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Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,
lunedì, 2 aprile 2040
Nonostante il suo «pedigree eccellente», come l’aveva definito una volta Josef Klein, per poco Alison Bond non diventò uno dei primi e più spettacolari fiaschi della NorthStar Foundation. Non dimostrò capacità telecinetiche né percezioni extrasensoriali, e non riuscì mai a usare la telepatia né a leggere nel pensiero di un’altra persona. In sostanza, non faceva nulla che un milione di bambini furbi in tutto il pianeta non avrebbe saputo fare.
Come il siberio, le sue presunte doti non avrebbero potuto essere sfruttate seriamente dalla KRT.
Tuttavia, compensò quelle carenze con una prodigiosa capacità di apprendimento e una memoria quasi fotografica. Se vedeva, sentiva o leggeva qualcosa, l’assorbiva e non lo dimenticava più. Aveva anche una mente dalla logica imbattibile, in grado di risolvere con prontezza quasi ogni problema, calcolando accuratamente le probabilità in anticipo e individuando la strada verso la risposta. A soli sedici anni, sotto la supervisione della NorthStar, si era laureata in fisica gravitazionale, matematica pura e biochimica.
Alison Bond era, nel vero senso del termine, una bambina prodigio. Nessuno si meravigliò, dunque, che al suo diciassettesimo compleanno, quando il periodo sotto l’ala della NorthStar Foundation stava per scadere, la KleinWork Research Technology le avesse offerto un lavoro all’interno del gruppo. Dopo aver iniziato come assistente di laboratorio nella divisione Microelettronica, scalò i vertici dell’Intelligenza artificiale e alla fine, a ventotto anni, si ritrovò a capo del team Analisi computazionale.
Quella sezione, il cui lavoro non veniva molto pubblicizzato dalla KRT, era direttamente responsabile dell’approfondimento e della ricerca permanente nell’ambito sia delle strampalate teorie di Dave Sherman sia della NorthStar nel suo complesso. La ragione per cui Alison aveva scelto di guidare gli Studi computazionali, o meglio, per cui aveva lottato duramente al fine di ottenere quella posizione, era che ormai conosceva benissimo gli scopi della NorthStar Foundation e il perché fosse stata selezionata tra i primi destinatari della sua assistenza. Il fatto di non aver dato prova di nessuna capacità non aveva scoraggiato il suo interesse per l’argomento.
Il lavoro nell’Analisi computazionale le permise di unire la curiosità alla pura indagine scientifica, e lo studio del tempo, della gravità, della luce, della biologia, della fisica molecolare e delle particelle a quello di cose che venivano spesso reclamizzate, denigrate ancora più di frequente e dimostrate molto di rado.
Il suo incarico, e quello del team, era cercare i legami tra la «vera» scienza e il paranormale: le messinscene, per così dire.
In quel momento, Klein stava studiando l’immagine di Alison, proiettata sul ripiano in vetro della scrivania. Era la sua foto d’«iscrizione», se così la si voleva chiamare. Cinque anni, coi capelli castano rossiccio lunghi fino alle spalle e con un sorriso innocente, forse persino felice, che, date le circostanze, era stato la sorpresa più grande di tutte.
Sul pianale, a sinistra delle immagini, un minuscolo quadrato rosso si mise a lampeggiare, e Klein lo sfiorò con l’indice ossuto. «Sì?»
La donna anziana che gli rispose aveva un tono sbrigativo e zelante: «Miss Bond per lei, signore».
«La faccia entrare.»
Comparve Alison, che ormai aveva poco più di ventotto anni e, mentre avanzava a testa alta, Klein fece sparire la fotografia con un clic. Si fermò davanti alla scrivania. «Aveva chiesto di vedermi, signore.»
Lui fece un sorriso cordiale e la invitò ad accomodarsi. «Esatto. Ho esaminato i dati della divisione Microelettronica: sorprendenti. Ho saputo addirittura che all’interno del reparto alcuni ti considerano… Come posso dire? Un genio.»
Alison non batté ciglio. Era abituata alle lusinghe, ma non si montava mai la testa. «Ispirazione e traspirazione, signore.»
«Chiamami pure Josef. E sei troppo modesta.»
«Faccio del mio meglio.»
Klein rifletté. C’era qualcosa che lo lasciava perplesso. «Eppure hai deciso di restare perlopiù all’interno della NorthStar. Non credi di essere sprecata in un contesto così poco scientifico?»
«Niente affatto, ci sono passata in prima persona. Penso di avere empatia coi bambini. E, poiché l’empatia è parente stretta della…»
«Conoscenza? Sono d’accordo.» Klein si alzò e andò alla finestra, guardando la Los Angeles ultramoderna che era cresciuta come muffa brillante sopra quella vecchia. Ogni settimana sembrava che una nuova torre di vetro facesse a gara con le altre per toccare il cielo. «Dimmi, cosa sai del siberio?»
«Un concetto un po’ obsoleto, temo, ma ho letto i giornali. A quanto ne so, quel materiale era ed è diverso da tutti quelli scoperti sulla terra, ma anche sostanzialmente inutile.»
«Esatto.» Klein annuì con riluttanza. «Il fatto è che, quando l’abbiamo tagliato per distribuirne i campioni, abbiamo conservato due sfere, ciascuna del diametro di circa sessanta centimetri. Non ne abbiamo fatto nulla per un lungo periodo.»
«Ma?»
«Ma poi, qualche settimana fa, Strauss, un membro del team Aerodinamica – credo che tu lo conosca –, ha chiesto di prenderne in prestito una. Voleva vedere cosa sarebbe accaduto se vi avesse applicato l’elettricità, in enormi quantità, aggiungerei, in una condizione di vuoto perfetto. Nel suo ambiente originario.»
«E cos’è successo?»
Klein guardò fuori della finestra, turbato. «I risultati sono a dir poco sconcertanti. A essere sincero, non riusciamo a venirne a capo.»
«Vuoi che dia un’occhiata?»
«In un certo senso, sì. Vedi, Strauss ripeterà i test questo pomeriggio, con numeri molto più alti. Abbiamo aumentato le apparecchiature di monitoraggio a sua disposizione: telecamere, temperatura, pressione, gravità, magnetismo, umidità. Le solite cose.» Klein si voltò. «Dimmi, Alison, stai ancora lavorando coi topi?»
«Sì.» La ragazza intuì lo scopo di quella conversazione, le vere intenzioni di Klein. «Vuoi che gliene presti uno per il test? E che magari lo usi come pretesto per rimanere nei paraggi e vedere cosa succede?»
Lui sorrise come un padre orgoglioso davanti a una pagella piena di 10 e lode. «Come ho detto, Alison, sei troppo modesta. Credo che Strauss abbia prenotato il laboratorio dalle tre in poi.»
«Vedrò di fare un salto», rispose ossequiosa.
«Te ne sarei grato.»
Il laboratorio, situato in un luminoso magazzino bianco a un piano solo, dietro la torre principale della KleinWork, misurava quindici metri esatti di diametro, aveva pareti rivestite di titanio ed era impermeabile all’aria e all’acqua, il che permetteva di trasformarlo da vasca a vuoto perfetto a seconda delle necessità. Quel giorno, sarebbe stato un vuoto.
Dopo aver accantonato le ricerche sul siberio nel 2016, Strauss era là perché, come aveva spiegato Klein, si era domandato come il materiale avrebbe reagito se fosse stato collocato in un vuoto perfetto e caricato elettricamente a un livello così alto da fondere, grazie al calore generato, un sottile strato della superficie (circa 0,02 millimetri).
Era già stato dimostrato che il punto di fusione del siberio all’aria era quasi 79.500 gradi Celsius, quando il materiale reagiva con l’ossigeno e «sprizzava scintille». Strauss si era chiesto se il punto di fusione potesse aumentare in mancanza d’aria. Se sì, quella caratteristica – assieme alla ridotta conducibilità termica del materiale – avrebbe reso il siberio il candidato ideale per le guaine protettive ultrasottili del futuro Shuttle-X, per cui il suo team si era visto assegnare quindici progetti di ricerca dalla GSA, l’erede della NASA.
Come accadeva con quasi tutti i test a budget ridotto, Strauss avrebbe anche dovuto ricavare il maggior numero di risultati possibile da una sola serie di analisi. Così avrebbe posizionato all’interno del vuoto dispositivi a elevata sensibilità per registrare le variazioni di calore, luce, magnetismo inerente, campi elettrici e attrazione gravitazionale. Una telecamera digitale ad alta risoluzione da 136fps sarebbe stata posizionata di fronte alla sfera e, dato che sarebbe stata presente Alison, ci sarebbe stato anche Charlie.
Charlie, o DBX2105, era uno dei quindici topi bianchi che Alison usava per gli studi sulle percezioni extrasensoriali. Era anche uno dei più intelligenti: tre contenitori in fibra di carbonio sigillati elettromagneticamente, e lui non si allontanava mai da quello col formaggio; se si sostituiva il cibo con polistirolo inodore, il risultato non cambiava. Era come se Charlie riuscisse a vedere dentro.
Quando Alison entrò nella sala di controllo poco dopo le tre, vide che Strauss aveva indossato la tuta ed era già al lavoro in laboratorio, impegnato con le ultime piccole regolazioni della telecamera. Gli parlò attraverso un microfono che, nell’interesse di un ambiente controllato e non contaminato da casse audio convenzionali, per produrre i suoni faceva vibrare leggermente le pareti. La sua voce uscì così distorta da sembrare maschile, strappando un sorriso a Strauss, sotto la visiera arancione.
«Ho qui qualcuno che vuole vederti.» Gli mostrò la cassetta.
Lo scienziato, coi lineamenti deformati dal plastiglass, alzò lo sguardo e le fece segno col pollice verso l’alto. «Fantastico, infilalo nel buco.»
Lei andò verso il «buco», una camera di equilibrio con controllo del vuoto, e posò Charlie, picchiettando sulla superficie trasparente cosicché il topo potesse fingere di rosicchiarle teneramente il dito. La cassetta era a tenuta d’aria, ma aveva un sistema di alimentazione incorporato nella base che avrebbe permesso all’animale di respirare normalmente benché il laboratorio fosse privo di gas, respirabili o no. «Sii prudente, amico mio», disse la ragazza.
Strauss attraversò goffo la stanza, girò intorno a una delle due sfere di siberio, collocata su un piedistallo in titanio, e prese la scatola.
«Avrai cura di lui, vero?» La voce di Alison rimbombò tra le pareti.
Charlie correva qua e là nel minuscolo contenitore, annusando ogni centimetro. Era ignaro che avrebbe partecipato a un esperimento e che di lì a poco non avrebbe più avuto una scatola in cui muoversi.
«Certo», mentì il suo collega. «Chissà, dieci minuti con la ’roccia spaziale’, e potrebbe persino diventare più intelligente di prima.» Adagiò il contenitore su un altro piedistallo di titanio, quindi fece un passo indietro e ammirò il proprio lavoro: siberio, telecamera, topo e registratori digitali. Era ora di cominciare.
Alison fece una smorfia. Charlie era già straordinario, non avrebbe potuto essere più intelligente nemmeno se ci avesse provato, cosa che, a differenza degli altri topi, faceva sempre.
Dopo cinque minuti, Strauss uscì dal laboratorio e si rimise i jeans, la T-shirt e le scarpe da tennis. Al contrario di Alison, non usava mai il camice bianco, convinto che desse un’impressione sbagliata. Inoltre, non sarebbe stato necessario rinfilarsi la tuta alla fine dell’esperimento, perché i risultati sarebbero già stati disponibili. Osservò Alison che controllava gli schermi retroilluminati e registrava i dati, coi lunghi capelli castani raccolti in uno chignon severo e con gli occhiali a mezza montatura nera che le conferivano un’aria più austera che mai.
Tuttavia, abituato a trovare i dati nascosti tra risultati in apparenza ovvi, andò oltre gli occhiali, percorrendole il corpo con lo sguardo; sotto il guscio rigoroso, pensò, era probabile che ci fosse una giovane donna bellissima. Sarebbe stato pronto a scommetterci. Il problema era che tutti giudicavano Alison dalle apparenze, senza mai spingersi più in là.
«Che ne dici se dopo ti offro la cena?» Strauss si appoggiò con noncuranza al banco di comando.
«Ma non stavi uscendo con Rachael?» Lei si tenne sul vago, ma i suoi occhi erano molto eloquenti.
«È questo che si dice in giro?»
«Sì. E si dice pure che tu le abbia fatto un regalo. Una graziosa collanina.»
Strauss fece un sorriso sardonico, assieme soddisfatto e trionfante. Non aveva rivelato a nessuno che stava frequentando Rachael, e l’unica volta che erano usciti si erano visti dall’altra parte della città. Perciò, per deduzione logica, l’unica che avrebbe potuto spifferare ogni cosa era lei.
«Era solo un portafortuna, un crocifisso che ho fatto con l’arenaria rossa. È andata a trovare dei parenti in Europa per un paio di settimane.»
Alison gli lanciò una finta occhiata di rimprovero. «Quando il gatto non c’è, i topi ballano, giusto?»
«Mi conosci. Stavo scherzando.» Era una menzogna, ma lo diventava sempre meno ogni volta che pensava a Rachael. Sorrise. Forse, una volta che fosse tornata, avrebbe avuto una possibilità con lei, il che l’avrebbe reso felice come una Pasqua. «E tu? Non esci mai, non frequenti nessuno. Insomma, tutti amiamo il nostro lavoro, ma dobbiamo staccare di tanto in tanto. Rilassarci e divertirci un po’.»
«Io mi diverto, soltanto che lo faccio a modo mio.»
Strauss rise. «Se intendi ciò che penso, conosco un tipo della divisione Elettronica che sta lavorando su una batteria capace di autoricaricarsi. Gli faccio un colpo di telefono, se vuoi.»
Lei gli diede una pacca sulla spalla, né troppo forte né troppo blanda. «Siamo pronti o no?»
«Alison, cara, è capitato tutto all’improvviso. Ma io ci sto, se ci stai anche tu.» La squadrò, ma fu zittito da un’occhiataccia. Allora sospirò, prese posto sulla sedia rossa dell’operatore e si concentrò sui comandi con l’espressione più offesa che riuscì ad assumere. «Sì, Miss Bond, siamo pronti.»
Schiacciò un pulsante verde e, dal soffitto, scese un lungo tubo metallico, con alla base cinque denti che si curvavano come dita; tenne premuto il tasto finché non sfiorarono la sfera, poi lo rilasciò. Un altro comando azionò il sensore automatico, che posizionò ciascun dito a 0,5 millimetri esatti dalla superficie della palla. Era fondamentale che i denti fossero abbastanza vicini per trasmettere la scarica effettiva, senza mai toccare l’oggetto. Quindi si spinse indietro, con le ruote della sedia che scorrevano sul pavimento bianco e liscio, e immise il livello di carica 389 nel terminale del computer sulla parete posteriore. Infine, si voltò, scivolò avanti e, allungando il braccio, ruotò con disinvoltura un grosso interruttore arancione sul banco di comando. Si udì un ronzio, che s’intensificò mentre il sistema si accendeva. Poi sorrise, girò un altro interruttore arancione e…
Si scatenò l’inferno.
Prima ci fu un urlo assordante che li costrinse a tapparsi le orecchie. Durò circa due secondi, straziando loro i timpani. Strauss si tirò indietro bruscamente, la sedia si capovolse e lui finì disteso sul pavimento. Poi, per un brevissimo istante, brillò un lampo di luce verde-blu, la più splendente e intensa che avessero mai visto.
Alison sentì le caviglie che le tremavano, come se fosse in piedi su un tappeto cui qualcuno avesse dato uno strattone improvviso. Vacillando, rialzò l’interruttore e spense il sistema. Finalmente calò il silenzio. Era durato tutto pochi secondi, ma la giovane non aveva mai apprezzato il totale silenzio come in quel momento.
Strauss, ancora per terra, fissò il soffitto con espressione vacua. «Che diavolo è successo?»
«Non saprei, ma temo che avremo bisogno di uno dei tuoi portafortuna.»
«Era un pezzo unico.» Come la destinataria, d’altro canto.
Alison guardò verso il laboratorio, con gli occhi puntati su qualcosa. A turbarla non fu ciò che vide, ma ciò che era quasi sicura di aver scorto subito prima del lampo.
«Non hai intenzione di darmi una mano a tirarmi su, vero?» fece Strauss.
Nessuna risposta.
«L’abbiamo rotta? Ti prego, Dio, fa’ che la sfera non si sia rotta. Altrimenti non siamo mai stati qui. Forse tu sì, ma io no. Ero altrove. A mangiare il pollo.»
«No, è intatta», lo rassicurò Alison, distratta.
Strauss alzò gli occhi al cielo, si rimise in piedi e guardò oltre il vetro, con le mani premute contro il bordo del banco di comando. Sembrava che ogni cosa fosse al suo posto: la cassetta, la telecamera, gli strumenti e il siberio erano esattamente dove li aveva lasciati, tutti integri.
Ansimò per qualche secondo. Quindi inalò una generosa boccata di aria asciutta e sterile, girò un interruttore e rilasciò il vuoto. «È meglio che verifichi i risultati finché abbiamo ancora un lavoro.»
Attraversarono la camera di equilibrio principale ed entrarono nel laboratorio. Alison passò le lunghe dita sulla parete, sentendo il rivestimento candido e levigato sotto i polpastrelli. «Di cosa sono fatte?»
«Perché?» Strauss stava già smontando la telecamera.
«Semplice curiosità.»
Lui vide che accarezzava delicatamente le pareti, come se stesse massaggiando il collo di un amante. O di un collega, magari. «Titanio da novanta millimetri, ricoperto di smalto da porcellana resistente al calore.»
Alison strinse le palpebre. Allora non poteva aver visto ciò che aveva visto, giusto? Avrebbe voluto dire qualcosa, ma si rese conto che avrebbe fatto la figura della stupida. Con ogni probabilità, Strauss aveva visto poco o niente. Era come aveva detto lui: titanio da novanta millimetri, ricoperto di smalto da porcellana e duro come la roccia. Si era sbagliata, punto e basta.
Diede un ultimo colpetto alla parete, con le unghie che producevano un picchiettio stridulo sulla superficie bianca e fredda, quindi andò alla cassetta. Charlie avrebbe dovuto essere la sua prima preoccupazione, ma era stato temporaneamente messo in ombra da altri eventi, da altri pensieri.
Sbirciò nella scatola con un sorriso che, però, svanì all’istante. Strauss, che stava consultando le letture numeriche sul display del rilevatore di temperatura, non si accorse di nulla. Capì che qualcosa era andato storto solo quando Alison parlò. Era distaccata, se possibile più del solito. Non lo guardò. Non riuscì a staccare gli occhi dalla scatola. «Pete, posso chiederti una cosa?»
Strauss era troppo concentrato sulle cifre per fare una delle sue solite battute. «Certo.»
Lei era incredula. «Dove cavolo è finito il mio topo?»