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Carcassonne, Francia,
sabato, 11 giugno 2011
L’aeroporto di Salvaza, a Carcassonne, non assomiglia neanche lontanamente a quello di Los Angeles. Anzi, non sembra nemmeno un aeroporto. Sorge in un posto sperduto, su un’enorme distesa di campi deserti a due chilometri dal centro, e ha soltanto un terminal e una pista. Perciò non ci sono molti nascondigli, anche se quasi di sicuro ne avremmo avuto un bisogno disperato.
Molto presto, supposi.
Dopo aver restituito la Fiat ed esserci fatti fregare sui chilometri percorsi, entrammo e andammo dritti allo sportello giallo dell’Air Liberté, intenzionati ad acquistare i biglietti per il primo volo per Parigi. Mentre l’impiegata controllava i documenti, scalpicciai nervosamente, voltandomi senza sosta verso l’ingresso principale. Avrebbero intuito la nostra destinazione e ci avrebbero raggiunti di lì a poco, non avevo dubbi.
Alla fine, la donna ci porse i biglietti e, parlando come un ventriloquo, col sorriso finto che riesce così bene ai dipendenti delle compagnie aeree, c’informò che mancava mezz’ora alla partenza. Pregai che fosse sufficiente.
Mi avviai in direzione del gate, ma Sarah mi chiese di aspettare e s’incamminò verso il minuscolo negozio di articoli da regalo. Non avevo idea di cosa volesse fare. Ansioso, ingannai il tempo guardando oltre il vetro e scrutando con ancor più ansia il terminal, nel timore di distinguere due facce che proprio non volevo vedere.
Avevano sparato al vecchio senza esitazione, perciò dubitavo che con noi si sarebbero fatti scrupoli. Avrei anche scommesso che quei tizi non esistessero, almeno in via ufficiale. Come la pergamena che erano stati così impazienti di decifrare. Con ogni probabilità, non avevano la patente né il numero dell’assicurazione sanitaria. Sarebbero entrati, ci avrebbero visti e ci avrebbero fatti fuori senza pensarci due volte, anche se ci fossero state cinquanta persone nelle vicinanze. Poi, si sarebbero avvicinati, avrebbero preso ciò di cui avevano bisogno e se ne sarebbero andati.
Quando qualcuno si fosse reso conto dell’accaduto, sarebbe stato troppo tardi e, a quel punto, si sarebbero già dileguati nel nulla. Nessuno li avrebbe mai più visti né sentiti.
Studiai gli altri passeggeri.
La loro presenza non mi diede nessun senso di sicurezza.
Sarah tornò con carta da pacco marrone e nastro adesivo trasparente. Pur sapendo che non vedevo l’ora di lasciare la Francia, chiese scusa e s’incamminò verso la toilette delle signore. Le lanciai una serie di accidenti e pensai che forse voleva morire quel giorno, che avesse deciso di andare al creatore senza dirmelo.
Avvolta nella carta marrone, come un regalo.
«Che diavolo stai facendo?» La seguii, mentre attraversava il terminal.
Zigzagò con disinvoltura tra viaggiatori che non avevano idea di dove fossero, né tantomeno di dove avrebbero dovuto essere. «Voglio spedire un pacco a me stessa.» Si fermò davanti al banco della DHL e scambiò qualche convenevole con l’impiegato.
Nel frattempo, capii perché ogni sua azione m’irritasse. Era la stessa ragione per cui mi aveva indotto a riflettere mentre viaggiavamo verso Serres e a urlarle addosso mentre la lasciavamo. Era per colpa della sensazione che mi faceva provare.
Avevo creduto fosse rimorso, ma mi ero sbagliato. Con quello avrei potuto convivere, dato che mi accompagnava senza sosta da anni. No, ciò che mi assaliva in sua presenza era un senso d’inferiorità. Non ero riuscito ad affrontare le conseguenze del caso Casparo, ed era stata quella la causa della mia incapacità di pensare a quell’episodio senza stordirmi con l’alcol. Era stata quella la causa del divorzio da Katherine e del distacco da Vicki, altri due avvenimenti che non avevo mai superato. Non ero un uomo cattivo, solo completamente… inetto.
Era quello il motivo della mia rabbia. Nonostante le circostanze, stavo cominciando a capire che non avevo nessun ruolo da interpretare; ero soltanto la spalla della migliore attrice in circolazione.
Era Sarah a sapere cosa significasse il testo latino, era stata lei a collegarlo alla Francia ed era stata sua sorella a darci l’indizio che ci aveva condotti alla chiesa. L’indizio che Sarah, tanto per cambiare, aveva notato mentre bevevamo il caffè. Era stata sempre lei a decidere di fare una deviazione per incontrare Kelly e di sprecare tempo prezioso acquistando la carta per confezionare un pacco da spedire a se stessa.
Che ci facevo là? Tutto il lavoro investigativo veniva svolto da una ragazzina che ora stava compilando alcuni moduli a uno sportello, lì davanti a me. Mi chiesi se fossi davvero così inutile.
Era quello il motivo per cui ero tanto arrabbiato?
Dopo aver firmato le carte necessarie, Sarah pagò in contanti e il pacco si aggiunse al mucchio della corrispondenza in uscita. Aveva richiesto che fosse ritirato dal destinatario in persona, ossia lei stessa, alla sede DHL dell’aeroporto di Los Angeles. Quindi si voltò verso di me, con un sorriso entusiastico.
Finito, possiamo andare.
«Fanno le spedizioni internazionali direttamente da qui, con un volo che parte prima delle dieci», spiegò, mentre andavamo verso il gate, quando ormai mancavano meno di cinque minuti. «Dato che facciamo scalo a Parigi, non atterreremo a Los Angeles fino alle undici e mezzo di domattina. Il pacco ci precederà e potremo ritirarlo all’arrivo.»
«È sicuro?» domandai. Insomma, stava affidando le «leggi divine di Dio e dell’uomo» a un corriere. Non voglio criticare la DHL, di certo sono molto meticolosi, ma, per quel che mi riguarda, non avrei perso di vista quei maledetti cosi.
«Ho chiesto l’assicurazione extra», rispose con un sorriso obliquo.
Avevano già chiamato il nostro volo e una piccola folla di passeggeri diretti a Parigi si stava facendo strappare le carte d’imbarco.
«In più, è molto più sicuro del bagaglio a mano. Soprattutto se quei due decidono di seguirci a bordo.» Si lanciò un’occhiata impercettibile alle spalle.
Capii subito a chi si riferiva. Diedi soltanto una sbirciatina e finsi di non riconoscerli, ma erano là e ci stavano spiando.
L’uomo che ci aveva aggrediti in chiesa era seminascosto da un pilastro beige, una decina di metri dietro Sarah, e aveva il naso ridotto come se fosse reduce da quindici round. Il suo complice ci dava le spalle, con la radio accostata all’orecchio. Non so se l’avesse recuperata o se il suo amico ne avesse avuta un’altra. Nella foga dovevo aver dimenticato di controllare, anche se ormai non aveva più importanza. Sapevano che eravamo là e quale volo avremmo preso e, data la radio, lo sapeva anche qualcun altro. Immagino si trattasse di… Come l’aveva chiamato Sarah? Grier.
Non avevo idea di quando fossero arrivati, di quali istruzioni avessero ricevuto né di cosa fossero riusciti a vedere fino a quel momento. Potevo solo sperare che fossero arrivati in aeroporto troppo tardi per vedere Sarah al banco della DHL.
«Rilassati. Non ci succederà niente, e nemmeno a loro.» Sarah consegnò la carta d’imbarco.
Molto tempo dopo, forse due anni, sedevo tutto solo nel mio nuovo angolino tranquillo – le scogliere di Montalvo – e ascoltavo il frangersi ritmico delle onde, facendo strani pensieri, e mi venne in mente una cosa molto importante: qualunque cosa il compagno del nostro aggressore avesse detto a Grier – in quell’istante o prima –, non gli aveva rivelato dove, in Francia, avessimo trovato le tavole.
Oppure, se l’aveva fatto, Grier non si era premurato di dirlo a Klein.
Dopotutto, quel tipo era poco più di uno scienziato, no? Era stato assoldato per recuperare le tavole e decifrare le informazioni contenute al loro interno, nient’altro. Ma ormai erano state rinvenute. D’un tratto, il dove e il perché erano diventati dettagli secondari.
Fu un grande errore da parte loro, devo aggiungere, tipico dei diversi metodi investigativi cui ho accennato prima. Noi volevamo sapere perché l’uomo fosse morto, loro no. Erano contenti che non fosse più in circolazione, e basta. Non erano interessati a dove fossero state custodite le tavole né a come le avessimo trovate. Volevano soltanto riaverle.
Forse, se non fossero riusciti a impossessarsene, avrebbero prestato più attenzione all’indagine e, di conseguenza, al sonnacchioso villaggio di Serres. Però non fallirono. Ottennero esattamente ciò che volevano e incaricarono la mente migliore, il cervello più potente a loro disposizione, di lavorarci sopra.
Ho saputo che, con l’aiuto di Tina, il team di Klein impiegò meno di sette mesi a decifrare il testo.