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Serres, Perpignan, Francia,

sabato, 11 giugno 2011

Penso a Sarah di continuo. Negli ultimi anni ho sentito molto la sua mancanza.

Trovo ancora difficile e imbarazzante descrivere la persona che ero diventato nel periodo prima di conoscerla. Ero un guscio vuoto. Parole stereotipate, lo so, ma non sono altro che un uomo stereotipato. Ero già consapevole dei miei difetti, ma non avevo voglia di accettare biglietti da visita né di fare telefonate nell’intento di risolvere i problemi. Lasciavo che la vita scorresse via, vivevo alla giornata. Poi, il più delle volte, andavo nel «giardino pensile» o da Cody, bevevo quanto bastava per cancellare le ultime ore dalla mia memoria a breve termine e l’indomani mattina ripetevo la procedura con la mente aperta (ossia annebbiata).

Ciò che all’epoca disprezzavo maggiormente di me stesso, se devo essere sincero, non era la faccenda di Casparo, né l’alcolismo che mi aveva rovinato, né il fatto di aver perso Katherine e Vicki. Quello che mi faceva davvero male – la ferita più profonda – era la solitudine nel fallimento e, peggio ancora, la certezza che mi avrebbe perseguitato per il resto della vita. Sapevo di aver combinato un casino. Se mi fossi ritenuto in grado di non combinarne altri (e non era così), forse avrei fatto uno sforzo per rimediare agli errori del passato, invece allontanai il più possibile le persone, soprattutto quelle cui tenevo davvero. Avevo paura di trascinarle nel baratro con me.

Molto semplicemente, mi ero arreso perché, pur sapendo che domani è un altro giorno, sapevo pure che io sarei stato ancora la stessa persona e pensavo di non avere la forza – fisica o di altro tipo – per lottare contro i miei difetti. Quando ogni risultato è sempre lo stesso, quando ogni conclusione è scontata e si sente la vecchiaia insinuarsi nelle membra, si tende a isolarsi dal resto del mondo. Anzi, non si vede l’ora che arrivi il giorno in cui il resto del mondo smetterà di chiedere la nostra partecipazione.

Questo spiega perché ciò che ricordo meglio di Sarah, a parte la sua vasta cultura e la sua passione entusiastica, è il modo assai subdolo in cui mi riportò in vita. Immagino avesse intuito, come me ora, che un inizio disastroso ha inevitabilmente una fine analoga. Non voleva accendere una fiamma dentro di me – o almeno non una qualsiasi –, bensì un fuoco da campo, qualcosa che bruciasse più lentamente e più a lungo. Qualcosa che non soltanto mi riscaldasse, ma che mi tenesse anche in vita. Così lasciò che l’esca prendesse, prima di buttare i rami più grandi.

Aveva in serbo alcuni ceppi grossi e nodosi, ma li avrebbe tenuti da parte finché non fossi stato in grado di badare al fuoco da solo. A quel punto, lascia che te lo dica, le fiamme nella mia pancia gonfia e stereotipata avevano ormai iniziato a scoppiettare vivacemente.

Questo è il mio modo prolisso e poco eloquente per spiegare che Sarah Fiddes fece tutto il possibile per farmi incazzare.

All’epoca.

In meno di due giorni mi aveva indotto a parlare dei miei rimorsi: non solo quelli nei confronti di mia figlia, che erano sì noti, però non erano mai stati oggetto di discussione, ma anche quelli nei confronti di Monica. Nessuno – e intendo proprio nessuno – è mai riuscito a farlo, né prima né dopo. Anzi, nessuno a eccezione di lei ha mai saputo che avevo visto Casparo quel giorno, né tantomeno che avevo accettato i soldi. Peggio ancora, con quelle poche parole – a volte, che ci piaccia oppure no, occorre affrontare le cose che si sono fatte – era riuscita a farmi sentire da schifo.

La odiavo per questo.

Sarah capì e si premurò di precisare che l’unica cosa che non stavo facendo, o che non avevo mai fatto, era prendere coscienza di come il mondo intorno a me fosse cambiato.

Non era che avessi rinunciato a qualcosa, piuttosto non l’avevo mai cominciato.

Il fatto che ci fosse voluta una ragazza di diciotto anni più giovane di me per sottolineare i miei fallimenti, una persona che non mi conosceva da abbastanza tempo per comprendere anche solo vagamente, mi fece arrabbiare.

Non con Sarah. Ci provai, ma non mi parve giusto.

Con me stesso, allora.

Il che, tra parentesi, non significava che d’un tratto, per miracolo, fossi sul punto di cambiare dall’oggi al domani, di assumermi la responsabilità per la piega che aveva preso la mia vita e di tuffarmi in un disperato tentativo di sistemare le cose. Per quanto mi riguardava, era passata troppa acqua sotto i ponti e, in tutta onestà, non pensavo di avere la forza necessaria, ma Sarah m’indusse a riflettere e, che mi piacesse oppure no, fu ciò che feci lungo la strada da Arques a Serres.

Pensai, punto e basta.

C’è una prima volta per qualsiasi cosa.

A dire il vero, non dedicai troppi neuroni a Monica, se non per accettare l’idea che la sua morte fosse stata il fattore scatenante di tutto il resto, ma riflettei con attenzione su mia figlia Vicki. L’ultima volta che avevo parlato con lei era stata quasi un anno prima, quando l’avevo chiamata per il suo diciottesimo compleanno.

Quasi un anno prima, trecentosessanta giorni e rotti. Come se non fosse abbastanza, erano passati quasi tre anni da quando avevo visto il suo viso. Trecentosessanta e rotti moltiplicati per tre.

Avevo cercato d’illudermi che Seattle fosse lontana, il che era vero, ma sappiamo entrambi che ero io a essere troppo distante, non Seattle.

Durante l’ultima telefonata, subito dopo averle fatto gli auguri e altre false promesse su un nostro incontro imminente, mi aveva detto che doveva andare e che mi avrebbe passato sua madre.

Avrei preferito che non lo facesse. Per poco non la supplicai.

Mi aveva passato sua madre.

Katherine e io avevamo litigato. Di nuovo. Per molte ragioni, ma soprattutto perché Vicki non soltanto era in cura da un terapista – cosa di cui ero dolorosamente a conoscenza –, ma aveva anche ritenuto opportuno lasciare il college.

La mia ex moglie mi aveva informato che a poco a poco Vicki stava sfuggendo a ogni controllo. Sai a cosa mi riferisco: frequentare le compagnie sbagliate e venirsene fuori con una richiesta assurda ogni sera. Sebbene Katherine non l’abbia mai detto, almeno non in modo esplicito né in mia presenza, aveva insinuato che, anche se non facevo più parte della vita di mia figlia ormai da dieci anni, era stata tutta colpa mia. Il che, per molti aspetti, era tipico della mia ex – sempre pronta a scaricare le responsabilità sugli altri – ma, da molti punti di vista, era anche vero.

Vicki era uscita di carreggiata sin da piccola. Era stata turbolenta a scuola, offensiva con sua madre e col bravo dentista, e di recente aveva cominciato a vestirsi in modo bizzarro e a farsi fare piercing in posti che Dio, se mai ne fosse esistito uno nel suo mondo, non avrebbe voluto veder perforare nei propri figli.

Conoscevo la verità quanto Katherine. Il motivo per cui avevamo litigato era che non mi piaceva sentirmi dire che era colpa mia. Vicki non era uscita di carreggiata «sin da piccola», bensì in un momento assai più preciso. Aveva iniziato nel giorno in cui suo padre si era incasinato l’esistenza e aveva messo lei sulla buona strada per gettare via quanto restava della sua.

Prima o poi, volente o nolente, avrei dovuto ammetterlo.

Quando arrivammo a Serres, cercai di concentrarmi su qualcosa di più positivo, ad esempio l’incredibile semplicità del compito che ci attendeva.

Serres, la cittadina storica che avevamo attraversato mezzo mondo per raggiungere, era minuscola. Immagina la città più modesta che tu abbia mai visitato, così piccola che mi sorprese fosse indicata sulle carte geografiche. Al massimo, avrebbe meritato un puntino microscopico.

«Tutto qui? E questa sarebbe la tua città?» dissi, un tantino deluso.

«Già. È fantastica, vero?»

Una strada principale e cinque traverse che erano poco più di vicoli angusti tra alti muri intonacati. L’entrata era sorvegliata, se si ha una vena romantica, dallo Château de Serres, un edificio in pietra del XIII secolo, con una torretta sulla facciata occidentale. In un buco come Serres immagino sia più facile imparare i dettagli storici.

Il castello, supposi, era un possibile nascondiglio per gli oggetti che Sarah stava cercando, ma ce n’erano altri.

Su un lato della strada s’innalzava una statua della Vergine Maria e, in cima alla collina, una chiesetta con un minuscolo cimitero sorgeva tra l’erba alta. Luoghi ideali, spiegò Sarah, perché resistevano al passare del tempo. Nessuno osava spostare gli oggetti sacri. Non restava che trovarne uno che recasse qualche riferimento all’«Arcadia». Parcheggiammo all’ombra di alcuni alberi ai piedi della città e scendemmo dall’auto. Era un pomeriggio afoso.

Risalimmo la china ripida, dove il sole filtrava tra le foglie proiettando strisce luminose sull’acciottolato, e Sarah studiò con attenzione edifici, statue, insegne e pietre.

Impiegammo meno di dieci minuti a perlustrare tutte le vie, finendo con la chiesa e le lapidi collocate nel punto più alto. Le costruzioni erano anonime, tutte affacciate direttamente sulla strada e, a parte i colori diversi che gli abitanti avevano scelto per dipingere porte e persiane di legno, e le differenti varietà di piante e fiori che crescevano rigogliose nei vasi davanti alle finestre, erano pressoché identiche: molto mediterranee, molto pittoresche e quasi inutili. Niente parole incise né insegne di legno, niente iscrizioni né date.

Più o meno a metà della salita comparve un abitante di Serres, intento a inerpicarsi lungo la collina nella nostra direzione: un uomo vecchissimo, dall’andatura vacillante. Aveva il viso solcato da rughe profonde, era sdentato e indossava un completo della taglia sbagliata che poteva aver acquistato cinquant’anni prima.

Se fossimo stati in Grecia, con ogni probabilità si sarebbe trascinato dietro un asino, fermandosi solo quando l’animale avesse dovuto fare i suoi bisogni.

Sarah gli andò incontro sorridente, mentre io mi sedetti e osservai la scena.

Il suo francese non era male, dieci volte migliore del mio, ma in seguito lei stessa dovette riconoscere che non era portata per le lingue come Tina e che nemmeno sua sorella era in grado di parlarle. Dopo una serie di «Est-ce que un sign d’Arcadie», «pardon» e «non», alla fine si arrese e lasciò andare il vecchio per la sua strada.

Era riuscita a cambiarsi nella toilette dell’aereo subito prima dell’atterraggio, sostituendo i pantaloni militari color cachi con calzoncini verde oliva che le mettevano in risalto le gambe abbronzate.

Avevo sempre creduto che le archeologhe fossero alte e robuste, coi lineamenti duri e coi bicipiti sviluppati, e che le donne religiose fossero scialbe e all’antica, molto compite e decorose. Sarah non era niente di tutto questo. Come sua sorella, era una splendida giovane con un corpo da capogiro e una personalità esuberante.

Mi domandai se sapesse di essere così bella o se gliene importasse qualcosa. Conclusi di no. Nella sua mente c’erano cose molto più importanti di cui occuparsi che non la vanità personale, e mi resi conto che, in realtà, Tina non era unica come l’aveva definita Sarah.

Ciò che il mondo ci aveva regalato era un duo molto prezioso.

Si fermò alla mia destra con le mani sui fianchi. «Ho sprecato cinque minuti della mia vita. Credo non avesse la minima idea di cosa stessi parlando», disse sarcastica.

«Ho bisogno di un caffè.» A dire il vero, avrei preferito qualcosa di un po’ più forte, ma ritenni più prudente tenere per me quel piccolo segreto.

Si guardò intorno, dubbiosa. «Ah, sì? E dove pensi di trovarlo?»

Urlai all’indirizzo del vecchio, che stava aprendo lo stretto uscio di legno della sua umile dimora. Forse conosceva un bar nei paraggi. «Monsieur?» Si voltò e mi fissò con gli occhi infossati. «Un café, s’il vous plaît?»

Erano le uniche parole francesi del mio repertorio, e fu un vero peccato sprecarle tutte in una volta.

«Oui. Oui, naturellement. Entrez!» Scomparve oltre la soglia.

Guardai Sarah con espressione vacua. «Okay. Sto impazzendo, oppure ha detto che casa sua è un caffè?»

Mi scoccò un’occhiataccia. «Sono molto preoccupata per te. Café…? Caffè…? Ti sta offrendo… Oh, lascia perdere, andiamo.» Raccolse lo zaino e s’incamminò.

L’uomo ci preparò il caffè, denso e nero, ma squisito, quindi trasferì tre sedie sulla strada e ci sedemmo in un sottile spicchio di sole di fronte alla chiesa. La chiamo così anche se era poco più di una cappella, una piccola struttura quadrata con un minuscolo campanile fatiscente che, con ogni probabilità, in passato aveva ospitato una campana fatiscente ancor più minuscola.

Parlare col vecchio era fiato sprecato, ma chiacchierammo per un po’ e lui annuì, sorrise e fece tutte le cose che dovrebbero fare gli ospiti cortesi. A un certo punto smisi persino di considerarlo un sempliciotto decrepito, perché aveva gli occhi pieni di vita e di passione, una qualità che cominciavo ad apprezzare negli altri e che non ricordavo di aver visto da molto tempo. La sua ruotava tutta intorno all’emozionante gioco della vita.

E forse era proprio così che era riuscito a far parte del gioco per tutti quegli anni.

D’un tratto, Sarah posò la tazza per terra e fissò la chiesa a bocca aperta. «L’Arca di Dio

Io non capii, ma l’uomo sì. Rise e prese a borbottare qualcosa.

Sarah ripeté lentamente la frase, come se stesse pensando ad alta voce. Ciò che il vecchio bofonchiava, ridendo e dondolandosi sulla sedia come talvolta fanno gli anziani quando sono emozionati, era: «Oui, Arca dei, Arca dei».

La chiesa dell’Arca di Dio.

In latino, la chiesa dell’Arca dei.

Che assomigliava molto a…

Guardai dall’altra parte della strada. L’insegna sopra la porta era molto malconcia, ma sarebbe stato impossibile equivocare la scritta e la relativa traduzione.

Ringraziammo il nostro ospite per il caffè e gli stringemmo la mano, quindi mi diressi verso la cappella. Sarah non mi seguì, almeno non subito, ma indugiò accanto al vecchio.

«Non vieni?» la esortai.

«Nemmeno i viaggiatori più avventurosi possono essere in due posti contemporaneamente, Nick», replicò in tono saccente. Poi, rivolgendomi un sorriso astuto, salutò l’uomo e mi raggiunse.

I battenti erano larghi e arcuati, fatti di legno tenuto assieme a malapena da una vernice cremisi scrostata. Ricordavano più la porta di un fienile che quella di una chiesa; anzi, era tutto l’edificio a dare quell’impressione. Al centro di ciascun battente c’era un anello di ottone annerito che fungeva allo stesso tempo da battiporta e da maniglia.

Li provammo entrambi. Uno girava, l’altro no, ma non accadde nulla. La cappella era chiusa a chiave.

Udimmo un tintinnio alle nostre spalle e ci voltammo. Il vecchio, ancora seduto dove l’avevamo lasciato, sfoderò un sorriso e ci mostrò una numerosa serie di chiavi nere che ballavano come marionette su un anello enorme. Non era un sacerdote, perciò suppongo fosse la versione economica di un custode. Il che avrebbe spiegato perché viveva là di fronte.

«Vous voulez entrer?» Vedendoci annuire con enfasi, si alzò a fatica e biascicò: «Mais oui, mais oui. C’est la maison de Dieu, après tout. Elle est pour tout le monde».

La Teoria Dell'eternità
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