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Serres, Perpignan, Francia,
sabato, 11 giugno 2011
Se da fuori la chiesa assomigliava a un fienile, l’interno non era da meno: freddo, buio e vuoto, come se da secoli non entrasse anima viva. C’erano due file di panche scure, alcune delle quali erano scheggiate o rotte da abbastanza tempo perché il legno più chiaro sotto il rivestimento fosse stato ingrigito da strati e strati di polvere, ormai sedimentati. Gli unici raggi di luce si protendevano come braccia colorate dalla grande finestra istoriata, raffigurante la Vergine e il Bambino in toni molto più spenti di quelli originali.
Le pareti erano spoglie, fatiscenti quasi quanto i muri esterni, e alcuni mucchietti di calcinacci si erano accumulati ai loro piedi, dopo essere caduti dagli spazi vuoti visibili tra le pietre. Nell’angolo a destra c’erano due corde sudicie e sfilacciate e una stretta scala di ferro coperta di ruggine. Un tempo doveva essere servita per riparare o sostituire la campana. Alla base della scala erano accatastati attrezzi e barre di ghisa, di sicuro lasciati da chi aveva effettuato l’ultimo intervento di manutenzione. Là accanto era posato un vassoio di legno, coperto di fango grigio e indurito, che evidentemente gli operai avevano utilizzato per mescolare il cemento.
Quel luogo aveva bisogno di un custode, su quello non ci pioveva, ma il prescelto avrebbe dovuto essere una persona che camminasse con meno lentezza di una lumaca, che avesse la forza di usare una scopa e che sorvegliasse gelosamente l’edificio, anziché far entrare degli estranei borbottando: «Là vous êtes», mentre tornava a sedersi sotto il sole dall’altra parte della strada, come aveva appena fatto il nostro ospite.
Sarah diresse lo sguardo verso l’altare, il punto in cui un tempo – non sapevo quando – un uomo vestito di bianco aveva forse ordinato ai presenti di confessare i loro peccati al Signore o di affrontare la dannazione eterna. Date le condizioni dell’edificio, immaginai che la chiesa non avesse mai confessato nulla in vita sua.
Sarah avanzò, posò lo zaino sul pavimento e fece scorrere le dita sulla superficie ruvida dell’altare. «Sì, è il posto giusto», disse, rapita.
«Come fai a saperlo?» Mi avvicinai, mentre girava intorno alla base.
«Perché questa è l’Arca dell’alleanza», rispose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Non sapevo granché dell’argomento, e le mie scarse conoscenze venivano perlopiù dall’ultima scena di un film con Harrison Ford. Purtroppo, era la parte in cui lo spettatore avrebbe dovuto distogliere lo sguardo.
«L’Arca dei. È una riproduzione piuttosto malridotta, lo ammetto, ma è abbastanza fedele. Vedi? Qui s’infilavano i manici.» Indicò due anelli di ottone arrugginito, incassati nella pietra.
Fece del suo meglio per colmare le mie lacune. L’arca originale – quella biblica – era una cassa appoggiata su quattro piedi di ottone che, ai fini dell’altare, erano stati scolpiti nella pietra. Veniva trasportata grazie a due aste inserite nei quattro anelli, sopra i quali un’ampia area smussata rappresentava il coperchio.
In cima al coperchio originale c’erano due angeli d’oro che allungavano le ali l’uno verso l’altro. «’I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro’», citò Sarah, accarezzando l’angelo di pietra rimasto e il moncone spaccato del secondo.
Grattò con delicatezza un ultimo frammento di foglia d’oro che si aggrappava disperato alla pietra, e quello volò giù, unendosi agli altri che erano caduti accanto alla base massiccia.
«Scommetto che era splendido.» Soffiando, sollevò una nuvola di polvere che la fece tossire. «Come facciamo ad aprirlo?»
«Alziamo il coperchio?»
«Questa riproduzione è formata da un solo pezzo. A differenza dell’originale, non ha un coperchio vero e proprio.»
«Allora cosa proponi?»
«Speravo che tu avessi un lampo di genio.» Spinse la pietra, tirò l’ottone e tastò un cherubino fino a staccargli la testa. «Ops», fece con un sorriso malizioso.
Dubito che fosse un danno grave, date le condizioni pietose dell’altro angelo.
Sarah esaminò meglio la base: i piedi erano a forma di ghiande capovolte che correvano verso l’alto in direzione della lastra di pietra. Tuttavia, poiché l’originale doveva essere stato posato su quei piedi, lasciando uno spazio vuoto in basso, la pietra posteriore era scavata in profondità e, quando l’arca era illuminata dall’alto, creava un’area più buia.
Sarah accennò un sorriso. «Salve, cos’abbiamo qui?» Sembrava un funzionario della dogana che avesse appena scoperto una generosa quantità di cocaina sotto uno strato meno generoso (metaforicamente parlando) di biancheria usata.
Si spostò dietro l’altare e cominciò a spingere la sottile lastra di pietra collocata sotto il blocco principale. Quella che, essendo stata scavata, creava un effetto tenebroso tra i piedi. Niente. Spinse più forte. Ancora niente. Appoggiò i piedi contro la parete e fece leva sulle gambe. La pietra si mosse. Soltanto di un millimetro, ma era sufficiente.
«Sì, gradirei un po’ di aiuto, Nick. Grazie.»
Girando intorno all’altare, infilai le dita nell’intercapedine, alta appena otto centimetri, e spinsi con tutte le mie forze. Sentii la pietra scivolare a poco a poco, e quasi mi spezzò le falangi.
«Tu spingi, io tiro.» Sarah passò sull’altro lato.
Mentre la lastra si spostava, la guidò dolcemente. Non riuscivo a vedere il contenuto dell’altare, ma la sua espressione sì: stupore, riverenza e Dio solo sa cos’altro.
Qualunque cosa fossero, c’erano. Le – come le aveva chiamate? – le «tavole» c’erano.
La pietra si bloccò, incastrata. Con le mani nella fessura, avevo perso la presa, perciò smisi di spingere e ripresi fiato. Massaggiandomi le dita indolenzite, mi guardai intorno in cerca di qualcosa con cui finire il lavoro.
«Sorreggi la lastra. Mi è venuta un’idea», dissi.
Andai verso le corde, le allontanai coi piedi come fossero serpenti morti e selezionai una sbarra di acciaio. Me la sbattei energicamente contro il palmo, come si fa quando si minaccia un teppistello odioso con una mazza da baseball.
D’un tratto, la porta si spalancò con un gran rumore e Sarah si voltò, la bocca aperta e gli occhi strabuzzati. Vedendo chi fosse, si rilassò. «Dio santo, mi ha fatto venire un colpo.»
Dall’angolo in cui mi trovavo non riuscii a scorgere con chi stesse parlando, ma riconobbi la voce: vecchia, biascicata, francese. Però non era la stessa, o aveva acquisito una certa durezza o l’aveva persa. Non ero sicuro, ma c’era qualcosa che non andava. Che poi era più o meno la stessa cosa che stava cercando di dirci il custode: «Il y a un problème».
Poi, uno sparo, attutito da un ottimo silenziatore, ma pur sempre uno sparo. Ne avevo uditi abbastanza nel corso della mia carriera, e l’uso del silenziatore poteva significare una cosa sola: un professionista, o giù di lì. Qualcuno, a quanto sembrava, voleva andarsene senza dare nell’occhio, e supposi che avrebbe preferito portare con sé le tavole.
Uno schizzo di sangue mi passò davanti agli occhi, seguito dal cadavere del vecchio, che cadde a faccia in giù senza far rumore, come in una scena al rallentatore. Atterrò a meno di un metro da me, con le ossa del viso che si fratturavano sul pavimento.
«Dov’è il tuo amico?»
Un’altra voce, che non conoscevo e che, per ovvie ragioni, non mi piacque granché. Era profonda, rauca e inconfondibilmente americana; del Midwest, dedussi dalla pronuncia strascicata.
Reagii, come forse avrai immaginato: prima guardai la vita che mi passava davanti agli occhi come un documentario brevissimo e noioso, poi sollevai la sbarra all’altezza della spalla e avanzai con estrema prudenza. Fissai la porta, sperando di poter aggiungere altre scene interessanti se mai fossi stato costretto a rivedere quel cortometraggio. Per una frazione di secondo, scorsi la bocca della pistola e gli occhi duri dell’uomo che la stringeva; quindi, lo colpii violentemente in faccia, l’arma cadde e lo sconosciuto si afflosciò, col naso fratturato. Tuttavia, era ancora vivo e cosciente nonostante il volto imbrattato di sangue. Allontanai la rivoltella con un calcio e feci due passi indietro per raccoglierla, sollevando di nuovo la sbarra.
Quando l’americano si riprese, Sarah teneva già la spranga e io gli puntavo la pistola in faccia.
«Usa la sbarra. Tira fuori la pietra», le dissi, in tono insistente.
«Non gridarmi addosso.»
«Per favore, Sarah. Fa’ come ti dico.»
Data l’urgenza della situazione, obbedì.
Quando udii i primi scricchiolii della lastra alle mie spalle, scavalcai il cadavere del vecchio e mi accovacciai per guardare meglio il tizio. Era uno dei due uomini che avevo visto dietro Klein e Grier nelle fotografie di Sarah, quello che stava parlando mentre il suo compagno fumava. Aveva i lineamenti schiacciati – giuro che non è una battuta sulle condizioni del suo naso in quel momento –, capelli neri ispidi e occhi infossati, con le sopracciglia folte.
Il tipo di faccia capace di dimostrare che Darwin ci aveva azzeccato in pieno.
«Dammi una buona ragione per non farti un bel buco in mezzo alla faccia.» Gli tenni la pistola sufficientemente vicina per essere minacciosa, ma abbastanza lontana perché non riuscisse a scagliarla dall’altra parte della chiesa se avesse deciso, seppur stupidamente, di provarci.
Si toccò il naso col dorso della mano e fece una smorfia. «Coraggio, che aspetti? Fa’ pure.» Sorrise.
«Nick, vieni a dare un’occhiata», mi chiamò Sarah.
«Sono occupato, al momento. Pensi di potertela cavare senza di me?» risposi sarcastico.
«È. Semplicemente. Meraviglioso», disse, intervallando le parole.
Sapevo che non stava più parlando con me, ma con ciò che aveva trovato.
«Alzati», ordinai.
L’uomo obbedì con riluttanza, la pistola sempre puntata addosso, e indietreggiai verso l’altare, facendogli cenno di seguirmi. In fondo alla navata urtai la schiena di Sarah e allungai lo sguardo oltre la spalla; sapevo che, qualunque cosa avessi voluto vedere, avrei dovuto essere rapido. Quel tipo non era un idiota, non mi avrebbe permesso di distrarmi neppure per un secondo.
Ciò che scorsi, o almeno ciò che ricordo di aver notato, era una lastra attraversata da due fori perfettamente simmetrici, come una specie di vassoio DVD medievale. All’interno delle rientranze c’erano quelle che dovevano essere le tavole, una combinazione di disco, ingranaggio e puzzle ricavata dalla pietra scura.
Come i fori in cui erano inserite, erano circolari, ma con numerose curve simili a uncini finemente scolpite lungo la circonferenza. A quanto sembrava erano intenzionali, infatti i segni sulla faccia dei dischi seguivano alla perfezione la forma delle tacche.
Ma quel che ricordo davvero, e ora so il perché, è che nella quindicina di centimetri di pietra fra i supporti per i dischi spiccava un altro segno, profondo, nitido e inciso con l’abilità di uno scalpellino eccellente. Era un simbolo bizzarro, che non riconobbi. Tuttavia, ne avevo visto uno molto simile, non identico – mi bastò un’occhiata per capirlo –, ma quasi.
Il tatuaggio sulla gamba sinistra del cadavere.
Quando mi girai verso l’americano, udii Sarah estrarre delicatamente le tavole e riporle in un contenitore che aveva recuperato dallo zaino. Mi aspettai di sentire il suono della zip, invece ci fu uno strano schiocco, come una bolla di sapone che esplode o una miccia che scoppia in lontananza.
O come qualcuno che toglie il tappo a un grosso pennarello nero.
Io e Sarah girammo meccanicamente la testa e ci guardammo. I miei occhi avevano un’espressione interrogativa, mentre i suoi erano colmi di emozione. Pareva una bambina la mattina di Natale.
«Ho quasi finito», disse.