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Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,
venerdì, 20 aprile 2040
Fu uno dei team costituiti più in fretta nella storia della KRT: diciotto giorni esatti, tutti gli altri progetti riassegnati. Comprendeva cinque uomini e una donna, che in quel momento erano seduti in fondo al tavolo della sala del consiglio d’amministrazione, progettato per ospitare più del triplo di persone.
A capotavola, come sempre, era accomodato Josef Klein, figlio d’immigrati tedeschi che aveva studiato al MIT e poi aveva iniziato a lavorare per il governo americano, i cui finanziamenti erano serviti a fondare la KRT: una società che era in grado non soltanto di portare a termine gli incarichi governativi, ma anche di gestire i progetti da cui le autorità potevano, a volte, aver bisogno di dissociarsi.
A settantatré anni, pur non dimostrandone più di cinquanta ed essendo ancora molto attivo per la sua età, Klein era ormai il settimo uomo più ricco degli Stati Uniti e il tredicesimo del mondo, ed era diventato molto, molto potente. A suo parere, però, il potere non bastava mai.
Al suo fianco c’era David A. Sherman, un altro laureato del MIT e, prima di essere assunto dalla KleinWork, docente di Fisica delle particelle al California Institute of Technology. Era colui che, mentre guardava un documentario divulgativo, aveva enunciato una teoria all’apparenza ridicola, secondo cui il mondo era poco più di un’immensa griglia numerica, formata da miliardi e miliardi di minuscole coordinate sulle quali le particelle badavano ai fatti propri. In mancanza di una definizione migliore, quella struttura si poteva considerare «controllata da computer», ossia supervisionata da un sistema computazionale non dissimile dal cervello umano (ma assai più potente). Il computer stabiliva le leggi e ogni tanto interveniva per difenderle. Tuttavia, era «violato» ogni volta che un essere vivente formulava un pensiero o compiva un’azione.
Alcuni esseri viventi, soprattutto quelli capaci di utilizzare più del dieci per cento «regolamentare» del proprio cervello, potevano penetrare un po’ più a fondo; taluni riuscivano a spostare gli oggetti senza toccarli, altri a leggere nel pensiero senza parlare e altri ancora a vedere gli eventi futuri. Era una teoria stramba, che, se mai fosse stata resa di dominio pubblico, si sarebbe attirata lo scherno degli scienziati «seri» di tutto il pianeta.
Ma questo, a quanto pare, fino a diciotto giorni prima.
La terza persona seduta al tavolo era Peter Strauss, che col suo test sull’innalzamento del punto di fusione del siberio aveva condotto alla scoperta. Quel giorno, non aveva visto quasi nulla, perché aveva passato la maggior parte del tempo lungo disteso sul pavimento, ma aveva notato il topo, o meglio, la sua misteriosa scomparsa. Poi, aveva esaminato i risultati: le variazioni di temperatura, umidità, elettricità, campi magnetici e gravitazione. E aveva visionato il nastro. Quello, assieme alla sua competenza nella fisica delle particelle, era il motivo per cui faceva parte del team.
Tra gli uomini presenti, tuttavia, erano gli altri due a essere gli ingegneri più qualificati. Provenivano da altre filiali della KRT, una in Giappone e l’altra nel Regno Unito.
Nagariki Haga conosceva benissimo sia la progettazione e la costruzione di sistemi azionati elettricamente, sia la dispensazione regolata delle cariche, mentre Andrew Kerr era stato membro del team responsabile della tecnologia senza onde brevettata dalla KleinWork ed era un esperto nel campo della trasmittanza e della ricezione. A quel punto, si riteneva che, per questa semplice ragione, la sua presenza nella squadra fosse indispensabile. Anche in caso contrario, Kerr aveva abbastanza esperienza in molti ambiti dell’elettronica – come l’assemblaggio di chip, la progettazione di circuiti integrati e l’elaborazione dati – per dimostrare la propria utilità.
Infine, c’era Alison Bond. Giovane, bellissima e non così «sequenzialmente consapevole» come avrebbe potuto far credere il suo coinvolgimento nel progetto NorthStar. Ciononostante, era intelligente e capace di teorizzare, dedurre e applicare a quasi ogni problema quella che Strauss aveva sempre definito «logica contorta». Inoltre, possedeva una capacità di anticipazione che gli scacchisti potevano soltanto sognare. Quello, più il fatto che era stata a stretto contatto coi soggetti «sequenzialmente consapevoli» per più di ventotto anni e che (come Strauss) aveva visto i risultati, aveva reso scontata la sua inclusione nel gruppo.
Kerr, il cui volo da Londra era atterrato in ritardo, era stato l’ultimo ad arrivare, ma ormai il team era al gran completo, con davanti cinque copie del memorandum compilato da Sherman e cinque tazze di caffè. Klein era in piedi a capotavola, con uno schermo piatto da cinquantotto pollici che gli brillava dietro le spalle.
«Benvenuti.» Il tono leggermente rauco era l’unica cosa che rivelasse la sua vera età. «Siete il contingente di quello che d’ora in poi si chiamerà ’progetto Sequence’. Sono certo che è superfluo ricordarvi che, come tutti i progetti di cui ci occupiamo, è top-secret. Non dovrete fare parola con nessuno di ciò che verrà detto oggi in questa stanza.» Sorrise senza calore, con la crudeltà minacciosa che sapeva manifestare così bene. «Vi starete domandando cos’è il progetto Sequence. Innanzitutto, permettetemi d’informarvi che è in corso da centotrentadue anni.» Premette un tasto su un telecomando palmare e sullo schermo fu visualizzata l’immagine di una fitta foresta attraversata da un’enorme fascia brulla e desolata. «Questa è Tunguska, nella Siberia occidentale, la regione in cui è precipitato il meteorite del 1908. Come forse alcuni di voi sapranno, non è mai stato trovato nessun frammento, a dimostrazione del fatto che l’esplosione si è verificata molti chilometri sotto il livello del suolo.»
Comparve la diapositiva di un buco di sei metri nel terreno, sovrastato da un grande impianto munito di cinque argani. «Questo è il risultato dell’esplosione: nel 2011, a più di quattrocento chilometri da Tunguska abbiamo rinvenuto il cuore del meteorite, sepolto a una profondità di milleottocento metri.»
Klein inquadrò la sfera in loco, ancora incrostata di roccia nera fusa. «Dopo aver estratto il nucleo, abbiamo scoperto che era composto di un elemento sconosciuto sulla terra, forse il prodotto delle interazioni chimiche avvenute quando una stella, da qualche parte nell’universo, ha raggiunto la fine della sua vita naturale, migliaia se non addirittura milioni di anni fa. Il materiale, molto denso e pesante, è un cattivo conduttore di calore, ma ha proprietà magnetiche intrinseche tali da mostrare caratteristiche gravitazionali misurabili, equivalenti alla metà di quelle rilevabili sulla luna. In realtà, crediamo che se questo materiale supercondensato avesse le stesse caratteristiche atomiche del granito, ad esempio, si espanderebbe fino a essere grande circa un terzo del nostro satellite. Dunque, potete immaginare quanto sia condensato questo elemento. Ma ne riparleremo più avanti.»
Si voltò verso lo schermo, richiamando l’immagine di una delle due sfere che la KRT aveva conservato. «Diciotto giorni fa, Peter Strauss, ex membro della divisione Energia solare, ha deciso di eseguire un esperimento su una delle nostre sfere di siberio. Anche se mi piacerebbe darvi la magnifica notizia in prima persona, ritengo giusto cedergli la parola, in modo che vi fornisca alcuni dati concreti. Penso che li troverete molto interessanti.»
Alison era già preoccupata per la piega che stava prendendo la riunione. Anzi, lo era da quando aveva visto le cose che aveva provato a convincersi di non aver visto. Tuttavia, il filmato digitale, per quanto incredibile, aveva dimostrato che erano accadute davvero, e da allora era rimasta sveglia ogni notte a rimuginarci sopra.
Esisteva una sola spiegazione possibile per ciò cui aveva assistito in laboratorio, concluse, e non era nulla di buono. Quel che era peggio era che con buone probabilità sarebbe stata rivelata in quella stanza di lì a poco, e suppose che l’unico motivo per cui Klein aveva scelto i presenti con tanta cura era che voleva in qualche modo sfruttare la scoperta. Non sapeva ancora come, ma era irrilevante. Il fatto che Klein avesse quelle intenzioni e che fosse assetato di supremazia assoluta, come si evinceva anche dal modo in cui dirigeva l’azienda, le dava letteralmente i brividi.
Secondo lei, Klein non era molto diverso dagli Adolf Hitler e dai Saddam Hussein del mondo: voleva tutto e non gliene importava nulla di come lo avrebbe ottenuto, né di chi sarebbe stato calpestato lungo la strada.
A quel pensiero, Alison sospirò perché, in base alle sue conclusioni, non si sarebbe trattato di un «chi» bensì di un «cosa». Forse Klein era sul punto di danneggiare il pianeta in modo irreparabile. Anche in quell’istante, i suoi occhi dicevano: Posso farlo? anziché: Dovrei farlo?
Strauss, giovane, impaziente e trasandato come sempre, quasi saltò su dalla sedia. Tirò fuori della tasca un disco metallico rosso di circa sette centimetri e mezzo e lo infilò nella fessura verticale sulla destra dello schermo, quindi si girò verso gli altri. Klein si era riseduto e sorrideva di sottecchi, come un gatto sornione.
Strauss si passò la mano tra i capelli neri ispidi, era nervoso. «Okay, in primo luogo devo precisare che lo scopo iniziale dell’esperimento non era altro che analizzare come l’introduzione di un ambiente sottovuoto avrebbe influito sul punto di fusione del siberio, durante l’applicazione di forti scariche elettriche. Ai fini della raccolta dati, però, sono stati installati in loco diversi dispositivi di misurazione, come una telecamera, alcuni sensori, vari registratori dati e un topo di nome Charlie.» Sorrise a Alison. «Questi sono i risultati che abbiamo estrapolato dalle apparecchiature.»
Lo schermo mostrò alcuni grafici, ciascuno raffigurante le solite coordinate x e y, e una serie di linee ondulate e intersecate di diversi colori.
«Come potete vedere, la corrente elettrica era a 389, abbastanza alta, e in questo arco di tempo c’è stato un netto aumento dell’attività magnetica e gravitazionale all’interno della stanza, con un culmine in corrispondenza di questi picchi, qui e qui.» Indicò le guglie visibili su due grafici. «E un leggerissimo innalzamento della temperatura. Al massimo dell’attività, la temperatura è salita quasi all’istante di otto gradi e l’attrazione gravitazionale è diventata ventisette volte quella della terra.»
«Cristo santo, 78G?» chiese Kerr.
«Esatto. Anche se era omnidirezionale. È un dato molto affascinante, ma è stato il risultato dell’aumento gravitazionale a diventare l’aspetto più sorprendente e, oserei dire, più inquietante dell’esperimento. Come vedrete nel filmato, quando Alison e io siamo rientrati nel laboratorio, abbiamo scoperto… che Charlie non c’era più.»
«Cosa vuol dire ’non c’era più’?» intervenne Haga, un omone dalle guance grassocce e con le sopracciglia folte. Aveva una voce profonda e tonante, e un marcato accento giapponese.
Strauss si strinse nelle spalle. «Non lo sappiamo, anche se credo che tra poco Dave vi esporrà la sua teoria. A ogni modo, Charlie è scomparso, ma abbiamo il filmato digitale. Eccolo qui, amici miei.» Proiettò la diapositiva del laboratorio.
La sfera era centrata alla perfezione, con le luci che si riflettevano in larghi ovali sulla superficie impeccabile, tagliata col laser. Alcuni strumenti erano visibili sulla destra dell’immagine, con Charlie che, ignaro di tutto, zampettava nella cassetta sulla sinistra.
Sullo sfondo, Alison teneva gli occhi bassi mentre Strauss era appoggiato di lato e stava parlando. Dalla sua espressione si capiva che ci stava provando con la ragazza. Kerr ridacchiò, ma Strauss non se la prese. Il senso di vergogna non era una delle sue numerose caratteristiche.
Sullo schermo, Strauss si sedeva, si abbandonava contro lo schienale quasi con indifferenza e girava un interruttore. Si udiva un lieve ronzio. Poi un rumore molto forte, come l’urlo di cento donne, seguito da un lampo di luce azzurrina che annullava tutto il resto. Quando l’immagine tornò visibile, Strauss stava tappandosi le orecchie e cadendo all’indietro, per poi svanire. Kerr ridacchiò ancora. Poi Alison, con le gambe tremanti, disattivava l’interruttore.
Era vero. Charlie non c’era più.
Ma non era tutto. Come Alison, Kerr aveva notato qualcos’altro; a differenza della ragazza, però, non l’aveva visto di persona, ma solo attraverso la telecamera. Perciò fece un’ipotesi errata: «Ha deformato l’obiettivo».
«No, ti sbagli. Guarda, ti faccio vedere.» Strauss mandò indietro il filmato, per fermarlo poco dopo i primi accenni del rumore assordante, quindi lo mandò avanti un fotogramma alla volta. «Queste immagini sono state girate alla velocità di centotrentasei inquadrature al secondo. Pur capendo perché si possa essere indotti a credere che l’obiettivo si sia deformato, ti assicuro che non è così.»
I fotogrammi continuarono a scorrere e, a ogni piccolo avanzamento, le pareti del laboratorio parevano curvarsi verso l’interno, come se venissero risucchiate dalla sfera. Tuttavia, sebbene fossero rivestite di uno strato di smalto liscio e durissimo, non si crepavano né si scrostavano. Si piegavano come gomma e, come aveva detto Strauss, non poteva trattarsi di un effetto della lente perché, mentre si distorcevano, catturavano e riflettevano lo scintillio delle luci incassate nel soffitto. Se fosse dipeso dall’obiettivo, l’immagine sarebbe stata deformata, ma non l’illuminazione. Strauss fermò il filmato nel punto in cui una striscia di luce correva in un lungo arco sullo smalto lucido, propagandosi al curvarsi della superficie verso la telecamera.
«Ha piegato le pareti», osservò Kerr. «Come diavolo ha fatto? Sono di…»
«Titanio e ceramica. E, sì, le ha piegate.»
«Che fine ha fatto Charlie? Fin qui è ancora al suo posto, allora dov’è andato?»
Strauss riprese l’avanzamento. «Date le ricerche effettuate da Dave in seguito, e aggiungendo le informazioni ricavate dai fotogrammi 8568 e 8569, poco più di un minuto dopo la prima accensione della telecamera, riteniamo che sia finito più o meno nel 1776.»
Kerr e Haga sgranarono gli occhi, come avevano fatto Klein, Alison, Strauss e Sherman quando avevano visionato le immagini.
Quello che si vedeva sullo schermo non era più un laboratorio, e neanche un edificio, bensì un paesaggio desertico: una lunga e sconfinata distesa di sabbia color ocra, interrotta soltanto da qualche cactus e da un orizzonte di un azzurro luminoso.
Kerr era incredulo. «Vuoi dire che quella è…?» Non riuscì a finire la domanda.
«Los Angeles», rispose Sherman, senza distogliere gli occhi dallo schermo. «Molto prima che la Los Angeles attuale vedesse la luce.»
Strauss bloccò il filmato, passando in continuazione dal fotogramma 8568 all’8569, gli unici che mostravano la scena completa. L’8567 rappresentava il laboratorio e il deserto assieme, ma soltanto i due successivi permettevano di vedere con chiarezza il panorama. Lo scienziato indicò Charlie, la cui cassetta svaniva temporaneamente dall’immagine. Seppur appena percettibile, i presenti videro che, tra le due diapositive, il topo si spostava verso il basso. Forse il movimento era pari a un solo pixel, ma non c’erano dubbi.
Charlie era caduto sul pavimento.
Kerr guardò gli altri. «Ma è… insomma, stai dicendo che… ma è…»
Klein si girò verso Sherman, trionfante. «Dave, perché non prendi il posto di Peter e non ci spieghi tutto?»
Strauss si risedette, lanciando un’occhiata di sfida a Kerr. Così avrebbe imparato a ridere dei suoi approcci con le donne o della sua goffaggine, pensò. Non ti senti più così intelligente, vero, sapientone?
Sherman si alzò e lasciò che le immagini continuassero a tremolare sullo schermo. Aveva il piglio deciso di un politico. I capelli biondo scuro, a mezza lunghezza, erano tirati indietro quanto bastava a lasciar intravedere lo scalpo. Se li lisciò con la mano. Il completo e la cravatta erano costosi, dal taglio impeccabile e, proprio come un vero politico, indossava persino una camicia gessata.
Alison lo guardò, sospettosa. Gli scienziati, come i fanatici dei computer, erano quasi tutti pallidi. Non soltanto si avventuravano di rado sotto il sole, ma non si preoccupavano nemmeno del proprio aspetto fisico. Soltanto quelli che consideravano la scoperta un trampolino di lancio per incarichi assai più prestigiosi badavano all’estetica; solo loro si davano da fare come Sherman per sfoggiare un’abbronzatura perfetta. A prescindere dal numero di lampade necessario.
«Data l’attrazione gravitazionale già esercitata dal siberio in condizioni di riposo, e dati i maggiori livelli registrati durante l’input elettrico, riteniamo che la sfera abbia prodotto una forza abbastanza grande da attirare il tempo verso di sé, rilasciandolo quando la corrente si è interrotta», cominciò Sherman.
«Com’è possibile?» chiese Haga.
L’altro camminò a destra e a sinistra, accarezzandosi il mento mentre cercava le parole giuste. A volte era difficile spiegare la scienza gravitazionale agli scienziati di minor calibro, soprattutto quelli il cui lavoro si concentrava in gran parte sui limiti del mondo. «Mr. Haga, le dispiacerebbe dirmi cos’è un buco nero?»
Cristo, ora si comporta anche come un maledetto politico. Tutto passi misurati e riflessioni profonde mentre si rivolge all’uomo della strada. Quali saranno le sue prossime mosse? False promesse e manifesti eccessivamente ottimisti? pensò Alison.
«È una stella densa che è implosa. La densità esercita un’immensa forza gravitazionale, molto intensa, che è in grado di attirare persino la luce. In una certa misura, la luce non può fuoriuscire, così si vede soltanto una sfera nera. Si pensa sia grande migliaia di volte la stella iniziale, perciò attrazione molto forte», snocciolò Haga.
«Può spiegarmi anche cosa succederebbe da un punto di vista ’temporale’, se si potesse viaggiare alla velocità della luce?»
«Tempo resta fermo. Einstein e la relatività.»
«E se si potesse viaggiare più veloce della luce?»
«Tempo sembra andare indietro, sì?» fece il giapponese, annoiato.
Sherman continuava a camminare avanti e indietro. «In sostanza, stiamo dicendo che qualcosa con un’immensa forza gravitazionale può piegare la luce e che, se sembriamo viaggiare più veloce della luce, allora sembriamo andare indietro nel tempo?»
Haga rifletté. «Pensa che la sfera abbia attirato luce e anche tempo?»
Sherman sfoderò un sorriso falso, ma bianchissimo. «Esatto, Mr. Haga. Credo che pieghi la luce e anche il tempo. Maggiore è la carica applicata, e maggiore è il tempo che si attira. Ovviamente, il tempo scorre già avanti, e sarebbe impossibile accelerare questa azione. Ma quel che in teoria è possibile, e credo che Charlie mi darebbe ragione su questo punto, è che possiamo dare l’impressione di viaggiare più veloce della luce, e dunque più veloce del tempo. Quest’ultimo può essere attirato al di là di noi così velocemente, da lasciare la sensazione di viaggiare a ritroso.»
Fece una pausa. «Immaginate di gettare un cartone di latte da un’auto che proceda a ottanta chilometri orari: a noi pare che il cartone si muova all’indietro, quando in realtà si muove sempre in avanti a, diciamo, quarantotto chilometri orari. Lo stesso vale per Charlie: dal nostro punto di vista sembra che il nostro piccolo amico viaggi a ritroso.»
«Ma come mai Charlie è sparito, mentre gli altri oggetti del laboratorio sono rimasti immutati?» Kerr appariva confuso e scioccato. Probabilmente gli sarebbe occorso un po’ di tempo per accettare la teoria, pensò Alison, che a sua volta non era sicura di esserci ancora riuscita.
«Perché è un essere vivente. Quando consulterete il memorandum, vedrete un capitolo intitolato ’Il Dio computazionale’, che espone le mie teorie sul modo in cui gli oggetti interagiscono col mondo circostante. Capirete il ruolo chiave svolto dalle entità capaci di vivere, respirare e modificare il mondo. In sintesi, credo dipenda da questo.» Sherman indicò la minuscola immagine del topo sullo schermo. «Charlie è interessato da una sequenza temporale perché è in grado di comprenderla. A differenza dei sassi, del metallo, del legno e dell’acqua, sa cos’è il tempo e pertanto può distinguere i cambiamenti al suo interno. Non si può essere interessati da un’alterazione nello schema del tempo se non si riesce a vedere o a capire che ha avuto luogo. Così Charlie è svanito e il resto è rimasto al suo posto.»
Inquadrò un grafico. Lungo la base c’era il tempo, col presente all’estremità sinistra, e sul lato sinistro compariva l’intensità della carica applicata alla sfera nell’ambiente sottovuoto. La linea rossa che iniziava nell’angolo in basso a sinistra saliva dolcemente, per poi diventare più ripida a mano a mano che andava indietro nel tempo. In corrispondenza del 600 d.C., l’ultimo punto del grafico, il tracciato era quasi verticale.
«È tutta teoria, ma si basa sui risultati ottenuti dai dispositivi di misurazione, sull’immagine che abbiamo visto sullo schermo e su alcuni contributi indipendenti di specialisti esterni del settore, nessuno dei quali era a conoscenza della vera natura della nostra richiesta.»
Indicò l’area di picco. «Il problema è che maggiore è la carica applicata, e meno si può essere precisi. Se volessimo spedire qualcuno all’inizio del secolo, potremmo quasi determinare il giorno e forse persino l’ora del suo arrivo.» Poi accennò all’intersezione tra la linea e la verticale per il 1000 d.C. e proseguì: «Quando si raggiunge il millennio precedente, è molto difficile determinare anche soltanto l’anno. Oltre il 600 d.C. sarebbe impossibile stabilire se quel qualcuno sia finito all’epoca di Gesù di Nazareth o nel Giurassico».
«Aspetta un attimo.» Alison aveva udito una parola che non le piaceva affatto, quella che avrebbe trasformato in realtà tutte le sue notti insonni e i suoi incubi. «Hai detto ’qualcuno’? Stai parlando di un essere umano?»
«Esatto.»
«No, non potete farlo.»
Klein la guardò con una luce maliziosa negli occhi.
La conosceva da quando era piccola ed era rimasto colpito dal suo genio naturale quanto le altre persone con cui era entrata in contatto. Di conseguenza, rispettava anche le sue opinioni. Ascoltarla non gli avrebbe fatto cambiare idea, neppure per un secondo di quel tempo che si stava dimostrando incontrollabile, ma volle lo stesso sentire le sue riflessioni.
«Perché no, Alison? Perché non possiamo mandare qualcuno indietro nel tempo?»
Lei era assieme sdegnata e disgustata, e per una volta non si sforzò di nasconderlo, Klein o non Klein. Guardò Charlie, la cui immagine tremolava ancora sopra il paesaggio desertico, poi fissò il suo capo. «Perché sarebbe l’idea peggiore in una lunga sfilza di pessime idee.»
Coi capelli raccolti e con gli occhialetti di corno che le mettevano in risalto gli occhi, non era mai parsa così seria in vita sua. Un’impresa non da poco.
«E, con ogni probabilità, la cosa più inutile che l’umanità abbia mai fatto.»