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Oakdene, Lenwood, California,

lunedì, 13 giugno 2011

A parte i gemiti sommessi e disperati, che parevano risuonare a tutte le ore, quella notte i corridoi dell’Oakdene erano immersi nel silenzio.

Maggie aveva fatto il turno di giorno, era rimasta per il giro di pillole delle sei e aveva smontato intorno alle sette meno un quarto. Poi, era tornata a casa dai suoi tre figli, aveva preparato la cena e avevano guardato Chi vuol essere milionario? Carey era arrivato poco prima delle sei, aveva aiutato la collega a smistare i farmaci, aveva tenuto d’occhio la reception mentre lei li somministrava ai pazienti e si era messo a leggere una rivista d’informatica davanti agli schermi, in attesa di fare il proprio giro.

Creed era nel suo ufficio, a compilare il bilancio. Di tanto in tanto si sentivano provenire grida dalle camere, ma nulla d’insolito. Secondo Maggie, ci si fa l’abitudine al punto di non udirle più. Sotto ogni aspetto, nella casa dei matti era una serata come le altre.

Fino alle sette e trenta circa, mezz’ora prima del giro di Carey. Creed uscì dall’ufficio, si avvicinò al bancone e chiacchierò dei portatili ultimo modello e di come occorresse stare attenti perché i drive dei DVD erano sempre i primi a rompersi se si comprava una versione economica.

Poi, gli disse che aveva voglia di «sgranchirsi le gambe» prima di tornare a casa, perciò si offrì di fare il giro al suo posto. Carey avrebbe potuto leggere per altre due ore e distribuire le medicine alle dieci. È molto strano, perché Creed non si offre mai di fare nulla, pensò il ragazzo. Ma quella sera l’aveva fatto. Chissà, forse aveva soltanto bisogno di fare quattro passi.

Sono certo che Creed sbirciò attraverso ogni finestrella, sapendo che Carey avrebbe guardato i monitor e volendo rendere credibile la messinscena. Tuttavia, sapeva anche quali telecamere funzionavano e quali no e, poiché si trattava dell’Oakdene, molte rientravano nella seconda categoria. Compresa quella che non voleva assolutamente che funzionasse: la numero otto, al primo piano.

Suppongo che abbia maledetto Sarah Fiddes mentre percorreva i lunghi corridoi, accompagnato dallo scricchiolio delle suole e da ricordi imbarazzanti. Gli sarà tornato in mente il volto della ragazza, pieno di veleno e disprezzo, e quell’immagine deve aver procurato una cocente umiliazione al suo ego malato. Nessuno osava parlargli in quel modo. Era lui a gestire quel posto, Cristo. Ogni mattone delle pareti e ogni piastrella crepata del pavimento erano suoi. Ogni respiro e ogni cagata, ogni emozione era sua. Là dentro poteva essere Dio. Anzi, era Dio, e sia i pazienti sia i visitatori dovevano cominciare a rendersene conto.

Jennifer Sanchez, la giovane costaricana, l’aveva dimenticato.

Come Sarah, anche lei aveva rifiutato le sue avance. Peggio ancora, aveva scalciato e urlato e l’aveva coperto d’insulti, alcuni dei quali irripetibili. Così, era stato necessario rammentarle l’aspetto più importante della vita istituzionale: la gerarchia, con Creed in cima. Le aveva dato una bella lezione. Jennifer non aveva più dubbi su chi comandasse là dentro, nossignore. E persino quello stupido detective, Lambert, era stato troppo lento per cogliere il potente Creed alla sprovvista. Certo, aveva visto il sangue sul trofeo, ma non era bravo a barare e la sua reazione era stata così palese da permettergli di ripulire tutto. Non avrebbe potuto dimostrare nulla. E c’erano stati altri che avevano avuto bisogno di una strigliata. Moltissimi.

Creed era Dio, e la sua missione era diffondere la verità e la conoscenza tra gli eletti.

Poi, raggiunta la 113, deve aver ricordato ciò che Sarah aveva detto a Maggie, ossia che non sarebbe più tornata e, meglio ancora, quello che aveva detto a lui, cioè che Tina sarebbe stata fuori dall’Oakdene nel giro di una settimana. Era stata davvero stupida. Non si dicono cose simili. È come dare carta bianca, giusto? È come dire: «Fa’ ciò che vuoi, perché non tornerò a controllare e il tuo tempo sta per scadere».

Era proprio quello che avrebbe fatto Creed, quello che avrebbe fatto qualunque Dio: ciò che voleva.

Tina era seduta sul letto. Stava leggendo un libro di poesie alla luce di una torcia, una di quelle che si attaccano in cima al volume. Era stata Sarah a comprargliela. La bella e gentile Sarah, che le faceva visita e le spazzolava i capelli. Poi, se il tempo era bello, facevano una piacevole passeggiata fuori e prendevano una boccata d’aria. Le portava persino uno Snickers con tante noccioline dentro. Rideva e le raccontava di aver chiesto a quelli della Mars di aggiungerne qualcuna in più, soltanto per lei.

Le parlava. Come si deve, in un unico lungo flusso; non come gli altri, che spezzavano le parole in frammenti. Non poteva parlare, ne era consapevole, ma poteva sentire, santo cielo. Ci sentiva benissimo, e Sarah lo sapeva. Sarah capiva.

Ma non sarebbe più tornata. Doveva andare via, aveva detto. Tina avrebbe voluto arrabbiarsi, ma non c’era riuscita, non con lei, perché le aveva letto una tristezza sincera negli occhi. Non sarebbe partita perché lo volesse, ma perché, per qualche misteriosa ragione, doveva farlo.

Dunque, come avrebbe potuto infuriarsi? Non era colpa sua. Aveva trascorso i primi ventitré anni di vita senza Sarah ed era stata bene. Quei due anni passati assieme erano stati un regalo, una ricompensa per aver fatto la brava.

Sembrava tutto molto ragionevole, molto maturo, ma non era servito a fermare le lacrime. Sua sorella se n’era andata solo da qualche ora e, forse perché Tina sapeva che non sarebbe più tornata, sentiva già la sua mancanza.

Forse, quando Creed spiò attraverso il vetro, le lacrime nei suoi occhi catturarono la luce. Forse lo fecero per lui, per dargli lo stimolo di cui aveva bisogno. Insomma, è risaputo che la tristezza può essere sexy, giusto? Creed lo sapeva. Sapeva perché Britney Spears continuava a mostrargli quel visetto da bambina solitaria nei video. Esprimeva innocenza, unita al desiderio di essere accudita, di avere qualcuno che si prendesse cura di lei. Era quella la ragione per cui era là in quel momento e per cui Carey era al piano inferiore, impegnato a leggere dell’ultimo software AppCreation. Avrebbe fatto ciò che chiunque avrebbe fatto per una persona cara che stava soffrendo.

Si sarebbe occupato di lei.

Aprì la porta ed entrò, senza essere ripreso dalle telecamere. Come aveva fatto con Sarah, chiuse l’uscio a chiave. Non ci sarebbero stati rifiuti questa volta. Al contrario, avrebbe potuto avverare una fantasia: quelle due si assomigliavano tanto che sarebbe stato quasi come scoparsi Sarah, giusto? Però lei non l’avrebbe insultato definendolo un viscido bastardo, al contrario, sarebbe rimasta sdraiata e si sarebbe concessa. Forse avrebbe lottato, ma soltanto perché avrebbe voluto che spingesse di più, che andasse più a fondo e le dimostrasse quale Dio potente fosse. Era pronto, eccitato al massimo. Non avrebbe fatto cilecca.

Immagino che, quando Creed attraversò la stanza, Tina, con una guancia illuminata dalla minuscola luce da lettura, sia parsa ancora più spaventata, ancora più sexy. La sua espressione sarebbe stata supplichevole, quasi implorante, ma non sarebbe stata accompagnata dalle parole, perciò lui avrebbe potuto decidere da sé cosa gli stesse chiedendo, e gliel’avrebbe dato.

Non sarebbe durato a lungo, ma quanto bastava e, naturalmente, non ci sarebbero state urla. Di nessun tipo, perché la bella Tina era muta, non avrebbe potuto gridare nemmeno se avesse voluto. E, anche se l’avesse fatto, le sue proteste non avrebbero fermato Creed. Era là per uno scopo ben preciso: voleva prendere ciò che quella stronza di Sarah gli aveva negato, e non se ne sarebbe andato finché non l’avesse ottenuto.

Inoltre Maggie aveva ragione, alle urla si fa l’abitudine al punto di non udirle più.

La Teoria Dell'eternità
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