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Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,

martedì, 18 agosto 2043

Di nuovo la stanza. Il posto buio, e l’unico quadrato di luce – la finestra – era rimpicciolito come se il tempo avesse continuato a scorrere, anche se non di molto. Era molto più freddo, ma lei aveva la sensazione che non dipendesse dal mondo esterno. Doveva avere a che fare con le sue emozioni: aguzzi ghiaccioli di paura nel suo cuore.

L’uomo dagli occhi tenebrosi, quelli che non riuscivano a nascondere un proposito ancora più tenebroso, se n’era andato. Non sapeva come facesse a esserne sicura, né tantomeno se lo fosse davvero, ma la sensazione che provava era troppo intensa per essere ignorata. Era come sangue nelle sue vene. Non percepiva nessun odore, ma sapeva che, se ne avesse avuta la possibilità, avrebbe fiutato il tanfo dello sconosciuto. La sagoma sul letto era tutta rannicchiata, come se fosse in preda agli spasmi.

Provò a toccarla, nello stesso modo in cui si farebbe con una vittima in un luogo pubblico. Sulla strada.

In un vicolo.

Ma era come se l’aria si fosse addensata al punto di diventare impenetrabile. Affondò le dita nell’oscurità, senza però riuscire a perforare la barriera.

Toccare.

Fu sopraffatta dalle emozioni. Paura, sì, ma anche rabbia e dolore. Come quelli che potrebbe provare un’assistente sociale. Sarebbe stata disposta a dare una mano se solo la…

vittima

… le avesse permesso di avvicinarsi. Avrebbe voluto abbracciarla, farla sentire al caldo e al sicuro, ma non era il momento giusto. Percepì anche quello. C’erano delle barriere. Esistevano per una ragione ben precisa e andavano demolite. Lentamente. Quella persona, quella…

vittima

… aveva paura di lei come ne aveva di chiunque altro. La fiducia era stata tradita al punto che non ne aveva più. Forse, in passato, si era sentita al sicuro. Forse, non aveva avuto motivo di sentirsi in altro modo. Fino a quel giorno, fino a quell’uomo. Quello con gli occhi tenebrosi, col proposito tenebroso.

Toccare.

Vittima.

In un vicolo.

Quando tornò dalla stanza, non viaggiò da sola. Portò con sé la paura, la rabbia e il dolore – quello che l’avrebbe accompagnata fino alla morte –, ma anche le risposte. All’improvviso capì cosa fare e come far funzionare le cose. Negli ultimi giorni, infatti, si era convinta sempre di più che doveva farle funzionare. Era troppo importante per lei, certo, ma forse si sarebbe dimostrato troppo importante anche per il mondo. Avrebbe impiegato anni per portare a termine il progetto e non ne avrebbe visto la conclusione, ma non poteva fallire. Nella sua mente oscura e fertile, simile al più ricco dei terreni, custodiva forse l’unica possibilità di crescita.

Quando saprai, non potrai più tornare indietro.

Nessuno avrebbe ignorato una vittima, non se fosse stata sventurata e se avesse supplicato, implorando come un peccatore ai piedi di Dio. Forse alcuni sceglievano di nasconderlo, ma tutti avevano un cuore che batteva nel petto. Era l’eterna afflizione della condizione umana.

Nessuno avrebbe respinto le sue richieste e, finché le barriere non fossero state abbattute e la fiducia ripristinata, nessuno avrebbe fatto troppe domande imbarazzanti.

Capì cosa fare.

Alison non poté neppure sedersi, da tanto le faceva male il fondoschiena. Dio solo sapeva come avesse fatto a infilare tutto dentro. Per fortuna, le avevano permesso di farlo da sola. Erano matti da legare ma non pervertiti. Oltre alla valuta – diamanti e banconote –, i dieci minuti d’isolamento le avevano consentito di aggiungere, per così dire, qualche altra perla.

Cristo, non era forse un’idea assurda? Certo non era ciò che si sognava di fare quando ci si diplomava. Ciononostante, Alison aveva accarezzato molti sogni quando era ragazzina, e alcuni si sarebbero avverati se tutto fosse andato secondo il folle piano che aveva architettato nella sua mente iperattiva.

Ne sarebbe valsa la pena?

Esitò.

Ma non troppo a lungo.

Camminò avanti e indietro nella sala di controllo, a braccia incrociate e con indosso la tuta rossa. Era tesa come una corda di violino, anche se era sicura che avrebbe funzionato. Lo erano tutti. Castle, D’Almas, Davies e persino Mason avevano dimostrato che funzionava, ma niente di tutto ciò rendeva più sopportabile il pensiero. Sarebbero potute partire cinquecento persone, e sarebbe stata agitata comunque. Era come i viaggi spaziali: erano già stati fatti molte volte, ma continuavano a essere un’impresa molto stupida agli occhi di qualunque individuo assennato.

Lei era assennata, vero?

E il dolore? Non aveva idea se fosse doloroso. I «topi» non avevano lasciato accenni in proposito, ma avevano scritto i messaggi molto tempo dopo essere partiti. Poteva darsi che fosse stato il dolore più lancinante della loro vita e che avessero semplicemente trascurato di menzionarlo. Trasse un profondo respiro e buttò fuori l’aria piano piano. Perché diavolo era là?

Poi, ricordò. Sì, pensò, anche se fosse stato il dolore più straziante che avesse mai provato, ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe camminato sui carboni ardenti coi piedi nudi cosparsi di benzina se fosse stato necessario per arrivare a destinazione.

«Nervosa?» Strauss aveva allungato le gambe sul banco di comando.

«Me la sto facendo sotto.»

«Non mi sorprende.» Guardò la sfera oltre il vetro nuovo; le piastrelle danneggiate dai proiettili erano state riparate. «Fatico a credere che tu voglia farlo davvero.»

«Anch’io.»

«Allora suppongo che l’ipotesi di un appuntamento sia sfumata.»

«Lo sarebbe stata in ogni caso. A proposito, come sta Rachael?»

«Bene. Gestirà il laboratorio di Cardou, per un po’. Ma torna la settimana prossima!» Strauss si strofinò le mani per la contentezza. «E le avrei anche comprato un altro regalino.» Estrasse dalla tasca una scatolina di velluto rosso e l’aprì, rivelando un anello di platino con un diamante incastonato.

«Allora il portafortuna non ha funzionato? Non per lei, almeno. Be’, immagino che tutti abbiamo una croce da portare», scherzò Alison.

«Sai cosa m’intriga?»

Si finse incuriosita. «Cosa?»

«Io ho trentanove anni, e tu stai per tornare indietro di trentadue o trentatré, giusto?»

«Giusto.»

«Non ricordo che quando avevo sei o sette anni una donna bellissima sia mai venuta a casa di mia zia e mi abbia portato a bere un frappé.»

«E con ciò?»

Parve offeso. «Non mi hai scaricato soltanto adesso, ma anche allora. Ti sei lasciata scappare due buone occasioni.»

Alison ci pensò su. «Ricordi quando mi hai detto che a sette anni hai trovato un cagnolino abbandonato davanti alla porta e che ti sei innamorato e hai deciso di tenerlo?»

«Joopy? Eri tu?»

«No, ma ci sei cascato.» Gli fece l’occhiolino. «Scherzi a parte, in bocca al lupo per la faccenda dell’anello. Non sono un’esperta in fatto di… be’, lo sai, ma sembra bellissimo. Costoso. Se – e sottolineo il se – dovesse dirti sì, prego Dio che sappia in che guaio si sta cacciando.»

«Alison, attraverserei deserti, oceani e montagne per quella donna.» Strauss parlò in tono così serio da sembrare addirittura un’altra persona.

«Speriamo che non sia necessario. Allora, siamo pronti?»

Lui si girò verso il banco di comando. «Sei ancora in tempo per cambiare idea. Riguardo al viaggio, intendo, non al cane.»

«Andrà tutto bene.» Fece un sorriso forzato, domandandosi se sarebbe stato davvero così.

Alison e Klein avevano trascorso assieme quasi tutto il giorno precedente. Lei aveva guidato seguendo le sue indicazioni per trovare un luogo di recupero idoneo. Ormai il vecchio non si fidava più di nessuno e voleva che fossero gli unici a conoscere il nuovo sito. Gli altri l’avrebbero scoperto, era ovvio, ma soltanto quindici minuti prima che ordinasse loro di cominciare a scavare e che li guardasse comodamente dalla sedia a rotelle.

Avevano parlato a lungo di ciò che Alison voleva più di qualsiasi altra cosa e di come quel desiderio l’avesse spinta a offrirsi volontaria per accollarsi compiti che solo un condannato a morte avrebbe avuto la vaga tentazione d’intraprendere.

Tuttavia, il suo incarico sarebbe stato molto diverso da quelli degli altri: loro avevano conquistato la libertà più o meno nello stesso modo in cui lei l’avrebbe persa per sempre. Era emerso che esistevano alcune semplici teorie sui viaggi nel tempo, e occorreva rispettarle nell’eventualità che si rivelassero abbastanza corrette da diventare leggi ferree. Qualunque cosa fosse successa, non avrebbe avuto altra scelta se non rispettarle in modo rigoroso.

Era quella la ragione per cui, nonostante le preoccupazioni di Klein, aveva chiesto di essere rispedita circa due anni in anticipo sull’arrivo di Mason. Prima di fare le cose che doveva fare, aveva bisogno di tempo per fare quelle che aveva sempre voluto fare.

«Quale carica usiamo?» Strauss, che aveva già posizionato il braccio, ruotò la sedia verso il terminale.

«Uno-nove-quattro», rispose Alison.

In base ai calcoli che Sherman aveva trasferito su un grafico della sequenza temporale, sarebbe dovuta arrivare verso la fine di aprile o l’inizio di maggio 2009.

«Ultima chance per cambiare idea e andare a conoscere Newton.»

«Uno-nove-quattro.» Non era più in vena di scherzi.

Strauss digitò il numero e riportò l’attenzione sul banco di comando. «Dimmi quando sei pronta.»

«Okay, andiamo.» La sua voce non tradì nessuna emozione. Era soltanto lavoro.

Tese la mano al collega, ma lui si alzò e l’abbracciò forte.

Lei si staccò sorridendo e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie, Pete.» Indietreggiò verso la camera di equilibrio e il cilindro a tenuta d’aria girò lentamente, fino a posizionarla di fronte alla stanza. Si spostò verso la maschera che penzolava dal soffitto e se la mise, infilandosi l’elastico dietro le orecchie.

«Non riesco a credere che sto per farlo davvero.» La sua voce distorta raggiunse la sala di controllo attraverso gli altoparlanti.

«E io non riesco a credere che ti vedrò nuda per due fotogrammi», replicò il suo collega con un sorriso malizioso, inquadrandola nel mirino della telecamera montata su un treppiede.

«Già… Saluta Rachael da parte mia, okay?»

Alison camminò qua e là, col tubo dell’aria che la seguiva ovunque, e accarezzò la sfera di siberio. Si era avvicinata soltanto il giorno in cui Charlie era scomparso e non aveva mai studiato la superficie del meteorite, per quanto fosse bella.

Là, pensò, racchiuse nell’ultimo anelito di vita di una stella, c’erano le risposte a domande che non avrebbero mai dovuto trovare soluzione. Era simile a una pozza curva di liquido rosso-arancione, liscia e perfetta grazie al taglio al laser, e il suo riflesso si allungò sulla parte superiore e le deformò i lineamenti. Si chiese come sarebbe invecchiata nella nuova epoca. Allo stesso ritmo? Più in fretta? Più piano? Chissà.

Provò una strana sensazione appiccicosa alla mano, come se la sfera avesse esercitato un’attrazione magnetica, e la ritrasse, passandosi il pollice sugli altri polpastrelli.

Strauss aspettò che esplorasse la stanza e che si preparasse mentalmente, concedendole molto più tempo di quanto ne avrebbe lasciato ai «topi». Sentendosi più pronta che mai, Alison si voltò con le braccia lungo i fianchi e respirò la sua ultima boccata d’aria del 2043.

Chiuse gli occhi e annuì.

Dopo che Strauss ebbe premuto il pulsante arancione 1 e che il ronzio ebbe iniziato a intensificarsi, pregò che le cose che aveva ritenuto corrette lo fossero davvero.

La sera prima, dopo essere tornata dal viaggio con Klein, aveva trascorso più di sei ore a studiare le schede che aveva compilato quando aveva cercato di ricostruire la sequenza, ossia la successione degli eventi. Non aveva avuto altra scelta, se non affidarli alla memoria portentosa di cui era dotata. Dovevano accadere molti fatti in un ordine chiaro e preciso, e si augurò di ricordarli nitidamente, quando fosse arrivato il momento di andare sino in fondo.

Invano, aveva provato a convincersi che fossero ormai scritti nella storia e che si sarebbero verificati a prescindere dal fatto che lei facesse la sua parte oppure no. Il mondo non poteva essere soltanto caso e destino, aveva concluso, doveva esserci una qualche interazione umana. Come un’attrice teatrale, aveva un ruolo da interpretare e doveva imparare tutte le battute prima che si alzasse il sipario. Se la prima fosse stata un fiasco, non ci sarebbero state prove generali né repliche. Così tante cose da fare, così poco… tempo. Quando l’urlo cominciò a echeggiare nella stanza, rise sommessamente.

Il rumore raggiunse livelli che sfidavano le leggi della propagazione, quasi a spaccarle i timpani. Vide Strauss piegarsi, con le cuffie sulle orecchie, e controllare il display. Lui la guardò e le fece un cenno. Alison aspettò un secondo e fece di sì col capo. È ora di andare.

«Buona fortuna», disse Strauss.

«Anche a te.» Vide la mano destra del collega spostarsi e capì che aveva premuto il pulsante arancione 2.

In quel preciso istante accadde una cosa molto bizzarra. Il tempo non accelerò, né diventò un effetto movimento destinato a cessare all’improvviso. Invece rallentò, tanto che Alison vide la bocca di Strauss muoversi a velocità ridotta.

Ogni cosa era bianca, come se stesse guardando il mondo attraverso un velo da sposa. O forse un sudario? Sempre più pallido, in una scena infinita al rallentatore, finché i dettagli più piccoli non andarono perduti. Poi tornarono, anche se molto diversi da prima.

Distinse i bidoni della spazzatura nel laboratorio e scatoloni vuoti sparsi ovunque. A destra e a sinistra s’innalzavano edifici che si estendevano a perdita d’occhio, e pareva ci fosse uno spazio vuoto in cui le auto procedevano a passo d’uomo.

In meno di mezzo secondo, molto meno di un respiro, ogni cosa tornò perfettamente nitida. Il colore rientrò nel suo campo visivo, il sudario si dissolse e le automobili accelerarono, coi rombi dei motori che echeggiavano lungo il vicolo. Arrivarono altri rumori: sirene, macchine e voci, fuse in una curiosa sinfonia da strada secondaria.

Freddo. Aveva molto freddo, come se fosse stata chiusa in un maledetto frigorifero. L’aria non era immobile; il vento le soffiava intorno alle gambe e pezzi di carta entravano e uscivano dalla sua visuale svolazzando. Si guardò e vide che era nuda come il giorno in cui era nata. Anche se, nel caso in cui davvero avesse superato ciò che credeva di aver superato, in realtà non era ancora nata.

«Vuole favorire, signora?»

Una voce rauca alle sue spalle. Vecchia, strascicata.

Alison si voltò. Un uomo anziano era accasciato accanto agli scatoloni, coi vestiti sudici e con la barba arruffata e incrostata di sporcizia. Non parve stupito della sua comparsa improvvisa né della sua nudità e si limitò a fare un sorriso sdentato. Stringeva un sacchetto tra i guanti senza dita, con le unghie nere come il catrame e il collo di una bottiglia verde che spuntava dalla sommità della busta.

Avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo senza indumenti, ma c’erano cose più urgenti cui pensare.

«In che anno siamo?» Riuscì persino a formulare la domanda senza farla suonare assurda come avrebbe dovuto. Nonostante la voce limpida si sentiva debole, come se lungo il tragitto le avessero rubato parte del sangue.

Il mendicante sorrise, ma solo per un attimo. Poi, si chinò e si sforzò di apparire il più serio possibile, con un dito ritto nell’aria, come se volesse controllare la direzione di una brezza inesistente. Con molta calma, facendo del proprio meglio per non biascicare più, disse: «Chi se ne frega?» E rise come un uomo in preda a qualcosa in più di una semplice ebbrezza.

Il suono echeggiò profetico lungo il vicolo squallido.

Strauss si posò l’anello sopra l’unghia ben curata dell’anulare e sorrise. Ancora una settimana e, in un modo o nell’altro, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Una settimana soltanto.

Dalla tasca dei pantaloni tirò fuori un dollaro della pace del 1922, un portafortuna regalatogli da suo nonno anni prima, e se lo mise sul pollice. Voleva solo che la moneta gli desse un segno, che gli dicesse che le probabilità erano almeno leggermente a suo favore.

«Se esce testa, dice sì. Se dice…» Non ebbe il coraggio di continuare. Lanciò la moneta.

La porta si spalancò e sulla soglia comparve Burgess, una delle guardie, tutto trafelato. «Abbiamo un problema», ansimò.

«Che tipo di problema?»

«Cardou. C’è stata un’esplosione. Una grossa esplosione.»

Strauss si paralizzò. Lentamente, come se si stesse risvegliando da un’anestesia, la consapevolezza pervase il suo corpo e trasformò lo shock in qualcosa di gran lunga peggiore. Gli si lacerò qualcosa dentro.

Riuscì a pronunciare una parola sola: «Rachael».

Saltò su e oltrepassò Burgess, correndo lungo il corridoio. Quando la guardia lo seguì, non si udirono che passi concitati e il tintinnio metallico della moneta che stava ancora ruotando sulle piastrelle, con movimenti sempre più veloci e discontinui, finché non si fermò da sola.

Non c’era nessuno a vedere quale lato fosse uscito.

La Teoria Dell'eternità
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