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Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,

domenica, 2 agosto 2043

Non era stato semplice quanto aveva sperato Klein. Come aveva potuto illudersi del contrario?

Innanzitutto c’erano i «topi». In competizione per un viaggio nel passato e in fuga dalla giustizia, aveva osservato sorridendo. Bastardi grossi e pericolosi, dal primo all’ultimo, cinque in tutto, anche se sospettava che il numero sarebbe aumentato dopo una nutrita serie di successi, o dopo una serie ancora più nutrita d’insuccessi. Tanto per cominciare, quegli uomini dovevano rimanere del tutto isolati dal resto del mondo; non poteva rischiare che uno di loro spifferasse ogni cosa a una guardia, a un altro detenuto o ai parenti, ormai convinti che fosse morto.

Ciò aveva reso necessaria la costruzione di una struttura speciale che, per motivi logistici, era stata collocata sotto il «laboratorio ermetico» a un piano situato dietro la KleinWork Tower, lo spazio che, per il momento, era dedicato unicamente al progetto Sequence. Le mappe e i grafici indicavano che quel luogo, a poco più di tre chilometri dall’area in cui Los Angeles aveva iniziato a germogliare come un fiore di cemento, era rimasta disabitata fino al 1892 circa, e Klein non vedeva la ragione, almeno ai fini del collaudo, di spedire qualcuno nel passato perché arrivasse dopo quella data.

Così, una struttura completa, ubicata in un sotterraneo creato apposta per quello scopo, era diventata la nuova Polunsky per cinque uomini arrabbiati. Mangiavano, dormivano e cagavano, e non avrebbero mai più rivisto la luce del giorno. Ma erano ancora vivi, giusto? E avrebbero avuto tutto il tempo di crogiolarsi al sole, una volta che Klein li avesse messi nel labirinto per guardarli correre. Cavolo, forse sarebbero persino stati ansiosi di partire.

Tuttavia, con quegli uomini feroci arrivarono guardie ancora più spietate, e con mani capaci di uccidere comparvero fucili in grado di fare la stessa cosa, ma un po’ più velocemente. Klein aveva sempre odiato le armi, soprattutto quando si trovavano nelle sue aziende. Come ogni magnate, sapeva che erano un male necessario e che tutti i suoi buttafuori ne avevano una, ma non avevano mai avuto a che fare con killer incalliti, no? Un errore umano, e gli effetti avrebbero potuto mandare a monte il progetto.

Ai vecchi tempi aveva potuto delegare le questioni di sicurezza più gravi a Grier e al suo team, senza farsi coinvolgere in prima persona. Ora, però, era costretto ad affrontare uomini che, secondo gli accordi, avrebbero dovuto sopportare quelle condizioni per quattro o cinque mesi al massimo e che, invece, erano rinchiusi da quasi due anni e mezzo. Quelli che con un eufemismo venivano chiamati «inconvenienti» stavano diventando quasi episodi settimanali, e Klein, che ormai aveva settantasei anni, era seduto sulla polveriera più esplosiva che si potesse immaginare: uomini senza famiglie né responsabilità, uomini cui non importava niente di nessuno.

Poi c’erano i tatuaggi. Sebbene l’uso delle immagini tatuate fosse documentato sin dagli egizi nel 2000 a.C., e benché fosse diffuso da tempo nella società giapponese, tre candidati avevano dovuto essere respinti perché sfoggiavano tatuaggi raffiguranti scene del XXI secolo: un’iniezione, ed erano stati rispediti alla Walls. Alcuni erano stati sottoposti alla rimozione parziale col laser, ma anche quelli che non si erano mai fatti tatuare prima dell’arresto avevano il «marchio della prigione» che dal 2023 accomunava tutti i carcerati: il disegno sulla caviglia sinistra che rivelava la loro natura di detenuti, o ex detenuti, di un penitenziario statale. Alla fine, Klein aveva deciso di sfruttare quel simbolo a proprio vantaggio, per dimostrare che il progetto sarebbe andato a buon fine.

Il primo esperimento, il test di sequenza, in principio era stato programmato per la fine di maggio e avrebbe dovuto essere un ritorno al 1865. Purtroppo per Klein, era stato necessario un rinvio perché Jake Edison, il candidato prescelto (ormai a conoscenza di ogni dettaglio), era rimasto coinvolto in una rissa in mensa e si era ritrovato con la gola tagliata da un piatto rotto. Anche se era sopravvissuto, Klein aveva suggerito che Leroy Stubbs, il tizio che aveva tentato di ucciderlo, prendesse il suo posto. Ma il sostituto adatto era stato trovato soltanto dopo che Sherman aveva sottolineato che Stubbs era nero e che lo avrebbero linciato entro un’ora dal suo arrivo.

Gregg Castle aveva rimpiazzato Edison e Stubbs e non era stato molto contento di fare da cavia. Era sicuro che sarebbe andato tutto male e che sarebbe morto tra mille sofferenze, e non aveva cambiato idea nemmeno quando Klein, attraverso il vetro temperato, gli aveva detto che il dolore sarebbe stato sempre meglio della pena di morte che, altrimenti, gli sarebbe stata inflitta di lì a otto mesi.

In realtà, Castle avrebbe dovuto essere soddisfatto. Dopotutto, la sua missione era la più semplice, perché non avrebbe dovuto rubare nulla né rischiare la pelle in un mondo lontano. Avrebbe soltanto dovuto procurare un oggetto, qualcosa di tipicamente ottocentesco, e seppellirlo dove gli fosse stato detto, assieme a uno schizzo del tatuaggio carcerario, così che non potessero esserci equivoci. Avrebbe potuto aggiungere la data e una descrizione completa e accurata dell’epoca in cui sarebbe arrivato, e qualunque altra cosa avesse ritenuto opportuno lasciare o segnalare.

La mattina di domenica 2 agosto, Castle fu preparato nella sua cella, consumò un ultimo pasto a scelta, fu sottoposto a una visita medica completa e ricevette una capsula di gomma gialla che conteneva una piccola quantità di grani d’oro, tre diamanti non tagliati e cinque fiammiferi. Come tutti i candidati, aveva già subito un intervento chirurgico col laser per la rimozione delle impronte digitali. Queste, infatti, nelle giuste condizioni, potevano conservarsi per secoli, e nessuno voleva che un manufatto storico spennellato da un archeologo in TV potesse rivelare le impronte di un tizio che fino a poco tempo prima era stato rinchiuso nel braccio della morte.

Al suo arrivo, se fosse sopravvissuto, avrebbe dovuto usare l’oro e i diamanti per acquistare vestiti e cibo, e utilizzare almeno un fiammifero per bruciare la gomma, distruggendo così l’ultima prova schiacciante. Sotto stretta sorveglianza, s’infilò il proiettile nel sedere e, in catene, fu condotto da quattro membri della sicurezza della KRT nell’ascensore che l’avrebbe portato al piano di sopra.

Durante il tragitto, dissero, sudò, imprecò e pregò.

Alle 10.47, ancora ammanettato e con indosso la tuta rossa, Castle fu trasferito nel laboratorio ermetico, e dal soffitto scese una maschera che gli avrebbe permesso di respirare nel vuoto. L’unica altra modifica apportata al locale era stata un innalzamento del pavimento di sessanta centimetri, perché indagini approfondite avevano collocato il suolo desertico dell’antica Los Angeles circa trenta centimetri sopra il livello attuale.

Nei limiti del ragionevole, l’uomo fu autorizzato a muoversi liberamente nella stanza, cosa che fece, camminando con andatura goffa, senza mai guardare verso la finestra. I cinque membri del team assegnato al progetto erano presenti per assistere alla sua partenza, tutti muniti di cuffie protettive rosse e di occhiali avvolgenti dello stesso colore. Avevano un’aria impaziente e speranzosa.

Tutti tranne Alison Bond. Dopo aver messo da parte l’orgoglio pur di restare nella squadra, era così disgustata da avere la nausea.

Klein, costretto in via temporanea a usare una sedia a rotelle per via di un leggero ictus che l’aveva colpito tre mesi prima, guardò oltre il vetro e sorrise. «Ci siamo, signori.» Si voltò verso Alison. «E signora, naturalmente. Questo è il momento in cui il passato diventa futuro.»

Sul banco di comando, Strauss premette il pulsante verde che fece abbassare il braccio metallico, quindi azionò il sensore automatico per posizionare le dita. Castle, col sudore che gli gocciolava sulla faccia e che gli bagnava i baffi da motociclista, appariva disperato e a disagio, con gli occhi che saettavano qua e là. Alison dubitò che sarebbe sembrato meno preoccupato se fosse stato steso su una barella alla Walls, perché se non altro, in quel caso, avrebbe saputo cosa stava per accadere. Là dentro non ne aveva idea e, a dire il vero, non ce l’avevano nemmeno gli uomini alla sua destra.

Strauss digitò pigramente 371 sulla tastiera del computer addossato alla parete posteriore: il numero che, in teoria, avrebbe dovuto mandare il prigioniero più o meno nel 1865. Come se qualcuno lo sapesse per certo. Poi, Strauss scivolò avanti, con l’indice sopra il primo interruttore arancione. Guardò Klein che, dopo una pausa e un sorriso fiducioso, annuì. Il ronzio riempì la stanza.

Castle, più agitato che mai, cominciò a camminare qua e là, dandosi delle occhiate intorno, assalito dal panico. Quella situazione non gli piaceva affatto. Era spaventato, dal rumore e dalla sensazione avrebbe voluto essere altrove e, forse per la prima volta in trentasette anni, desiderò che sua madre si chinasse su di lui e gli accarezzasse la fronte.

Quando il visualizzatore digitale salì e si stabilizzò in corrispondenza del valore 371, Strauss si girò di nuovo verso Klein, che a sua volta, sempre con gli occhi puntati su Castle, fece un cenno col capo, e il secondo interruttore entrò in funzione.

Lo stridore assomigliò a un’esplosione e, benché fosse difficile distinguere i suoni, fu chiaro che Castle si mise a gridare. Fu una scena quasi comica, come se il detenuto stesse cantando in playback. Si muoveva rapido e goffo, coi ferri che, a ogni passo, strisciavano sul pavimento. Poi, s’immobilizzò e fissò Alison. La giovane non avrebbe mai dimenticato la sensazione che provò in quell’istante né lo sguardo che vide negli occhi del prigioniero.

Quell’uomo aveva ucciso la moglie frustandola con la catena di una motocicletta e l’aveva lasciata là, coperta di grasso e di sangue; in seguito, aveva preso una pistola e durante la fuga aveva freddato altre tre persone in una stazione di servizio. Aveva ammazzato senza esitazione, scegliendo vittime innocenti e sparando a bruciapelo. Aveva rischiato una morte quasi certa per mano di quindici tiratori della polizia ed era sopravvissuto, per poi essere condannato a morire con un’iniezione letale. Probabilmente non aveva mai conosciuto la paura, almeno fino a quel giorno; nei suoi occhi, Alison lesse soltanto l’orrore di un bambino di cinque anni che teme ci sia un mostro dentro l’armadio. A giudicare dalla sua espressione, il detenuto credeva che sarebbe morto nel peggior modo immaginabile e aveva la bocca così spalancata che Alison riuscì a vedergli i molari guasti.

Ci fu il lampo, la luce accecante che inondò la stanza e che tinse ogni cosa di un azzurro acceso, appena più scuro del bianco. Castle sparì. Ormai non si potevano fare che ipotesi su dove fosse finito. Strauss spense l’interruttore e lo stridore cessò.

Ovunque, tranne nella testa di Alison.

Il laboratorio era silenzioso e spettrale, con le dita metalliche alla giusta distanza dalla sfera e con la maschera che dondolava lenta dal soffitto. A destra del siberio c’era una tuta spiegazzata, che pareva essere stata gettata là da un amante impaziente. Da sotto il tessuto spuntava, appena visibile, uno dei due schiavettoni che fino a poco prima avevano bloccato le caviglie di Castle.

«Eccellente», disse Klein calmo, come se nel suo mondo quegli episodi fossero all’ordine del giorno. Si spostò dietro la telecamera e premette STOP, poi, un secondo pulsante, e il disco DVX gli scivolò in mano. «Che ne dite di una breve gita?»

Il sole, di un intenso rosso sangue, era già basso sull’orizzonte quando raggiunsero il sito. Strauss, al volante, fermò il SUV su ordine del suo superiore, quindi lui e Sherman smontarono e abbassarono la rampa per la sedia a rotelle. Lungo il tragitto, Klein aveva guardato il DVX sul sistema di bordo del veicolo, concentrandosi sui due fotogrammi in cui si vedeva chiaramente Castle sullo sfondo di un panorama desertico. I vestiti, che non avevano avuto il tempo di cadere per effetto della gravità, gli aderivano ancora al corpo, benché fossero semitrasparenti e lasciassero intravedere la sua nudità. La bocca era paralizzata in una smorfia di orrore. Era impossibile dire se la paura fosse stata accentuata da una morte istantanea e molto dolorosa.

La sedia a rotelle procedette senza difficoltà sul terreno indurito dal sole. Senza ringraziare i due uomini che l’avevano aiutato, Klein si allontanò dalla pista e si diresse verso una parete rocciosa rosso brillante.

«Perché qui?» chiese Kerr.

«Perché no? Non mi è venuto in mente posto più sicuro.»

Erano a centotrenta chilometri da Los Angeles, ai piedi del monte Eagle Crags, a un chilometro e mezzo dal lago asciutto di Cuddeback. Klein era stato là poco più di un mese prima, con Sherman, Castle e due guardie, per scegliere il luogo preciso, che avrebbe dovuto essere identificabile con facilità sia nel presente sia nel passato. Aveva impiegato più di un’ora per trovare il punto ideale.

Si fermò alla base di un pilastro di roccia multicolore alto forse nove metri, a circa un metro da una rupe di dimensioni analoghe. Una lucertola che aveva cercato riparo all’ombra corse a nascondersi sotto un sasso. Sherman, armato di vanga, rimase al fianco di Klein, in testa al gruppo.

«A te l’onore, Dave», fece il vecchio.

L’altro sorrise. Potevano prendersi i loro topi e inchiappettarli finché non sputavano i denti; se quel giorno avessero trovato ciò che sperava, la sua teoria si sarebbe dimostrata corretta: il mondo non era altro che un mucchio di numeri. Meglio ancora, quei numeri si potevano controllare, e mandare le persone indietro nel tempo era appena l’inizio. Non gliene fregava niente del passato o del futuro, l’unica cosa che gli stava a cuore era il presente, e come fosse possibile manipolarlo attraverso la verità che lui, e lui soltanto, aveva rivelato a Klein.

I bambini indiani che piegavano l’acciaio sarebbero sembrati dei pagliacci, rispetto alle possibilità che quella scoperta avrebbe offerto. Klein non avrebbe vissuto ancora a lungo, la sedia a rotelle e i lineamenti leggermente deformati dall’ictus erano la prova che la salute lo stava abbandonando, e non aveva figli.

A prescindere dal fatto che la KleinWork Research Technology fosse destinata a passare sotto il controllo di Sherman – e non c’era nulla che corroborasse quell’ipotesi –, la tecnologia sarebbe senza dubbio finita in mano sua. La conosceva ed era in grado di sfruttarla. Persino il vasto patrimonio accumulato da Klein sarebbe sembrato un’inezia, quando fosse stato Sherman a tenere i cordoni della borsa.

Conficcò la pala nel terreno e gettò via una zolla di terra rosso pallido.

«Non mi piace.» Senza volerlo, Alison pronunciò quel pensiero ad alta voce.

«La tua opinione merita rispetto, come sempre, Alison, tuttavia non ti pago profumatamente perché ciò che facciamo ti piaccia, ma solo perché venga fatto», la rimbeccò Klein.

Kerr e Haga la guardarono, e Alison non aggiunse altro.

Sherman, fradicio di sudore, aveva già scavato una buca di quasi sessanta centimetri. Aveva previsto che avrebbe dovuto raggiungere una profondità notevole, soprattutto dato l’accumulo dell’erosione proveniente sia dal dirupo, sia dal pilastro a livello del terreno, ma a ogni colpo di vanga si sentiva sempre più frustrato. Non c’era nulla là sotto. Niente di niente. Se Castle era arrivato a destinazione, doveva aver fallito miseramente.

Si fermò e si appoggiò alla vanga, in preda alla rabbia. «Niente.»

Klein sospirò. Dalla sua espressione traspariva che anche lui era irritato, ma quello non era certo il capolinea. Anzi, cosa sarebbe stata la strada buia della scoperta senza qualche fallimento a illuminarla? «Allora riproviamo, e continuiamo a tentare finché non azzecchiamo.»

Sherman sbuffò. Stentava a credere di essere andato fin là con quel caldo e di essersi spezzato la schiena inutilmente. Fatica sprecata. «Non avremmo mai dovuto fidarci di quell’idiota. Non sapeva neanche allacciarsi le scarpe», replicò, riferendosi a Castle. Si morsicò le labbra, con gli occhi che mandavano lampi di collera, quindi sollevò la vanga e la spinse nella buca. «Maledetto figlio di puttana!»

L’arnese cadde a terra, ma il suono che produsse fu molto diverso da quello che aveva generato fino a pochi istanti prima: non metallo che fendeva la sabbia dura, bensì metallo che urtava qualcosa di compatto e cavo, un oggetto che avrebbe potuto essere una scatola di legno.

Si avvicinarono tutti, tranne Alison, e si scambiarono un’occhiata. Sherman non riprese subito a scavare, come se non ne avesse il coraggio. Non era trascorso che qualche minuto da quando aveva temuto che non avrebbe trovato nulla, e adesso era in ansia per ciò che aveva scoperto. Là sotto c’era qualcosa, proprio nel punto in cui avrebbe dovuto essere, e questo significava una cosa sola.

«È un contenitore, vero?» chiese Haga.

Persino Alison, benché fosse preoccupata per le implicazioni del ritrovamento e avesse pregato che l’esperimento fallisse, non poté trattenere la curiosità. «C’è soltanto un modo per scoprirlo.»

Sherman spostò la terra, rivelando uno spigolo di legno. Poi rimosse la sabbia con le mani e di lì a poco estrasse la scatola. Il legno era scuro e decorato con un ricco intaglio, le cerniere e la serratura d’ottone scintillavano nella luce calda del tramonto.

La posò ai piedi di Klein, che la guardò per un istante, senza tradire nessuna emozione.

«È bellissima», osservò Alison.

Lui annuì. La cassetta era magnifica, in tutti i sensi. «Aprila», ordinò.

Sherman sollevò la serratura e alzò il coperchio – l’aria si riempì di scricchiolii e di silenzio impaziente –, la schiuse e infine la spalancò per rivelarne il contenuto. Sei paia di occhi ansiosi sbirciarono ciò che era rimasto nascosto per centosettantasette anni, sotterrato da un uomo che appena otto ore prima aveva urlato loro in faccia.

«Signori, credo che abbiamo un vincitore», dichiarò Klein, con voce strozzata.

La Teoria Dell'eternità
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