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California,
giorni nostri
Fa molto più freddo di quanto mi aspettassi. Il che spiega perché le mie mani, almeno per ora, sono sprofondate nelle tasche del soprabito, in cerca di un po’ di calore che impedisca alle dita d’irrigidirsi. Mi do dello stupido. Perché sono qui? Cosa pensavo di ottenere? Cosa mi ha spinto ad arrivare così presto, quando il freddo mi trafigge la pelle come mille spilli? Sono certo che non servirà a niente.
A pensarci bene, a cosa potrebbe servire?
Sta finendo. Ogni cosa. Presto potrebbe essere finita davvero. Poi, d’un tratto, mi accorgo che ciò che sto provando deve essere euforia. Mi ha evitato per così tanto tempo che stento a riconoscerla. È colpa sua se siedo qui al freddo da quasi un’ora, a congelarmi le chiappe ossute. Ti rivelerò una cosa: è fantastico sentirsi così. Dico sul serio.
Non posso farne a meno. Devo dare un’altra occhiata alla lettera. Non riesco a trattenere un sorriso infantile mentre mi accingo a leggere le parole per l’ultima volta, sebbene ormai le conosca a memoria.
Hanno viaggiato con me per innumerevoli anni ed è probabile che mi seguiranno nella tomba.
Il che è piuttosto ironico.
Così estraggo la busta azzurra dalla tasca interna e ne sollevo il lembo. Sempre carta della migliore qualità, sempre foderata. È assieme la più recente e l’ultima di quelle buste, perché la lettera vi è stata infilata soltanto sei mesi fa. Ce ne sono state molte altre, naturalmente, ciascuna devastata dal passaggio di qualcosa che – lo so per certo – non si potrà modificare né sostituire, quando le loro condizioni si saranno deteriorate al punto di non poter più offrire nessuna protezione.
Sfilo i fogli color avorio, lasciando che le intemperie sferrino un nuovo attacco, e li apro sulla grafia marcata, quasi nera, che scorre attraverso la superficie delle pagine. Sorrido, come sempre. Non voglio sembrare sdolcinato quando dico che vedere queste parole è come guardare un amico che, ogni volta, mi fa segno di entrare in casa a riscaldarmi. Mi sento in dovere di leggertele, cosicché tu possa capire:
Caro Nick,
sono mortificata. Non sono mai stata molto brava con gli addii, ma spero che tu comprenda perché lo faccio, perché ti lascio a risolvere questa faccenda da solo.
Sono certa che hai creduto fosse l’inizio, ma forse ora ti rendi conto che abbiamo percezioni molto diverse di dove si trovi l’inizio. Per me, se t’interessa, comincia sempre nel giorno del mio dodicesimo compleanno.
Sono in un cimitero, inginocchiata sull’erba folta. La mia uniforme ha l’orlo infangato e le ginocchia strappate. Le scarpe, di solito così lustre, sono quasi irriconoscibili sotto la sporcizia che le ricopre, e sassi acuminati mi affondano nelle gambe.
Sono sola nel tempo, mi ritrovo a supplicare in un modo che non avrei mai pensato fosse possibile, e ho la sensazione che il mondo mi stia punendo.
Imploro il perdono di mia madre morta. Perché? Per il semplice fatto che sono qui e posso farlo. La dura verità è che io sono viva e lei no.
Oggi voglio pareggiare i conti.
Sono trascorsi cinque lunghi giorni da quando ho scoperto la verità, da quando ho appreso che la donna la cui morte mi ha permesso di venire al mondo, che ha trascorso la vita in uno stato di smarrimento e solitudine inimmaginabili, è stata violentata. Sono il frutto del dolore più straziante che una donna possa essere costretta a sopportare, il prodotto dei desideri di uno stupratore, non di una madre. Mi chiedo se lei abbia scelto di morire perché non sopportava l’idea di aprire gli occhi e di guardarmi.
Ho dodici anni. Non dovrei essere obbligata a portare un fardello così pesante.
Questa non è la tomba della mamma, persino io sono abbastanza sveglia per capirlo. L’ho adottata due anni fa, quando sono venuta al cimitero con la mia amica Gemma, e da allora è diventata il mio altare personale. Ogni volta che lei visitava la tomba di sua madre, io facevo la stessa cosa, meglio che potevo. Non potrebbe essere più lontana dai tumuli ben curati e dalle statue di marmo. È rimasta sola a combattere contro il mondo, una lapide da venti dollari con un vistoso errore ortografico, che si sgretola lungo i bordi mentre, anno dopo anno, l’iscrizione sbiadisce sotto un nuovo strato di sudiciume:
CUI GIACE, IL DONO SPECIALE DI DIO A TUTTI NOI.
COLORO CUI IMPORTA SONO COLORO CHE DEVONO SAPERE.
FINCHÉ LUI NON INCROCERÀ DI NUOVO LE NOSTRE STRADE.
RIPOSA IN PACE.
Niente nome e niente data. E, sì, quelle parole potrebbero essere state scritte appositamente per me. È perché m’importava che dovevo sapere e, anche ora che la consapevolezza mi brucia nello stomaco come un tizzone ardente, non mi pento di aver fatto quelle domande. Chi, cosa, perché e quando. Solo quando ho ricevuto le risposte, ho sentito la vergogna pervadere il mio corpo. In quell’istante ho capito che sarei dovuta tornare qui, che avrei dovuto chiedere perdono per qualunque sciocca giustificazione mi fossi inventata.
Quella notte, sveglia e in lacrime, ho compreso qualcos’altro, qualcosa di più oscuro di quanto avessi mai immaginato. Mi sono resa conto che sarebbe stata la mia ultima visita. Avevo un debito in sospeso e avrei dovuto rinunciare a ciò che non mi spettava legittimamente: il diritto alla vita.
Così, tiro fuori della tasca il rasoio e faccio un bel respiro, col cuore che mi batte all’impazzata mentre mi appresto ad affondare la lama…
Poi una voce calda alle mie spalle.
ScaryBob, il nomignolo che abbiamo affibbiato al tizio spaventoso che è solito aggirarsi intorno alla scuola. Gli insegnanti ci hanno raccomandato di stargli alla larga, ma lui non si avvicina mai. Si siede su una panchina e ci osserva giocare.
«Ti ho domandato se stai bene, signorina.» Seppur rauca, la sua voce è inaspettatamente dolce. «Ti ho vista piangere.»
Quando si accovaccia accanto a me, nota un bagliore. Mi prende la mano con decisione. La lama mi ha lasciato un segno sul polso, ma nulla di più. Non ancora.
Sospira, angosciato. «Credo che noi due dobbiamo fare una chiacchierata.»
Sono riluttante, ma mi sento smarrita. Alla fine parliamo di mia madre e della mia vita, e per la prima volta inizio ad accettare. Non sto meglio né peggio, soltanto… capisco. Ha già preso il rasoio e ora cerca di estorcermi qualcos’altro, qualcosa che non voglio dargli. Promesse che esito a fare persino a me stessa.
Poi, quando le gomme della Dodge bianca e blu dello sceriffo Coulson stridono sul terriccio, in lontananza, s’infila la grossa mano nella tasca del cappotto e tira fuori un medaglione d’argento attaccato a una semplice catenina.
Dentro c’è un orologio col quadrante bianco come la neve e coi numeri neri come il carbone. Mentre l’esterno della cassa sta già marcendo, l’interno è nuovo di zecca, col vetro liscio come se fosse stato appena molato.
«Sembra vecchio.»
«Lo è, e vorrei che lo tenessi tu.» Sorride.
«Non posso…»
«Mi è stato regalato anni fa da qualcuno di molto speciale, e ti rivelerò un segreto: non si ferma mai», dice calmo.
Notando la mia espressione, scoppia a ridere. «Non ci sono trucchi. È a carica.» Fa una pausa, studia prima l’orologio e poi me. «Ma ho sempre pensato che finché fosse stato in mio possesso avrei dovuto controllarlo regolarmente. Ho deciso, che se mai i secondi sul quadrante avessero smesso di scorrere, forse – e sottolineo forse – avrebbero fatto la stessa cosa anche quelli del mondo intorno a noi. Ho una terribile malattia», aggiunge a voce bassa. Fissa il vuoto, come se parlasse da solo. «Mi divora da anni e ormai il suo banchetto sta per finire. Si direbbe che il mio tempo sia scaduto.» Mi guarda e scuote la testa. «Ma il tuo no, non ancora. Sei viva grazie a ciò che Dio ti ha dato, e i suoi doni non vanno restituiti. Questo non è un grande magazzino. Questa è la vita. Il dono speciale di Dio a tutti noi.» Ride sommessamente. «Vedi? Anch’io so leggere le lapidi.»
Incamminandosi nella mia direzione, Coulson e il suo vice si tengono i cappelli per impedire che il vento glieli porti via. Mi alzo e mi sistemo l’uniforme, pronta a riconsegnarmi a Cedar Ridge.
«Ti rivedrò?» chiedo.
«Sarebbe bello, vero?»
Era chiaro che non gli restava molto tempo. Non gli ho mai detto addio. Forse non era necessario.
Per me è iniziato tutto in quel momento e, benché sembri un sogno bizzarro, so che non lo è stato. Ne sono certa perché ora sono le 18.58 precise. Se questo orologio è reale, come possono non esserlo i fatti accaduti quel giorno?
Non solo è qui accanto a me e conta i secondi mentre scrivo, ma – ne sono sicura, anche se so che per ora non mi crederai – continuerà a farlo anche quando noi due saremo morti. Vivrà molte volte più di noi e non si fermerà mai, perché non può fermarsi, non quando non c’è fine alle cose che facciamo. Guardo la strada fuori della finestra. È tutto tranquillo, ma non per molto. Presto arriverà una vecchia Ford malconcia che solleverà una nuvola della mia polvere.
Mentre ti lascio, Nick, ricorda che sono soddisfatta della mia vita. Più soddisfatta di quanto lo sia stata in qualsiasi altro periodo. L’unico dolore viene dalle due promesse che mi sono fatta nei giorni successivi a quello in cui ho accettato l’orologio: la prima era che, se mai avessi conosciuto lo stupratore di mia madre, l’avrei ucciso senza esitazione; la seconda, che non avrei più cercato di togliermi la vita, questo dono speciale.
Soltanto ora, mentre scrivo un messaggio a un uomo che non ho mai conosciuto, mi rendo conto di aver mentito a me stessa su entrambi i fronti.
Addio e buona fortuna, Nick.
So che ti prenderai cura di me.
È solo un messaggio di suicidio, un addio, giusto?
Per te, forse, ma non per me. Per me ha un valore inestimabile.
Queste pagine sono il documento più importante che questo mondo di merda abbia mai messo sul mio cammino. Più importante del mio distintivo della polizia di Los Angeles, più importante del rogito del mio appartamento e assai più importante del mio certificato di matrimonio. Cristo, ho ricevuto volantini pubblicitari che erano più importanti di quello. E, sì (anche se so che probabilmente mi rimprovererai per questo), è più importante persino del certificato di nascita di Vicki.
Vicki, bionda e adulta, trasformatasi in un batter d’occhio da angioletto coi codini in bellissimo e giovane oggetto dei desideri maschili, è mia figlia. Non che la veda spesso, negli ultimi tempi; a quanto pare è troppo indaffarata per il suo vecchio, ma la frequento più di quanto facessi in quei giorni bui. Anzi, più di quanto abbia fatto nei mesi e negli anni dopo che Katherine, sua madre, si era trasferita a Seattle con l’uomo che aveva criticato la mia igiene orale e che mi aveva costretto a fare i gargarismi con un intruglio rosa, prima di presentarmi un conto salatissimo. Non mi ero accorto che si occupasse anche della bocca di mia moglie. Non fino a quando una sera non sono rincasato e ho trovato un biglietto.
Avrei dovuto intuirlo non appena ho visto la busta: marrone. Le buone notizie non arrivano mai in una busta marrone, non è vero?
All’improvviso la casa è tornata a essere uno spazio tra quattro mura: un luogo in cui esistere, non un posto in cui vivere.
Non l’ho mai cercata. A cosa sarebbe servito? È stata ragionevole sul diritto di visita a Vicki, molto più di quanto io l’abbia saputo sfruttare e molto più di quanto mi sarebbe stato concesso da un giudice informato delle condizioni in cui verteva la mia vita in quel periodo.
È stato undici anni fa, e ora vedo Vicki forse una volta al mese, se è libera. Quando era piccola, ero fortunato – e lei no – se riuscivo a vederla una volta l’anno. Mi brucia ammetterlo, ma avrei una lista di pretesti inverosimili così lunga da annoiarti per una settimana.
Ho letto queste righe più volte di quante ricordi. Per ogni evenienza. Non ho la minima idea di quale evenienza, perché, come ho detto, conosco ogni parola, ogni maledetta sillaba e ogni tratto preciso della penna, come se l’avessi scritta di mio pugno (persino la leggera sbavatura intorno alla D maiuscola di «Dodge»). Tuttavia, ho ancora paura, il timore insensato di dimenticare qualche dettaglio piccolo ma essenziale quando arriverà il mio momento.
I «se» possono essere uno stimolo molto efficace al comportamento irrazionale. Se riuscirai a sopportare le farneticazioni di un vecchio stanco, capirai perché per me lo sono stati. Comprenderai anche molte altre cose, e ne scoprirai alcune di cui devi proprio venire a conoscenza.
Affermazione prevedibile, vero? Dopotutto, questa è la mia storia e voglio che ascolti ogni parola, ma ti giuro che non è una trovata pubblicitaria. Non tollero gli slogan del tipo: «La miglior birra del mondo». Per confermare o smentire occorre acquistare una bottiglia e berla. Se sa di piscio, il tizio sorridente della pubblicità può ripetere quella frase allo sfinimento, ma non ti convincerà a comprarne un’altra. A meno che tu non abbia una predilezione per il piscio, beninteso.
Perciò, se hai voglia di ascoltare, ti prego di farlo. Altrimenti continua pure a nuotare nel tuo oceano, scandagliando gli abissi con gli occhi e le orecchie in cerca d’altro. Ciò non cambierà il tuo futuro (ed è questo il bello, te lo garantisco), ma la storia è una materia importante e anche questo è un fatto immutabile. Voglio farti una lezione di storia su eventi che non sono ancora accaduti, su eventi che accadranno, succeda quel che succeda.
Rileggo quelle due parole, quelle che adoro, e sento crescere l’impazienza. Cazzo, ho aspettato a lungo che arrivasse questo giorno, perciò non puoi pretendere che me ne stia seduto qui a chiedermi cosa mangerò a cena o se il protagonista del mio telefilm preferito scoprirà mai la relazione tra sua moglie e il medico.
Due parole. Due parole semplicissime, scelte con cura: Comincia sempre…
Una di queste è cruciale: «sempre». Prima di ricevere questa lettera non avrei mai immaginato d’invidiare l’uso di una singola parola come faccio ora. Deve capitare, deve essere capitato, molte volte. L’una dopo l’altra, e poi ancora e ancora.
Ma non per me. Sono accadute diverse cose e tante devono ancora accadere, ma il mio è e sarà sempre un episodio isolato. Entrò nella mia noiosissima vita in un cupo giovedì, insignificante sotto ogni aspetto a eccezione del fatto che avevo appena iniziato a fumare.
Di nuovo.