nel polietilene, e la sala conteneva soltanto trenta tavoli di laminato scheggiati, sedie traballanti e una macchina per il caffè del tutto inservibile.

Sarah rifletté, quindi andò al distributore automatico e rubò otto bicchierini. «Vedi, è un problema che confonde gli scienziati da anni.» Si risedette, ne allineò tre, lasciando uno spazio molto ridotto tra l’uno e l’altro, quindi, a una breve distanza, posizionò con cura gli altri cinque lungo il tavolo, abbastanza lontani tra loro per poterne inserire di nuovi, se necessario.

«Ecco… Quando si ha un foglio di cartone con due fessure, simboleggiate qui dai due spazi angusti tra questi tre bicchieri, e si proietta una luce attraverso le fessure, ciò che si ottiene sulla parete o sullo schermo sono strisce verticali chiare e scure, alla stessa distanza e della stessa larghezza. Sono rappresentate da questi cinque bicchieri e dagli spazi tra loro. Chiaro-scuro-chiaro-scuro, eccetera. Va benissimo, perché sembra che la luce viaggi in onde. Dunque succede che le onde, quando escono dalle fessure, interferiscano tra loro come le increspature sulla superficie di uno stagno, e nel momento in cui colpiscono la parete si accentuano oppure si annullano a vicenda.»

«Come le onde in uno stagno?»

«Esatto. Anzi, se si ripete l’esperimento in una vasca di moto ondoso, facendo passare attraverso le fessure l’acqua invece della luce, si arriva allo stesso risultato. È fico, perché è ciò che tutte le onde – acquatiche, sonore, radio e ogni altro tipo di funzione d’onda – fanno quando si urtano tra loro: interferiscono. Tutto chiaro?»

«Penso di sì.»

«Ma qui c’è un problemino, Nick.»

Spinsi indietro la sedia e accavallai le gambe, come se mi stessi appassionando all’argomento. «Ah, sì?»

«Sì, perché nel 1985 alcuni scienziati tedeschi hanno condotto lo stesso esperimento che ti ho appena descritto, ma invece di una parete o di uno schermo hanno usato fotorilevatori molto sensibili, e al posto della luce un emettitore di particelle luminose, capace di sparare un solo fotone di luce alla volta. Le apparecchiature sono state collocate dentro un vuoto perfetto, senza interferenze. Così era escluso che si formassero ’onde di luce’ – una particella non sarebbe bastata per generarle – e che le onde cozzassero tra loro. Ma indovina un po’?»

«Cozzavano?» Ero pericolosamente vicino a non sentire più il sapore del caffè.

«Sì, anche se da un punto di vista scientifico era impossibile che i fotoni, anziché trovare la propria strada e atterrare a intervalli casuali sul fotorilevatore, formassero degli schemi. Era come se avessero ricevuto l’ordine di finire là, che lo volessero oppure no.»

«Da chi? Da Dio?» chiesi, scettico.

«Sì, se preferisci. Di sicuro rispettavano delle regole e, se era così, qualcosa non solo creava le regole, ma si assicurava pure che venissero rispettate, persino quando le circostanze ambientali imponevano che non lo facessero più. Qualunque cosa fosse, non si aspettava certo che l’umanità arrivasse al punto di poter sparare una particella di luce alla volta e di stracciare il libro delle regole.»

«Cosa significa di preciso?»

«Che ogni cosa a questo mondo, ogni particella di materia di cui sono composti gli oggetti, può andare soltanto dove le è permesso. La luce viaggia attraverso il vetro, ma non attraverso i mattoni, anche se sono fatti dello stesso materiale di base: la silice. Materiale diverso, regole diverse. L’unico modo per far osservare le regole è un enorme insieme di coordinate e di preserie.»

«Allora il mondo non è altro che un grande ammasso di numeri?»

«Esatto. Ogni cosa riceve istruzioni su dove può e non può essere all’interno di una griglia immensa. Non stiamo parlando solo di oggetti o di molecole, ma anche di particelle, gli elementi che compongono le molecole. Miliardi e miliardi, tutte attaccate saldamente al proprio posto sulla griglia, in un dato momento.»

«E tutto questo è controllato da una specie di Dio? Sarà molto indaffarato.»

Sarah bevve un sorso di caffè. «No, è questo il punto. Non si può controllare ogni cosa, perciò bisogna stabilire le regole per le particelle chiave, che poi le altre dovranno seguire. Ad esempio, quando sposti il dito, non adegui il movimento di ogni singola particella del sistema muscolare che lo controlla. C’è un elemento chiave. Non sai che esiste e non ci pensi nemmeno, ma c’è. Muovi semplicemente quell’elemento e gli altri lo seguono.

«Quanto al ’creatore delle regole’, se così vogliamo chiamarlo, non lo vedo come un dio, ma come una sorta di computer divino. Non mi riferisco a uno scialbo IBM o a qualcosa con circuiti stampati e software, ma alla più grande forza di calcolo immaginabile.»

«Allora Dio è un computer?»

Annuì decisa. «Ogni cervello è un computer, perciò, in mancanza di una parola più adatta, la risposta è sì. Penso che, nel nostro piccolo, noi – anzi, tutti gli esseri viventi – penetriamo in quel computer ogni giorno grazie al semplice interagire con esso. Decidiamo dove andare e cosa fare, usando il cervello per far muovere le cose, ma rispettiamo anche le regole. Le persone dalla mente aperta come Tina e molte altre in tutto il pianeta riescono a penetrare a un livello ancora più profondo; è possibile che vedano i numeri, forse senza nemmeno rendersene conto, che rilevino i cambiamenti e che, nel caso della vera telecinesi, li provochino a distanza. È un fenomeno più sensoriale che meccanico.»

Cominciai a capire perché avesse deciso di mostrarmi il trucco dello Snickers prima di lanciarsi in quella discussione: primo, avrei ipotizzato che fosse pazza e, secondo, aveva sentito il bisogno di mostrarmi cosa sapeva fare una persona su un «piano più alto», prima di provare a spiegarmi come quel piano potesse esistere.

«Dunque credi che Tina possa… cosa, forzare le leggi della natura?»

«Perché no? Non è più incredibile di ciò che hai già visto. Anzi, ritengo sia ancora più credibile se c’è una spiegazione. Sai, Tina sembra spesso assente, come se non riuscisse a relazionarsi con le persone o a seguirne i discorsi. Ma penso che per via della malattia sia soltanto fuori sintonia. Sa concentrarsi quanto noi due, ma non è in grado di farlo al nostro livello, la sua mente è molto più aperta, più ricettiva. Come forse ti ho già detto, vede cose che noi non oseremmo mai vedere.»

Mi guardai intorno nella stanza squallida, una scatola dalle pareti marroni con insulsi archi color crema. Sì, per quanto quel ragionamento potesse sembrare folle, aveva una sua logica, e la logica era qualcosa di cui, come detective, sapevo di dovermi fidare. Non sino in fondo, forse, ma occorreva essere aperti alla catena di eventi che essa suggeriva.

Inoltre, in vita mia avevo anche visto cose che non riuscirei a spiegare.

Una volta avevo provato a scassinare la serratura dello spaccio della polizia per cinque minuti, dopo che il sergente di turno mi aveva assicurato che la combinazione di quel giorno fosse 5 8 3 7 1. Alla fine Phillips, il mio compagno, aveva detto: «Prova con 1 5 8 3 2». L’avevo assecondato e… clic, la porta si era aperta. Phillips non sapeva come o perché fosse a conoscenza di quel numero; aveva detto che gli era venuto in mente, punto e basta. La combinazione cambiava ogni giorno. Era impossibile che la conoscesse.

In un’altra occasione, stavo inseguendo un borseggiatore lungo 3rd Street, passando davanti al Center for Performing Arts, e avevo capito che stavo per perderlo. Era troppo veloce per i miei polmoni da venti sigarette al giorno. In più, pioveva a dirotto e avevo i vestiti fradici, pesanti e appiccicati alla pelle. Poi, l’uomo aveva svoltato in un vicolo e, quando avevo girato l’angolo, era svanito nel nulla. C’era una ventina di porte, e avevo immaginato che alcune fossero aperte, altre no. Ero stanco, bagnato e pronto a gettare la spugna, ma avrei scommesso l’osso del collo che il ladro fosse dietro uno di quegli usci.

Allora, quasi senza pensare, ero andato verso la porta 8, sulla destra, avevo estratto la pistola e avevo spinto il battente. Ero corso su per le scale e in cima avevo trovato una porta antincendio, di quelle che non si possono aprire dall’esterno. Ed eccolo là, in trappola.

Non chiedermi come mai avessi scelto quel passaggio, perché non ne ho la minima idea. So solo che l’avevo fatto. All’epoca l’avevo attribuito all’intuito ed ero stato molto orgoglioso di me stesso.

Ma poi, cosa diavolo è l’intuito?

Forse quei due episodi non reggono il confronto con la levitazione umana, con la capacità d’individuare una scena del crimine partendo da un indumento della vittima, o quella di attirare verso di sé uno Snickers da un metro di distanza, ma mi avevano lasciato perplesso. Perché no? Dammi una spiegazione migliore, e ti darò retta, pensai. Fino ad allora…

Il caffè era quasi finito, per fortuna.

«Le tavole sono la chiave per forzare il computer?» domandai.

«In teoria, sì.» Sarah vuotò il bicchiere e lo lanciò verso un cestino di metallo marrone, facendo canestro da ben due metri e mezzo. «Sono la spiegazione della regola, qualcosa che potrebbe essere sottoposto a un processo d’ingegneria inversa e compreso. La comprensione è sempre il primo gradino sulla scala del controllo. A preoccuparmi, tuttavia, è il fatto che il genere di violazione di cui è capace Tina, pur battendo noi due a occhi chiusi, è ancora molto blando. Pensa a cosa potrebbe accadere se si potesse andare sino in fondo, se si potessero davvero controllare i numeri.»

«Si potrebbe giocare a fare Dio, giusto?»

«Già. E nessuno dovrebbe poterlo fare.»

Ero d’accordo. «Parlami delle tavole. Cosa sono, che aspetto hanno?»

«Nessuno lo sa. Secondo l’Esodo furono compilate da Dio su entrambi i lati e offrivano il potere assoluto sugli elementi: terra, aria, fuoco e acqua. In realtà, credo che, prima di consegnarle a Mosè, Dio gli abbia mostrato il tipo di potere che erano in grado di conferire.»

«’Mostrato’ come?»

«’Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto.’» Parlò lentamente, e scandì bene le parole, come un predicatore televisivo intento ad annunciare una profezia.

Buttai la testa all’indietro, fino a vedere il soffitto pieno di ragnatele, e risi. «La separazione del mar Rosso? Credi davvero che le tavole diano il potere di separare il mare?»

Ciò che disse in seguito mi sarebbe rimasto impresso nella mente per tutta la vita: «No, Nick. A essere sincera, penso che diano il potere di farla sembrare un volgare numero da baraccone».

Seguì un lungo silenzio imbarazzato. Poi, la porta si spalancò di colpo e per poco non tirai fuori la pistola. Sulla soglia c’era Creed, trafelato.

Pareva assieme furioso e divertito. «Chi di voi due ha bisogno che gli spieghi per l’ennesima volta come mai non permettiamo ai pazienti di usare grossi pennarelli neri?»

La Teoria Dell'eternità
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