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Serres, Perpignan, Francia,
sabato, 11 giugno 2011
Sarah mi precedette lungo la discesa. Lo sparo attutito dal silenziatore non aveva attirato l’attenzione, le vie erano deserte come quando eravamo arrivati, e il custode era morto. Devo ammettere, seppur con riluttanza, che in chiesa avevo avuto paura come mi era capitato soltanto due o tre volte in tutta la carriera. Fuori, le cose cambiarono e la paura cedette il passo alla rabbia.
Mi resi conto di due cose, anche se una sarebbe stata più che sufficiente.
La prima era che Sarah, pur sembrando irritata da ciò che era accaduto meno di dieci minuti prima, non era parsa minimamente spaventata. Al contrario di me. Ma, quel che era ancor più preoccupante, era che non fosse sembrata neppure stupita.
M’infastidiva un po’, come il fatto che poi avesse continuato a lavorare come se niente fosse. Aveva estratto le tavole, usato il pennarello e rimesso a posto la pietra. Mi aveva sorpreso non poco che nel frattempo non avesse cominciato a elencare i vantaggi di una moneta unica globale.
Poi, quando avevamo lasciato la chiesa, l’avevo osservata mentre superava il corpo del francese. Niente, nemmeno un briciolo di compassione o di paura; l’aveva scavalcato come se fosse stato un ceppo in campagna. Perplesso, mi domandai che razza di archeologa fosse. Non la più adatta da portarsi dietro se si voleva restare in vita, conclusi.
Devi ricordare che stavo ancora brancolando nel buio. Continuavo a essere convinto che, se le morti di Wells e Rodriguez erano in qualche modo legate al testo, allora i miei colleghi erano stati uccisi dai «cattivi».
Era quello il secondo problema.
Afferrai Sarah per la spalla e la costrinsi a girarsi. «Cos’è successo là dentro?» Per non allarmare gli abitanti, avevo cercato di parlare il più sottovoce possibile, ma non ero più riuscito a frenare la curiosità. Dovevo sapere.
«Per favore, Nick, ora non c’è tempo.» S’incamminò.
La bloccai. «Non c’è tempo, un corno. Un uomo innocente si ritrova con la faccia spappolata a meno di cinque metri da te, e tu cosa fai? Non batti ciglio, come se fosse tutto normale.»
Sospirò e abbassò lo sguardo, un gesto dettato non dalla vergogna, bensì dall’esasperazione. Era spazientita perché, nonostante le sue proteste, volevo a tutti i costi sostenere quella conversazione in quel luogo e in quel momento.
«E il tipo che lo uccide è, guarda caso, uno degli uomini sulle tue fotografie. Sullo sfondo della foto di Klein e Grier, quello intento a parlare. E quell’immagine, in caso non te ne sia accorta, è stata scattata su uno scavo governativo. Perciò il tizio lavora per il governo, e dubito che questo sia di conforto per il poveraccio che ci ha lasciato le penne vicino all’Arca dei», proseguii.
Restò calma. «Sulla foto? L’hai notato?»
«Faccio il detective, Sarah. Mi pagano per notare dettagli come quello.»
All’improvviso andò su tutte le furie.
Si sporse in avanti e avvicinò il viso al mio, quasi sputandomi addosso le parole. I suoi occhi mi dissero che sarebbe stato meglio pensarci due volte prima d’interromperla.
«Ora sai quanto sia seria questa faccenda, Nick. Non si tratta delle armi nucleari, del controllo di Internet o della presidenza USA, ma di qualcosa di molto più grande e d’infinitamente più importante. E ti stupisce che anche i buoni uccidano? È così che funziona. Apri gli occhi e cerca di capire in cosa ti sei cacciato.»
«In cosa mi hai cacciato.»
«Hai visto il testo, Nick, perciò l’unica ragione per cui sei ancora vivo è che ti ho portato qui, perché hanno intuito che stiamo seguendo una pista e ci lasciano continuare. Se avessimo dato loro l’impressione di non aver cavato un ragno dal buco, ci avrebbero fatti fuori ieri, come i tuoi due amici a Los Angeles.»
«Wells e Rodriguez?»
I suoi lineamenti si distesero e la collera svanì dalla sua voce. «Sì.»
«Perché?»
«Lo capirai col tempo.»
Ero stufo di aspettare. Era già abbastanza sgradevole prima che le persone iniziassero a morire, ma ora?
«Adesso basta, voglio sapere. Subito. Chi sono con esattezza i cattivi?»
Sospirò. «Tutti, Nick.» Raccolse lo zaino. «Tutti quelli che vogliono mettere le mani sulle tavole sono cattivi. È un concetto abbastanza semplice per te?»
La guardai dritta negli occhi e vidi soltanto un lampo di sfida. Non aveva paura di me più di quanta ne avesse avuta dell’americano. «Che mi dici di te, Sarah? Da che parte stai, da quella dei cattivi?»
«Dovresti già conoscere la risposta, altrimenti la scoprirai presto. Sempre che tu decida di rimanere. Ma lascia che ti dica una cosa: finché abbiamo queste, restiamo vivi. Se le perdiamo o se ci separiamo, siamo spacciati.» Guardò lungo la discesa. «E gli uomini della foto? Certo, lavorano per il governo, ma indovina un po’? Formano un team, Nick. Sono pagati per fare una cosa e una cosa soltanto. Uccidere. Ma non lavorano mai da soli. Perciò, se fossi in te, smetterei di preoccuparmi di me e mi chiederei chi sia il suo amichetto.»
Si mise lo zaino in spalla e si avviò a passo tranquillo, come se non avesse un solo pensiero al mondo. Indugiai un istante, quindi la seguii.
Quando fummo nei pressi del parcheggio, la fermai. Lungo la strada, oltre la fila di alberi, scorsi un’altra vettura posteggiata accanto alla nostra: una Land Rover verde oliva. Non militare, ma decisamente simile.
Peggio ancora, distinsi un paio di anfibi tra le basi dei tronchi, e nella brezza che soffiava lungo la viuzza fiutai l’odore di una sigaretta.
Cominciavo a odiare il fatto che Sarah avesse sempre ragione.
Le feci segno di restare dov’era e camminai all’ombra del castello, tenendomi il più possibile vicino all’erba e agli alberi per non essere visto né sentito.
Era l’altro tizio della fotografia, tranquillo e rilassato come se stesse aspettando l’autobus. Un uomo era morto, e lui se ne stava appoggiato all’auto, a fumare e prendere il sole. A differenza del suo amico, portava gli occhiali scuri. Stringeva la sigaretta in una mano e una radio nell’altra. Indossava una T-shirt blu, e più mi avvicinavo e meglio scorgevo il suo tatuaggio nero-blu, tracciato su uno dei bicipiti più possenti che avessi mai visto.
Il disegno non era curioso o moderno come quello del cadavere, ma era subito riconoscibile: Navy SEAL, le forze speciali d’élite della marina americana. Ecco spiegato perché quei due non avevano temuto di fallire nemmeno per un secondo e perché avevano deciso di parcheggiare la jeep accanto alla nostra auto, anziché nasconderla sulla strada. Avevano pensato che sarebbe stato un gioco da ragazzi e avevano quasi indovinato, ma erano arroganti e io amavo gli avversari di quel genere. Guardai la Fiat e capii che era una trappola in cui avrei dovuto evitare di cadere.
Avanzai di soppiatto, aspettai che soffiasse una boccata di fumo e alzai la pistola che avevo sottratto al suo compagno, col silenziatore a tre centimetri dal suo orecchio destro. Poi, sopra la spalla sinistra, gli feci penzolare un mazzo di chiavi col logo della Europcar. «Molla la radio, prendi le chiavi e avvia la mia macchina.»
Non si girò. Era ben addestrato. «Cosa dovrei fare?» chiese sprezzante.
«Ho detto: ’Avvia il mio cazzo di macchina’. L’ho noleggiata, e me l’addebiteranno se non la riporto indietro tutta intera. Perciò monta, accendi il motore e aspetta che salga anch’io.»
La radio cadde con un tonfo sordo. Mentre l’uomo andava verso la Fiat, chiamai Sarah, raccolsi la radio e la gettai tra gli alberi. Poi, senza staccargli gli occhi di dosso, tolsi le chiavi della Land Rover dall’accensione, ma non le buttai via. Non ancora.
Lui schiacciò la sigaretta sotto l’anfibio, si mise al volante e, tenendo la portiera aperta mentre io restavo a distanza di sicurezza, inserì la chiave. Trattenni il respiro e lo sconosciuto m’imitò, anche se non saprei ancora dire il perché, dato che stavo verificando che lui non avesse manomesso la Fiat. Il motore partì.
Scagliai le chiavi nella stessa direzione della radio e gli feci segno di uscire, mentre Sarah si accomodava sul sedile del passeggero. Dopodiché, mi avvicinai alla portiera del conducente, ancora spalancata.
«Vi prenderemo. Molto presto», dichiarò in tono beffardo.
Aveva tutta l’aria di una persona capace di uccidere con una mano, mentre con l’altra mangiava tranquilla un gelato o fumava una sigaretta. Era anche sfacciato, come se non vedesse l’ora di piantarci una pallottola in corpo.
«Il tuo amico potrebbe non essere morto… per ora.» Sfoderai il sorriso più cinico che riuscii a fare, scivolai sul sedile e ingranai la prima.
Sarah guardò fuori del finestrino, poi si girò verso di me con espressione eloquente. «L’hai soltanto legato alle corde.»
«Io lo so e tu anche, ma per fortuna lui è troppo stupido per intuirlo.»
Non ci sono molti Autovelox sulla D-613, grazie a Dio, e forse le Fiat non sono le automobili più veloci del mondo, ma, mentre tornavamo a Couiza, lanciai la nostra a quasi centosessanta chilometri orari. Continuai a controllare lo specchietto retrovisore, aspettando che la Land Rover comparisse da un momento all’altro.
Non accadde.
Dopo aver superato Couiza, lanciai la pistola nei campi sconfinati che fiancheggiavano la strada. Certo avrei preferito tenerla, perché mi faceva sentire più al sicuro, ma non avrei più potuto sbarazzarmene una volta che avessimo imboccato l’autostrada, e di sicuro non volevo entrare in aeroporto con una rivoltella infilata nella cintura, né lasciarla a bordo di un’auto a noleggio. Avevo già abbastanza grattacapi.
Ogni veicolo che ci sorpassava, che procedeva nella direzione opposta o che si materializzava nello specchietto retrovisore era una potenziale minaccia. Quegli uomini facevano sul serio. Molto sul serio. Avevano colpito il vecchio, gli avevano sparato alla testa e gli avevano spiaccicato la faccia sul pavimento senza la minima esitazione, soltanto per dimostrarci che non stavano scherzando, per convincerci a obbedire.
La vita non va mai secondo i piani, non è vero?
Quando ci fummo lasciati alle spalle le indicazioni per Alet-les-Bains, inspirai a fondo e guardai Sarah. «Quante probabilità ci sono che mi spieghi la faccenda del pennarello?»
Tenne gli occhi incollati alla strada, senza fiatare. Pensai che non avesse intenzione di rispondere, poi: fece un respiro profondo, come a dire: Non ho intenzione di dirti ciò che non voglio che tu sappia. Dopodiché parlò: «Non è niente, davvero».
«Hai scritto ’Vaffanculo, Klein’, e non è niente?»
«Non lo vedrà finché non sarà troppo tardi. Comunque, a turbarti non è quello che ho scritto, ma ciò che ho disegnato, giusto?»
Aveva fatto centro. Avevo dato un’occhiata appena, ma sapevo benissimo cosa avevo visto. «Come fai a conoscere quel simbolo?»
«È sulle tue foto, quelle dell’autopsia dell’uomo nudo.»
«Ma tu non le hai viste.»
«Già, che sciocca.» Sorrise per farmi capire che aveva voluto farsi smascherare, che avevo semplicemente fatto il suo gioco.
«Ti decidi a dirmi come diavolo fai a sapere del tatuaggio?»
«No. Non ancora, almeno», rispose, con l’espressione furba di chi ha diversi assi nella manica.