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Casel’ka, Siberia,

giovedì, 9 giugno 2011

Mentre l’elicottero volava basso sopra il sito esplorativo, Klein guardò oltre gli impianti di trivellazione e osservò da lontano un gruppo di operai robusti che, ignari di ogni cosa, facevano il proprio lavoro. Quel giorno, la neve non cadeva dal cielo lattiginoso, ma il paesaggio era di un bianco tenue, a indicare che il sole del pomeriggio non aveva ancora sciolto la brina.

Il pilota salì bruscamente per superare una collinetta e attraverso le cuffie annunciò che sarebbero atterrati di lì a qualche minuto. Klein era rimasto seduto per cinque ore di fila e aveva le ossa doloranti. S’infilò con calma i guanti imbottiti, allungò le dita e fissò i polsini alle maniche del giubbotto coordinato.

Oltre Casel’ka, quando il terreno scese verso un’altra pianura sconfinata, vide l’impianto di alaggio nel sito sulla Ratta, appena un chilometro e mezzo più in basso dello scavo principale, e i membri del team che aspettavano il suo arrivo. A destra dell’accampamento, dietro un nastro bianco e rosso trattenuto da pali d’acciaio, c’era un gruppo di gente del luogo, tutti dall’aspetto quasi orientale e in abiti tradizionali.

Avevano giacche marroni o nocciola, tutte con cappucci e polsini foderati di pelo, e portavano cappelli patchwork multicolori. Erano forse quindici o venti in tutto, probabilmente riuniti per assistere agli eventi che stavano per verificarsi in quel luogo di norma tranquillo e noioso.

Il pilota si fermò sei metri sopra un’area che era stata sgombrata e appiattita a mo’ di pista d’atterraggio, col terreno in eccesso ancora ammucchiato sui lati, e virò di novanta gradi prima di abbassare i pattini. Alun Monroe, a capo chino, si avvicinò tra i turbini di brina bianca e quando il rotore si fermò aprì i portelli. Il gemito acuto cui Klein si era abituato durante il viaggio cominciò ad affievolirsi, lasciandogli un senso di vuoto nella testa quasi calva, come se il condensatore del suo frigorifero si fosse rotto all’improvviso.

«Buonasera, signore.» Monroe chiuse il portello.

«Dov’è?» chiese Klein.

«Al sicuro, signore.» L’altro indicò la direzione in cui avrebbero dovuto avviarsi.

Mentre attraversavano l’accampamento, uno dei residenti, un uomo sulla sessantina con folti baffi neri e capelli dello stesso colore, iniziò a urlare in tono aggressivo dalla prima fila. Agitò le mani e batté i piedi come se stesse camminando sui carboni ardenti, con gli occhi infossati che lanciavano sguardi rabbiosi a Klein e Monroe. Nel silenzio di quella regione desolata, la sua voce era assordante. Il resto del gruppo, pur non gridando con lui, aveva la stessa aria indignata.

Klein, che aveva lavorato a Mosca per tre anni dopo essersi laureato al Massachusetts Institute of Technology, parlava il russo alla perfezione, ma non riuscì a tradurre una sola parola. Dedusse quindi che l’uomo, a differenza di molti popoli indigeni della pianura siberiana, conosceva soltanto la lingua della propria tribù. Chiunque fosse, di sicuro era incazzato con qualcuno e, a quanto pareva, ce l’aveva anche con lui.

C’era un solo membro del gruppo che non sembrava arrabbiato: a destra dell’uomo, una donna teneva in braccio con fare protettivo un neonato imbacuccato in un cappuccio grande tre volte il suo visino, e sembrava molto preoccupata, con gli occhi quasi supplichevoli. Al contrario degli altri, era come se temesse qualcosa, un pericolo che avrebbe persino potuto danneggiare la sua famiglia. Nel frattempo, l’anziano continuò a inveire contro Klein, coprendolo d’insulti indecifrabili.

«Chi è quello?» chiese Klein distaccato, mentre con fare beffardo si girava verso la folla.

«Si chiama Yaloki», rispose stancamente Monroe. «È il capo degli allevatori di renne, o qualche cazzata del genere. Non so. Molto protettivo verso ’le terre degli evenchi e il loro stile di vita tradizionale’. Ogni volta che qualcuno osa anche solo starnutire su una mappa della regione o, peggio ancora, scavare in cerca di petrolio, sbraita e scrive fiumi di lettere indirizzate a Mosca.»

«Ma non siamo noi a scavare in cerca di petrolio, bensì l’Agerill. Allora perché non se la prende con loro?»

«Perché questa volta crede che stiate dissotterrando qualcosa di molto più importante del petrolio.» Monroe guardò, ascoltò e tradusse, anche se pareva annoiarsi a morte. «Dice che suo nonno ha visto il ’Signore del tuono’ conficcare la sua lancia infuocata nel terreno e cospargere il cielo di luci per rivendicare quest’area per il suo popolo. Molto vantaggioso per Yaloki. E prima di gettare la lancia ha tuonato con forza. Ora noi non soltanto stiamo rubando le terre, ma anche rimuovendo la lancia, e questo indurrà il Signore del tuono a compiere una vendetta feroce. Dice che dovremmo andarcene subito.»

Klein sospirò. «Il Signore del tuono? Okay, è probabile che qualunque evento celeste cui assistono abbia qualcosa a che fare con divinità vendicative e devastazioni d’immensa portata.»

Era stanco delle persone come quelle: incolte, cieche. Perché lui o la società petrolifera avrebbero dovuto dare retta a un gruppo raffazzonato di eschimesi russi ignoranti? Che ne sapevano del progresso? Per l’amor del cielo, se fosse dipeso da loro, Capitan Findus avrebbe catturato ancora i pesci con lance intagliate a mano.

«Be’, se non altro la sua eloquentissima metafora c’informa che il Signore del tuono si è lasciato dietro una scia e che ha gettato nell’aria particelle sufficienti a illuminare il cielo.» Klein guardò Monroe. «E mi piace l’idea del boato, ci sarà di grande aiuto.»

«Sarà stata un’esplosone sonica?»

«No, sarebbe stata udibile soltanto dopo la scomparsa del meteorite. Avrebbe raggiunto una velocità supersonica molto prima della penetrazione nell’atmosfera, perciò un’esplosione sonica avrebbe iniziato a viaggiare a un’altezza di cinquanta chilometri. Ma Yaloki ha detto che il fragore è arrivato prima della lancia. Secondo me, questo indica qualcosa di molto diverso.»

«Ad esempio?»

«Effetto elettrofonico.»

«Il che spiegherebbe le proprietà magnetiche della sfera.»

Klein sorrise. Esistevano molte testimonianze a proposito di suoni esplosivi percepiti in concomitanza alla comparsa dei meteoriti, se non addirittura prima, sebbene ciò contraddicesse le leggi fisiche della propagazione del suono. In passato, gli scienziati avevano imputato il fenomeno a un effetto collaterale puramente psicologico dell’osservazione di un evento celeste unico come un meteorite, ma molte ricerche, comprese quelle di Klein, l’avevano ritenuto improbabile.

Alla fine, la comunità scientifica aveva concluso che qualunque suono fosse in grado di viaggiare a una velocità così alta avrebbe dovuto essere prodotto dalla conversione diretta delle radiazioni elettromagnetiche in suoni percepibili. Ciò avrebbe significato che, durante la penetrazione nell’atmosfera, il meteorite produceva onde radio a bassissima frequenza. Quelle onde, dopo essersi diffuse molto più facilmente del suono puro, avrebbero colpito qualsiasi oggetto in prossimità dell’osservatore e soltanto allora si sarebbero trasformate in qualcosa di udibile.

Klein intuì che stava per imbattersi in un meteorite molto speciale.

Con un sorriso compiaciuto, voltò le spalle agli evenchi e seguì Monroe attraverso l’accampamento, superando le tende spartane che nelle ultime cinque settimane erano state l’alloggio temporaneo degli otto membri del team.

«Abbiamo già l’analisi della composizione?»

«Non ancora, ma la sfera è molto pesante. La più pesante, finora. Venga, le mostro dove ha colpito la piattaforma.» Monroe svoltò a destra e si diresse verso l’immenso impianto di trivellazione.

La struttura piramidale era alta poco più di nove metri, formata da un telaio di acciaio rinforzato da quarantasei centimetri e dotata di cinque enormi argani disposti in cerchio intorno alla sommità. A destra c’era una fila di cinque potenti generatori, collegati a un argano ciascuno.

Klein guardò su. Lo spesso cavo di supporto pendeva per meno di un metro e venti da uno dei macchinari, oscillando nel vento che sferzava la pianura, con le sezioni terminali divaricate come fossero dita aperte. «Ha spezzato un cavo?» Era stupito.

«Sì, signore. A un certo punto c’è mancato poco che abbattesse tutto l’impianto.» Monroe si avvicinò a una gamba della piramide e studiò l’enorme buca che correva in diagonale e si perdeva nelle viscere buie della terra.

Anche Klein la esaminò, quindi si diede un’occhiata intorno, guardando lontano. «Quanto siamo distanti dallo scavo di Casel’ka?»

«Duemilacinquecento metri.» Conoscendo bene Klein, Monroe anticipò la domanda successiva: «Un valore che, considerato che il meteorite era a una profondità di 1827 metri, ci dà un angolo di penetrazione di circa trentasei gradi. Perciò, sì, siamo abbastanza sicuri che questa sia una propaggine del grande meteorite del 1908».

«Non credo sia soltanto una propaggine.» Klein stava seguendo il filo di un ragionamento silenzioso. «Penso che possa essere un nucleo.»

Scrutò la buca nera, che nel punto dell’impatto aveva un diametro di circa sette metri e mezzo, e rifletté. Anche se con ogni probabilità il frammento era caduto molto tempo prima, la distanza dal «grande meteorite» di Tunguska del 30 giugno 1908 e l’angolo di penetrazione erano coincidenze troppo strane per ignorarle. Tunguska era quattrocento chilometri a est, e l’angolo dimostrava che, quando era precipitato, il corpo celeste stava viaggiando verso ovest.

Klein sapeva che erano state proposte molte teorie riguardo a Tunguska. A quanto pareva, non tutte si basavano sui meteoriti, perché nel sito non erano stati trovati frammenti. Tuttavia, a differenza di quasi tutti coloro che avevano espresso un’opinione, era consapevole che quel risultato non era sorprendente come sarebbe potuto apparire di primo acchito. Quando entravano nell’atmosfera terrestre, i meteoriti sfregavano contro le particelle d’aria, di solito riscaldando la propria struttura fino a superare i millecinquecento gradi Celsius. Un calore così intenso li faceva evaporare quasi tutti, lasciando soltanto scie di particelle, dette stelle cadenti. Però, era noto che altri meteoriti si erano «sbriciolati» e avevano generato un’enorme palla infuocata e una serie di esplosioni, alcune delle quali si erano udite fino a cinquanta chilometri di distanza.

A eccezione di Tunguska, naturalmente. In quel caso, il fragore si era sentito quasi centosessanta chilometri più in là. Ciò suggeriva non soltanto che il meteorite si era sbriciolato e, data l’immensa quantità di alberi abbattuti nella foresta di Tunguska, che l’aveva fatto a un’altitudine notevole, ma pure che aveva viaggiato a una velocità spaventosa. Klein sapeva, inoltre, che i meteoriti fatti di ferro resistevano meglio alle sollecitazioni di quelle di pietra, ma anche loro si disintegravano quando l’atmosfera diventava più densa, di solito a quota dieci chilometri.

Se era accaduto anche in quel sito, era possibile che un nucleo robusto avesse resistito alla disintegrazione e che avesse modificato l’angolo di penetrazione quanto bastava per deviare dei quattrocento chilometri necessari a colpire la pianura della Ratta. E quel nucleo, pur non essendo di ferro, era senza ombra di dubbio metallico. Era per quello che, nonostante il peso incredibile, erano riusciti a liberarlo.

«Dunque, per tirarlo fuori avete sfruttato le proprietà magnetiche?» Klein studiò l’argano rotto.

«Sì, l’abbiamo estratto dalla stessa parte da cui era entrato. Sapevamo che, dati i problemi dell’Agerill Manson, sarebbe stato impossibile trivellare e sollevarlo direttamente. Era impensabile che riuscissero a scavare un buco abbastanza largo a quella profondità, così abbiamo effettuato alcuni fly-bys geologici e qualche test sismico, e alla fine abbiamo individuato il foro di penetrazione proprio qui. Ormai la vegetazione l’aveva coperto, perciò non c’è da sorprendersi che nessuno l’avesse notato. Sembrava una caverna invasa dalle erbacce.»

«E poi?»

«Poi abbiamo mandato giù alcune sonde, che hanno registrato livelli magnetici eccezionali, e abbiamo deciso che se volevamo estrarlo da questa parte, data la distanza, probabilmente avremmo fatto meglio a usare le teste elettromagnetiche.»

«Quanto pesa?»

Monroe rise. «Quanto vuole che pesi? Ha rotto uno di quei cavolo di argani, giusto? E, alla fine, per tirarlo fuori ci sono voluti tre giorni e tutti e quattro gli altri macchinari, che hanno lavorato a pieno carico. Basandomi soltanto su questo, direi ottanta tonnellate, forse novanta.»

Klein trasalì per lo stupore, poi gli lanciò un’occhiata scettica. «E ha un diametro di soli due metri e mezzo?»

«Più o meno.»

«Allora di sicuro non è di ferro.»

«Impossibile, non con un peso del genere. Il meteorite più denso che abbiamo visto finora è quello caduto sul Nebraska nel 1948, credo. Novanta per cento di ferro, 8,5 di nickel, un po’ di cobalto e di magnesio. Ma questo…? Cristo, non mi viene in mente nessun materiale terrestre che pesi così tanto, a quel volume.»

«Neanche a me. Ma ora vorrei vederlo.»

Proseguirono verso il lato opposto del piccolo accampamento; un soldato solitario, con indosso una tuta mimetica bianca e grigia e il fucile di traverso davanti al petto, sorvegliava l’entrata della tenda. Oltre ai nastri che delimitavano l’area, era stata eretta una seconda barriera per tenere alla larga i profani. Il soldato fece il saluto militare e si spostò senza fare domande, lasciando che Monroe e il suo ospite passassero indisturbati.

Monroe guardò il superiore con impazienza.

«Ciao, bello», disse Klein.

I suoi occhi sgranati si riempirono di curiosità quando si avvicinò al corpo celeste. A prima vista sembrava un gigantesco cuscinetto di acciaio color terracotta, tuttavia non aveva la grana liscia né una perfetta forma sferica.

L’esterno era ruvido, a rivelare che il meteorite era stato creato piuttosto che fabbricato e, quando l’oggetto era sprofondato nel terreno, l’intenso calore aveva fatto sì che grossi pezzi di roccia, ora annerita, si fondessero a casaccio con la superficie. Attraverso alcune crepe, Klein vide che durante la penetrazione nell’atmosfera le temperature erano riuscite a fondere anche la superficie metallica della sfera, seppur non in profondità. Nervature lisce e scintillanti la percorrevano come lievi increspature e, poiché la palla era caduta vorticando, avevano formato una complessa serie di ghirigori, splendidi disegni che catturarono l’immagine di Klein per poi rifletterla come fosse un dipinto astratto.

«Radioattività?» domandò, senza distogliere lo sguardo.

«Non superiore a quella di un cellulare. Niente rischi.»

Klein si slacciò il guanto destro e lo lasciò penzolare dalla manica imbottita, poi si accovacciò e allungò la mano verso le nervature. Incuriosito, posò il palmo sulla superficie metallica. «Da quanto tempo è fuori?» chiese in tono sospettoso.

«Diciotto, diciannove ore.»

«Dovrebbe essere molto più freddo.»

«Già, ma non è così. Bisogna considerare il calore latente dell’abisso in cui era sepolto, ma non sembra un conduttore, perciò impiegherà più tempo per adattarsi ai cambiamenti ambientali.»

Anche in quel caso, pensò Klein, avrebbe dovuto essere più freddo. Senza ombra di dubbio. Persino il peggior conduttore metallico di calore sarebbe congelato a una temperatura inferiore allo zero. In sintesi, toccando la sfera, Klein avrebbe dovuto correre il rischio che la mano gli restasse appiccicata.

Sorrise. Era da quando, a dodici anni, aveva capito che erano gli scienziati e non i sacerdoti a custodire i segreti del pianeta che aspettava un ritrovamento come quello. Qualcosa di nuovo, qualcosa di letteralmente «fuori del mondo», che lo aiutasse a comprendere più a fondo la dimensione in cui «compratori» e «consumatori» coesistevano.

Ma no, pensò, vaffanculo la conoscenza. Quello era soltanto il campo base sulla montagna che era ansioso di scalare. La vetta era il controllo, ed era quello il luogo dove aveva sempre voluto essere. Aveva atteso quel giorno per quarantaquattro anni. Doveva tenersi stretto il sogno che era suo di diritto.

«Il comitato è stato informato?» Ricominciò ad accarezzare la roccia metallica.

Monroe fece no con la testa. «Lei è l’unico a esserne al corrente, signore. Sto scrivendo una relazione che dovrebbe essere pronta per l’invio via e-mail tra altri uno o due giorni di studio in loco. Poi, potranno decidere cosa fare del meteorite.»

Klein era smarrito nel proprio riflesso distorto, intento a toccare l’immagine arricciata dei suoi lineamenti come si farebbe con l’unica fotografia rimasta di un parente scomparso. «Lascia che sia io a finire la relazione; ho uno o due suggerimenti che vorrei dare al comitato.»

Monroe sorrise. Considerato che lavorava per Klein da oltre quindici anni, sapeva bene cosa voleva il suo capo e come avrebbe cercato di ottenerlo. Di solito, il fatto di essere uno stimato consulente scientifico del presidente gli conferiva il potere di avanzare proposte e di ricevere carta bianca su quasi ogni linea d’azione, giusta o sbagliata che fosse.

«Lo vuole tutto per sé, non è vero?»

Klein si raddrizzò e si rimise il guanto. Neve o non neve, dovevano esserci almeno quindici gradi sotto zero, con l’aggiunta di un vento gelido.

«Ci puoi scommettere», dichiarò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «E noi due, Alun, faremo in modo che sia così.»

La Teoria Dell'eternità
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