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Aeroporto internazionale di Los Angeles,
domenica, 12 giugno 2011
Dovemmo fare la fila per dieci minuti al banco della DHL. Una stupida vecchiaccia con le palpebre così liftate che mi sarei stupito se l’avessi vista chiudere gli occhi per dormire stava spedendo qualcosa a una cugina di New York. «Mi raccomando, lo tratti con cura, giovanotto, dentro c’è un flacone di profumo da cinquecento dollari ed è fragile. Capito?» Ripeté la parola come se l’impiegato fosse analfabeta: «Fra-gi-le».
Scoppiai a ridere. Temeva potessero danneggiare una costosissima bottiglietta d’acqua che avrebbe dovuto impedire a sua cugina di puzzare ancora di piscio, mentre Sarah aveva inviato due antichissime tavole di pietra che, se autentiche, avevano un valore probabilmente superiore a quello complessivo del NASDAQ. L’aveva fatto senza agitarsi quando le aveva spedite e senza spazientirsi al momento di ritirarle. Senza la minima traccia di arroganza. Aveva aspettato con calma, come se fosse stata certa che sarebbero state al sicuro.
L’ammetto, ero un tantino scocciato al pensiero che fosse stato così facile. L’irritazione non mi abbandonò per quasi dieci minuti. Sai, la fortuna non è come la moglie del tenente Colombo; devi vederla di tanto in tanto e, se bussa alla mia porta, le apro e la invito a bere una birra in qualsiasi giorno della settimana.
Quando il pacco fu nello zaino di Sarah, uscimmo sotto il sole e recuperammo la Taurus dal parcheggio. Era rimasta là per tutto quel tempo e nessuno l’aveva toccata. Dunque, amico mio, puoi immaginare che razza di rottame fosse. Mentre superavamo le transenne e ci dirigevamo nel traffico verso l’interstatale 405, inforcai gli occhiali da sole e feci quella che mi sembrava la domanda più importante della giornata. Naturalmente non lo era. «Dove andiamo?»
Sarah, come sempre, stava guardando il mondo che filava via fuori del finestrino. «In una ferramenta», rispose laconica.
Ci fermammo davanti all’All-Mart in Dewberry Road: TUTTO CIÒ CHE TI SERVE IN UN SOLO NEGOZIO… E MOLTO ALTRO! Sarah mi pregò di aspettarla in auto e l’accontentai. Non restò via per più di quindici minuti, durante i quali scesi e mi appoggiai disinvolto alla Taurus, fumando una sigaretta e sudando. Quando tornò, notai che era riuscita benissimo a dimostrare la veridicità dello slogan, comprando due pale, una scatola con la scritta MAGELLAN in lettere rosso scuro, una mappa della California, una confezione di sandwich, snack assortiti e dodici bottiglie di Budweiser. «La regina delle birre», scherzò.
Ripose gli attrezzi nel bagagliaio, si rimise gli occhiali scuri, e la tregua temporanea dal caldo afoso della Taurus finì bruscamente.
«Okay, dove andiamo adesso?»
«Tu continua a guidare, io continuo a darti indicazioni.»
Mi chiese di seguire l’interstatale 405 fino alla 5 e là piegammo verso nord. Più ci allontanavamo dalla distesa caotica di Los Angeles, e più l’area circostante assomigliava a un deserto, col sole che batteva con intensità sempre maggiore sul parabrezza. Sarah prese due bottiglie di birra dal sedile posteriore, le aprì col portachiavi e me ne porse una.
Dopo un’ora circa entrammo nel Grapevine Canyon e oltrepassammo i cartelli per il Fort Tejon State Historic Park, a centodieci chilometri da Los Angeles.
«Una volta ho portato qui mia moglie. Quando ancora non eravamo sposati e cercavo di far colpo su di lei. Era appassionata di storia, così abbiamo fatto una gita», dissi.
«Un romanticone», ribatté sarcastica.
«Ti sbagli. È stata un’esperienza schifosa, e gliel’ho ripetuto per tutto il viaggio di ritorno. Avevo sprecato una giornata ad ascoltare attori da quattro soldi con costumi di metà Ottocento, mentre borbottavano quanto fosse faticosa la vita e mentre ferravano i cavalli o intagliavano merdosi oggetti di legno. Abbiamo persino dovuto guardare la ricostruzione di un’incursione degli indiani chemeheui nelle caserme, interpretata da attori ancora più scadenti. Il passato non m’interessava allora e non m’interessa adesso. Stavo solo cercando di conquistare una bella ragazza.»
«Ha funzionato?»
«Altroché.»
«Allora il passato non t’interessa?»
«No.»
«Quindi non credi ai viaggi nel tempo?»
Risi. «No.»
«Io ci credo.» Guardò fuori.
«A cosa?»
«Ai viaggi nel tempo. Ci credo moltissimo», mormorò.
«Quelli descritti nei romanzi di H.G. Wells, intendi?»
Fece sì con la testa. «Pensi che non siano possibili?»
«Certo che no.» Mi consideravo un individuo abbastanza sano di mente, perciò non avevo ragioni particolari per prestare fede a una cosa simile. «Perché me lo chiedi?»
«Ma credi nelle capacità di Tina?»
«Ti riferisci agli Snickers?»
«Mi riferisco a qualsiasi cosa. Tu l’hai vista all’opera soltanto con gli Snickers.»
Ci pensai su. «Non saprei.» Ero sincero. «Non credo sia stata una messinscena, se è questo che intendi, ma è difficile convincersi.»
«Ma sarebbe possibile che Tina abbia spostato il cioccolato con la semplice forza del pensiero o con la volontà?»
«Okay, se serve, sarebbe possibile.»
«Allora lo sarebbero anche i viaggi nel tempo?»
«Non ho detto questo. E nemmeno che esistono gli alieni o che Kennedy è stato vittima di un complotto governativo. Non è la stessa cosa.»
«Gli alieni, no. Kennedy, no. Ma il giochetto di Tina e i viaggi nel tempo, sì. Sono esattamente la stessa cosa.»
«Non dal mio punto di vista.»
«E invece sì. Devono esserlo. Perché se Tina sposta qualcosa, qualsiasi cosa, deve cambiare una sequenza di numeri, quelli che determinano la posizione dello Snickers. Tre dimensioni: larghezza, profondità, altezza. Sei d’accordo?»
«Sì.»
«E qual è la quarta dimensione?»
«Non ne ho la minima idea, Sarah. Qual è?»
«Il tempo, stupido. È un dato scientifico che il tempo è la quarta dimensione, perché un oggetto è nel punto ’x virgola y virgola z’ solo in un determinato istante ’t’. Prima e dopo potrebbe essere da tutt’altra parte. Tina può modificare ’x’, ’y’ e ’z’ soltanto se conosce anche ’t’, il momento in cui l’oggetto si trova in quel punto. Poi, mentre il tempo ’t’ scorre al ritmo normale, mia sorella cambia le altre coordinate e lo Snickers si muove verso di lei… nel corso del tempo. A prescindere dal fatto che sia un minuto, un secondo o un battito di ciglia, deve esserci un elemento temporale.»
«Cosa stai cercando di dirmi? Che, se Tina riuscisse a regolare nella sua mente anche il momento ’t’, potrebbe far scomparire lo Snickers e farlo ricomparire, magari, un’ora dopo?»
«Più o meno. Oppure un’ora prima.»
«Non me la bevo.»
Col dorso della mano si asciugò un goccio di birra dal mento. «Ma sarebbe possibile?»
«Se è per farti contenta, d’accordo, riconosco che sarebbe possibile.»
Parve soddisfatta.
«Ma continuo a credere che non lo sia», precisai.
«Io, invece, sono sicura di sì.»
Ricordai la sua domanda iniziale. «Aspetta un attimo, stiamo parlando dei viaggi nel tempo?»
«Sì.»
«Viaggi umani? Come nei libri di H.G. Wells?»
«Esatto.»
«Tina come potrebbe riuscirci? Come modificherebbe la sequenza per un essere umano? Toglimi questa curiosità.»
«Non sarebbe lei a farlo.»
«Chi, allora?»
«Non ’chi’, Nick, ma cosa.»
«Okay. Cosa?»
«Qualcosa di abbastanza potente da piegare il tempo.»
«Ad esempio?»
Rifletté. «Sai cos’è un buco nero?»
«Un pessimo film Disney con Maximilian Schell e un robot spaventoso?» Poi, notando la sua occhiataccia, aggiunsi: «No, non ne ho idea».
Si sventolò con la mappa. «Bene, lascia che te lo spieghi.»
Dopo qualche chilometro lungo l’autostrada da Fort Tejon a Mettler, mi chiese di uscire dall’interstatale 5 e raggiungemmo il genere di territorio in cui le strade perdono ogni significato e diventano un unico lungo tratto, come in uno spot della Marlboro. Alla fine di ogni rettilineo c’era l’orizzonte e oltre l’orizzonte si snodava un altro rettilineo interminabile che conduceva dritto verso l’orizzonte successivo.
E così via.
Se non altro, ero sicuro che i due killer, o i loro complici, non ci stavano alle costole.
A meno che non ci stessero seguendo via satellite.
Fu l’ennesima dimostrazione del fatto che anche Colombo doveva armarsi d’ironia, soprattutto nei tempi morti, e capii che interpretare sua moglie era proprio un lavoro ingrato.