9

Ladera Heights, Los Angeles,

giovedì, 9 giugno 2011

L’unica cosa dietro la farmacia su Jefferson, a parte un quadrato di puro squallore minacciato dalla riqualificazione da che ricordavo, erano alcuni magazzini con porte e finestre chiuse da assi. Probabilmente il posto adatto per un locale underground, pensai, e senza dubbio la sede ideale per uno clandestino. Il che l’avrebbe soltanto reso più difficile da trovare. Dopo aver fatto un giro durante il quale non avevo visto né sentito nulla, parcheggiai sotto un lampione tremolante vicino al bidone della farmacia e mi accesi una sigaretta. Non volevo nascondermi, piuttosto osservare e sperare. Non dovetti aspettare a lungo.

Due ragazzi e una ragazza, tutti cuoio e catene. Strafatti, immagino. Avevano tutta l’aria dei fricchettoni, notai ironicamente, e avrei potuto fermarli e interrogarli, ma preferii restare a guardare. I tizi erano molto robusti, uno con la testa calva; indossavano pantaloni di pelle lucida e grossi stivali. Camminavano a passo deciso, trascinandosi dietro la loro amica, i cui lunghi capelli ossigenati erano raccolti in una specie di chignon. Incespicava a intervalli regolari su tacchi a spillo che non erano fatti per il pietrisco. Tutti e tre fumavano a turno qualcosa che con ogni probabilità non veniva venduto in pacchetti da venti al Jack’s Shack.

Quando furono arrivati in fondo alla via, andarono dritti verso la porta del quinto magazzino. Come le altre, era poco più di una lastra di acciaio arrugginito. A differenza delle altre, però, non era chiusa a chiave. Svanirono in un batter d’occhio. Guardai su e vidi che le finestre erano tutte rotte, con gli ultimi raggi di sole che mandavano bagliori grigio-azzurri attraverso una serie di vetri frantumati. Il che spiegava la mancanza di rumore, dedussi. Quello non era un locale underground soltanto nel senso di «anticonformista», ma anche di «sotterraneo».

Scesi dall’auto, l’aria era fresca ma non molto pulita, e attraversai la strada. Raggiunsi la porta e, poiché non c’era una maniglia degna di questo nome, strinsi le dita intorno al lato della lastra di acciaio. Si aprì con un cigolio cupo e sommesso. Una scala di ferro, anch’essa arrugginita, scompariva in un abisso di depravazione che non volevo neanche immaginare. Udii una musica martellante che saliva da quella direzione, così chiusi l’uscio e andai giù, ringraziando il Signore per le scarpe comode e con la suola morbida.

In fondo ai gradini c’era un altro tipo calvo, grosso come un armadio. Aveva gli occhi minacciosi di chi viene incaricato di sorvegliare le porte proprio perché ha gli occhi minacciosi. Accanto a lui c’era un barattolo di latta aperto, con dentro molte banconote e un paio di altre cose: bustine di pasticche e di polvere. Intuii che non erano vendute per alleviare la diarrea di chi era abbastanza stupido da attaccar briga col buttafuori.

«Posso aiutarti?» La sua voce era calma, se non addirittura cortese, ma molto severa.

Ebbi l’impressione che non volesse affatto aiutarmi. «No, grazie.» Proseguii verso la seconda porta, illudendomi che potesse funzionare.

Mi sbarrò la strada e mi afferrò per il colletto, alzò lentamente il braccio e, benché io sia tutt’altro che mingherlino, mi sollevò di qualche centimetro.

Sorrisi disinvolto, estrassi il distintivo e glielo misi davanti agli occhi. «Ascolta…» – abbassai lo sguardo sulla sua mano – «… Jake.» Se non si chiamava così, era stata un’idiozia tatuarsi quel nome sulle nocche, a meno che Jake non fosse la sua puttana. «Sto cercando una ragazza. Se mi lasci fare il mio lavoro, potrei dimenticare di aver visto altre cose. Questo posto, ad esempio. Quando dovremo arrestare un po’ di spacciatori e dovrò proporre qualche idea, è probabile che non ricorderò più l’esistenza del Freex. Ci siamo intesi?»

«Quale ragazza?» Inclinò la testa sul collo taurino, scoprendo un tatuaggio.

«Ho detto: ’Fammi una domanda e lasciami andare’ o soltanto: ’Lasciami andare’?»

Rifletté. Poi, con riluttanza, abbassò il braccio e mollò la presa.

Mi sistemai il soprabito e sorrisi. «Grazie, Jake, è stato molto… gentile da parte tua.»

Aprì l’uscio come un portinaio losco e udii qualcosa come «non azzardarti a causare problemi, altrimenti…» prima di essere assordato dalla musica. Cristo, stavo diventando vecchio. Almeno per un volume così alto.

La stanza era piena di fricchettoni. Alcuni assomigliavano ai tre che avevo incrociato, altri a motociclisti e altri ancora a nulla che avessi mai visto in vita mia. Sadomasochisti con piercing alla lingua, ai capezzoli e forse anche nelle parti del corpo che si vedono soltanto se si fanno giochi strani sotto le lenzuola. E, sì, avevano i capezzoli scoperti. Altrimenti come avrebbero potuto incatenarsi tra loro? Maschere, cuoio, PVC (in più colori di quanti ne avessi mai conosciuti) e stivali alti fino alle cosce, con più cromature di una Harley Davidson.

Nelle gabbie appese al soffitto si dimenavano tre tipi di ballerini: le ragazze, i ragazzi e gli indecisi, tutti illuminati da luci pulsanti colorate e da raggi laser verdi. Al centro, un uomo (credo) avvolto da capo a piedi in una tuta di PVC rosso era legato a un crocifisso dorato, con lunghe unghie finte e strisce di stoffa scarlatta che riproducevano lo sgocciolio del sangue. Invece di ballare, si limitava a contorcersi. «I don’t want your dirty love, I don’t want you touching me…» urlavano le casse dello stereo.

Ero senza parole.

In alto s’intersecavano alcune gru a ponte, senza dubbio dotazioni originali del magazzino. Ero stato in un locale simile una volta, vicino a Venice Beach. Quello, tuttavia, era stato solo una pallida imitazione del Freex, un posto alla moda per ragazzetti ricchi e famosi che volevano dimostrare quanto fossero originali prima di tornare alla normalità delle loro case lussuose.

Il Freex era molto diverso, zeppo di persone che avrebbero dovuto essere ricoverate all’Oakdene. Scommetto che c’erano più manette là dentro che in una centrale di polizia.

Mi feci largo tra la calca, dirigendomi verso il bancone illuminato dai neon che erano sul lato opposto, e mi scusai quando urtai un’adolescente dai capelli rossi fasciata in una tuta blu metallizzato. Soltanto dopo aver raggiunto il bar mi accorsi che in realtà non indossava una tuta, anzi, che non indossava nulla, tranne un po’ di vernice nei punti strategici.

Scacciai quel pensiero e feci segno al barista. È vero che è sempre meglio infilarsi i guanti di lattice quando si preparano cibi e bevande, ma è bene anche non esagerare. Quel tipo era coperto di gomma dalla testa ai piedi. Cristo, non aveva caldo? Io stavo sudando, perciò lui doveva essere fradicio.

«Sarah Fiddes?» chiesi. Dovetti ripeterlo tre volte, avvicinandomi sempre di più al grumo di gomma nera che doveva essere un orecchio. Alla fine indicò l’estremità del bancone, dove una giovane dai capelli nero corvino stava parlando con una versione fai-da-te del Puntaspilli di Hellraiser. Tecnicamente, ero ancora in servizio, così ordinai una Coca-Cola con molto ghiaccio e, quando arrivò, mi avviai verso la ragazza.

Mi fermai dietro di lei, chinandomi verso i tre piercing sul suo orecchio, e ripetei il nome: «Sarah Fiddes?»

Si girò e mi squadrò, impassibile. Aveva i capelli arruffati che le cadevano davanti agli occhi, un rossetto nero contornato da un filo di matita e sagome nere dipinte a mano intorno alle palpebre, come ali di pipistrello appuntite che si allungavano sulle guance. Sembrava più una diciottenne che una trentenne. «Chi vuole saperlo?» domandò strafottente.

«Detective Lambert, polizia di Los Angeles.» Le mostrai il distintivo. «Sono qui per tua sorella.»

Batté lentamente le palpebre, poi scrollò le spalle. «Allora sbaglia persona. Io non ho nessuna sorella.» Si voltò e riprese la conversazione col Puntaspilli umano.

Invece sì che aveva una sorella. Ne ero certo, e non soltanto perché Maggie mi avesse detto dove viveva o perché Billy mi avesse rivelato dove era andata quella sera. E nemmeno perché il barista me l’avesse indicata senza esitazione. Ne ero sicuro perché in quei pochi secondi avevo visto qualcosa d’inconfondibile tra le ali di pipistrello: i suoi occhi. Lo stesso marrone penetrante e la stessa forma a mandorla di quelli di Tina. Truccali finché ti pare, tesoro; non ce la farai mai a nasconderli.

Benché fosse stata brava a ostentare indifferenza, non era riuscita a camuffare una parvenza di curiosità, se non addirittura di preoccupazione. Non sono uno psicologo, naturalmente, ma perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi per una sorella che non ha?

«Le ho fatto visita», urlai, nel tentativo di soverchiare la musica. Sarah non si girò. «Non avevo mai visto occhi come i suoi.» Feci una pausa. «Fino a oggi.»

Si voltò, furiosa. «Perché diavolo è andato da mia sorella?»

«Credevo che non avessi una sorella.»

«Infatti non ce l’ho», ribadì noncurante. Sospirò, rassegnata. «Dicevo… perché è andato a trovarla?»

Pescai dalla tasca la fotocopia del testo latino. «Devo sapere cosa sai dirmi di questo.»

Lesse, chiese scusa al Puntaspilli e si concentrò su di me. «Dove l’ha preso?» Sembrò di nuovo preoccupata. Molto preoccupata. Anzi, allarmata.

«Non posso dirtelo, ma hai notato l’appunto in cima al foglio?»

Il nome di Tina e il numero della sua stanza. Altroché se l’aveva visto. «Chi l’ha scritto?»

«Speravo che me lo dicessi tu.»

Esaminò il testo. «Sa di cosa si tratta?»

«Non ancora. E tu?»

«Oh, sì. Almeno credo.»

«Cosa pensi che sia?»

«Guai», rispose a voce così bassa che dovetti quasi leggere il labiale. Mi fissò. «Il fatto che lei non lo sappia significa che ci sono buone probabilità che lei sia in guai più grossi di quanto immagini.» Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro. Quindi si guardò intorno, scrutando ogni volto. Mentre gli altri erano sorridenti o volutamente tristi, lei sembrava spaventata. Quando vide che non c’era nulla di strano, mi afferrò il braccio. «Faremmo meglio ad andarcene. Immediatamente.»

La seguii.

«Che genere di guai?» domandai, mentre salivamo sulla Taurus.

Non rispose. Non subito. Prese un pacchetto di gomme dalla borsetta e me l’offrì. Rifiutai. Dopo essersene messa una in bocca, accennò al testo latino. «Quante persone sanno che ha questa fotocopia, detective?»

«Il mio caposezione e alcuni colleghi alla stazione di polizia. Nessun altro.»

«Allora è fottuto.»

«E perché, per l’esattezza?» insistetti tranquillo. Sono stato fottuto più volte di quante riesca a ricordare. In senso figurato, almeno.

«Perché questo testo non dovrebbe esistere. So che esiste, e lo sanno anche molti altri, ma ciò non significa che esista davvero. Ufficialmente, intendo.»

«Ma cos’è? E, tra parentesi, perché non esiste ufficialmente?»

«È una mappa. E, tra parentesi, una mappa molto importante.»

Scese il silenzio, rotto soltanto dallo sferragliare dell’auto sul pietrisco e dai nostri respiri. Poi, mi tornò in mente un dettaglio. «Perché mi hai mentito?» Sbucammo su Jefferson da dietro la farmacia. «Perché mi hai detto che non avevi una sorella?»

In lontananza, un cane, forse incatenato e incazzato nero, abbaiava a intervalli di un secondo. Lo udii con chiarezza durante il silenzio di Sarah, prolungato e piuttosto fastidioso.

«Ho i miei motivi», rispose alla fine. «Mi dica, detective, da quanto tempo fa questo lavoro?»

Il più delle volte chiudo un occhio sulle persone che cambiano discorso. Di solito è una strada diversa, d’accordo, ma molto raramente è un vicolo cieco. «Da quando avevo ventiquattro anni. Troppo tempo.»

«Le piace?»

«Lo odio.»

«Allora perché lo fa?»

«Credevo di dover essere io a fare le domande.»

«Si è sbagliato, se ne faccia una ragione.»

«Non so fare nient’altro.»

«Pulisce mai la macchina?» Accennò al mucchio di spazzatura nel vano piedi del passeggero.

«No.» Era la verità.

Guardò fuori del finestrino e continuò a masticare la gomma come un’adolescente.

«Dove porta la mappa?» chiesi.

«Sarebbe meglio domandarsi ’a cosa’ porta. Porta, o meglio, dovrebbe portare a qualcosa che è scomparso moltissimo tempo fa. Qualcosa di molto importante.»

«E cioè?»

«Mi dica, con tutti i detective che esistono, perché hanno assegnato questo caso proprio a lei?»

«Non è quello che ti ho chiesto.»

«Obiezione accolta, ma la domanda rimane.»

Cominciavo ad apprezzare quella ragazza. «Non me l’hanno assegnato.»

«Ma ha fatto visita a Tina?»

«Sì, ma soltanto perché mi affibbiano sempre gli incarichi più di merda. Senza offesa per tua sorella.»

«Nessuna offesa. Ma come mai?»

«Come mai mi affibbiano gli incarichi più di merda, intendi? Forse perché non importa a nessuno se combino dei casini.»

«Ha questa abitudine?»

«Secondo Deacon, sì.»

«Chi è Deacon?»

«Il mio capo.»

«Lo trova simpatico?»

«Non lo sopporto.»

«Ha stima di sé?»

Mi aveva colto alla sprovvista. Ragazza sveglia. «Prego?»

«Ha stima di se stesso?» ripeté, scandendo le parole.

«Più di quanta ne abbia di Deacon.»

«Allora è un detective che, pur non sapendo fare nient’altro, non riesce a fare bene nemmeno il detective?»

«Più o meno. Grazie per aver messo le cose in chiaro.»

«È molto sincero», commentò.

Aveva tanto da imparare.

«Ora tocca a te: ’a cosa’ porta la mappa?»

«È scritto qui.» Fece scorrere l’indice lungo una riga del testo. «Latito fus Deus et hominis. Le leggi divine di Dio e dell’uomo.»

«Che sarebbero?»

Rifletté. Poi, in tono molto, molto sarcastico: «Oh, non si prenda il disturbo di far tradurre il testo prima di aver visto una cosa coi suoi occhi. Sono sacre, detective. Molto sacre.»

Riesaminò il foglio, cambiando espressione a ogni riga: consapevolezza, shock e, infine, stupore. In passato avevo visto quella sequenza solo sul volto dei morti. In quel caso rappresentava l’istante in cui non soltanto avevano incontrato Dio, ma si erano anche resi conto un po’ troppo tardi che erano dovuti morire per vederlo. Non sapevo, invece, cosa significasse per Sarah. Non ancora.

«Molte persone, me compresa, aspettano da tempo di dimostrare l’effettiva esistenza di questo documento e di tenerlo tra le mani.»

«E ora che ne hai la possibilità? Di tenerlo tra le mani, intendo.»

Fece una risatina nasale che s’intonava alla perfezione con la sua aria rassegnata. «Sono fottuta quanto lei, detective.»

«Io non mi preoccuperei. Nessuno sa che ti ho rintracciata.»

«Splendido. Quindi è anche un detective ingenuo. Magnifico.»

Ricordai che, secondo Maggie, Sarah aveva portato all’Oakdene del materiale su cui stava lavorando. «Dimmi, cosa fai per guadagnarti da vivere?» A essere sincero, dati i vestiti neri, i capelli corvini e la concezione bizzarra del trucco, devo ammettere che dava l’impressione di non fare un bel nulla.

«Sono indagata, forse?» Abbassò la testa. Non avrei saputo dire se fosse ancora irritata, ma il fatto che avesse risposto a una domanda con un’altra domanda m’indusse a concludere che lo era. «Mi dispiace, detective, sono stata scortese. Faccio l’archeologa freelance.»

Mi fermai all’incrocio con Westwood Street, nell’attesa che il semaforo diventasse verde. Le strade erano molto più silenziose adesso che era scesa l’oscurità. «Cosa fa di preciso un’archeologa freelance?»

«Dipende. Personalmente, mi occupo solo di manufatti religiosi. Ritrovo oggetti perduti di valore spirituale per conto dei miei clienti e… be’, li dissotterro.»

«Chi ti affida gli incarichi? La Chiesa, fanatici religiosi?» C’era forse qualche differenza?

Si mise una ciocca dietro l’orecchio destro e guardò fuori del finestrino. «No. Soltanto persone che vogliono avvicinarsi un po’ di più a Dio senza l’aiuto di un’istituzione inutile.»

«Si tratta di manufatti preziosi?»

Inclinò il capo da una parte e dall’altra, facendo tintinnare la collana. Solo allora mi accorsi che, nonostante l’ultimo commento, indossava un grosso crocifisso nero. «Dal punto di vista spirituale, forse. I miei clienti attribuiscono un certo valore ai reperti che recupero, è naturale, ma dubito che venga misurato come crede lei.»

«Ma ti pagano? La vera realizzazione spirituale non può essere a buon mercato, giusto?»

«’Sappi che tale è la sapienza per te: se l’acquisti, avrai un avvenire’», recitò con un sorriso sardonico. «Sì, detective, mi pagano abbastanza bene.»

«Cosa c’entra tua sorella in tutto questo? Maggie dice che ogni tanto porti dei fascicoli all’Oakdene e li mostri a Tina. Perché?»

Evidentemente non aveva previsto quella domanda. Non aveva immaginato che fossi a conoscenza di quel dettaglio. Parve scioccata, ma si riprese subito.

«Tina è una persona molto speciale.» Si spostò una ciocca di capelli dagli occhi. Abbassò la voce e pronunciò una serie di frasi frammentarie, come se stesse scegliendo le parole con cura: «È unica. A volte dà l’impressione di non vedere niente, ma in realtà è l’esatto contrario. Vede tutto. Cose che io e lei non noteremo mai. Solo che non lo dimostra. Coglie una struttura in cose che appaiono casuali e ordine dove sembra che regni il caos. Di tanto in tanto, questo dono mi ha aiutata a trovare i manufatti».

«’A trovarli’ come?»

«Tina vede gli schemi, detective. Sa, gli oggetti che cerco non sono andati smarriti come le chiavi di un’automobile. Qualsiasi idiota avrebbe potuto imbattersi in qualcosa che fosse andato perso e, nel caso dei miei reperti, avrebbe avuto molti secoli per farlo. No, questi manufatti non sono stati trovati per il semplice motivo che sono stati nascosti. In modo molto, molto accurato. Esistono indizi sulla loro ubicazione, ma spesso sono così discordanti che sembrano non avere nessun nesso. A meno che non si riesca a vedere lo schema e a individuare il legame. Alcuni sono opera di uomini geniali come non ne conoscerà mai in vita sua, uomini che precorrerebbero i tempi anche oggi.» Si appoggiò allo schienale. «Quando non riesco a capire come interagiscono, Tina mi dà una mano.»

«Ma perché una persona che centinaia di anni fa ha nascosto un oggetto con grande scrupolo avrebbe dovuto lasciare indizi sulla sua ubicazione?»

«In caso fosse morta, detective. Il che, data l’epoca in cui viveva, era più una probabilità che una possibilità. Ricordi, questi oggetti sono profondamente spirituali, preziosi non soltanto per l’uomo, ma anche per la storia. Erano e sono assai più importanti di una singola vita umana. Sono stati nascosti, ma solo per proteggerli nel breve termine. Non avrebbe dovuto esistere il rischio che scomparissero per sempre; erano destinati a tornare alla luce non appena fosse passato il pericolo che cadessero nelle mani sbagliate. Così i custodi si assicuravano che se qualcosa fosse andato storto, se fosse capitato loro qualcosa, qualcuno di cui si fidavano, o in grado di capire, potesse recuperarli e restituirli al mondo. È un po’ come inserire un sistema fail-safe o una back-door in un software.»

«E cos’è Tina, il tuo hacker?»

«Esatto, detective. Da più punti di vista di quanti possa immaginare.»

«Allora perché non usare un computer?»

«Non funzionerebbe. I computer sono veloci, ma ragionano da computer, ossia non ragionano affatto. Sanno usare la logica e la geometria, ma nemmeno il programma più potente conosce concetti come ’astratto’ o ’insinuazione’. La mente umana invece sì, e nessuna è più veloce di quella di Tina. Mia sorella è davvero unica.»

Ripensai a Maggie e alle sue osservazioni sulle capacità scacchistiche della paziente. Aveva detto che a essere sconcertanti non erano soltanto le sue mosse, ma anche la rapidità con cui le effettuava, e che non si trattava d’intelligenza e basta, ma soprattutto della fulmineità con cui veniva usata. Se qualcuno avesse voluto trovare un manufatto religioso, un oggetto prezioso, seguendo gli indizi seminati da un uomo capace di creare nessi inverosimili, non avrebbe avuto voglia di leggere pagine e pagine nel tentativo di individuare e interpretare quei nessi. Si sarebbe rivolto a qualcuno che potesse aiutarlo a trovare le risposte con rapidità.

Parcheggiai su 7th Street, sempre dietro il pick-up. La strada era deserta a eccezione di qualche veicolo che filava via senza una meta precisa e di un’auto della polizia impegnata in un sopralluogo per tenere alla larga i teppisti.

«Dunque, se qualcuno avesse tutti gli indizi – gli elementi che tu raccogli normalmente –, Tina sarebbe la persona giusta cui portarli. Se si volesse capirne il senso, intendo.»

Sarah slacciò la cintura di sicurezza. «Sì, sarebbe la più indicata.» Sospirò e mi restituì il foglio. «Mi dica, cosa gradisce il sincerissimo detective Lambert quando non beve Coca-Cola con ghiaccio?»

Consultai l’orologio. Il mio turno era finito. «Jack Daniel’s con ghiaccio. E chiamami Nick.»

«Bene, Nick.» Scese dalla Taurus. «Visto che siamo entrambi fottuti, ne preparerò uno bello grosso. Poi potrai dirmi cos’altro mi hai portato e, soprattutto, dove diavolo l’hai trovato.»

La Teoria Dell'eternità
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