50
Los Angeles,
domenica, 12 giugno 2011
Non avevo la minima idea di dove mi avessero portato.
Per un po’ avevo creduto che stessimo andando verso la spiaggia. È di sicuro la direzione che imboccammo, ma poi persi l’orientamento. Il furgone non aveva finestrini e diventò difficile capire se stessimo svoltando a destra o a sinistra, soprattutto quando c’erano molte altre cose di cui preoccuparsi. Ad esempio, un tizio col naso rotto e con una pistola puntata verso colui che gliel’aveva fratturato.
In secondo luogo, occorreva trovare un modo per uscire vivo da quella situazione, se possibile.
Immaginai che fosse già buio quando arrivammo, ma ancora una volta non potevo esserne certo. Ovunque fossimo, era un edificio con un parcheggio sotterraneo, deserto a eccezione del nostro furgone, ed era impossibile dire se fuori esistesse ancora un mondo. I due uomini mi trascinarono giù, ammanettato, e mi condussero a un ascensore. Premettero il quinto di otto pulsanti. Non vidi altro.
Il quinto piano era, in ogni senso, un cantiere, anche se sembrava finalizzato alla demolizione più che alla costruzione. Al posto di quelli che un tempo erano stati uffici, c’erano pannelli rotti e cavi che pendevano mollemente dal soffitto. Vicino al lungomare si trovavano molti immobili commerciali sottoposti a una specie di ristrutturazione tardiva, ma a quel punto mi resi conto che, come la maggior parte delle cose, la loro esistenza non sarebbe stata che temporanea. Anche se ne fossi uscito vivo e se nelle settimane successive avessi rintracciato l’edificio, sapevo che i miei rapitori sarebbero spariti. Erano là perché – come a quasi tutte le altre particelle di questo mondo – in quel preciso momento faceva loro comodo.
Mi spinsero lungo un corridoio e in una stanza sulla sinistra, senza finestre, dove Naso Rotto mi buttò su una sedia. Poi, mi si misero di fronte, l’uno a destra e l’altro a sinistra, col sorriso di chi è sicuro di aver vinto la partita. Forse era così, ma nel furgone avevo ragionato rapidamente e, non per vantarmi, ma ogni tanto ottenevo buoni risultati.
Sperai che andasse così anche quel giorno.
Dall’innegabile fatto che fossi ancora vivo, era chiaro che potevo servire a qualcosa e, a meno che non avessero già capito di avere tra le mani due tavole false – cosa di cui dubitavo –, immaginai che non avessero la minima idea di come tradurre i presunti originali.
Ciò avrebbe spiegato perché avevano saccheggiato il mio appartamento. Avevano cercato qualcosa, qualunque cosa potesse aiutarli.
Dopo qualche minuto, Grier entrò a passo deciso, con un fascicolo sotto il braccio possente, e prese l’altra sedia. Era alto, forse un metro e novantacinque, coi capelli neri corti che iniziavano a ingrigirsi sulle tempie. Era più giovane di quanto mi fosse sembrato in fotografia, forse sui quarantacinque, di sicuro più giovane del sottoscritto.
Si sedette senza degnarmi di uno sguardo, come se non esistessi, e aprì i documenti sulla scrivania di laminato marrone da quattro soldi. Li sfogliò, dandomi l’impressione di aver sfruttato il tempo che avevamo impiegato ad arrivare, forse tre quarti d’ora, per buttare giù alcuni appunti. Ancora non immaginavo quanto quelle annotazioni si sarebbero rivelate di vasta portata.
Tra i fogli che vidi, molti contenevano schemi e grafici, altri erano documenti; forse si trattava di una relazione. Notai pure che su una delle pagine c’era un’analisi chimica dettagliata. Pregai che quanto Sarah mi aveva detto sui falsi mentre andavamo all’Oakdene fosse vero, e cioè che avesse usato una lastra di pietra rinvenuta sotto il pavimento di una tomba egizia.
Se sì, significava due cose: primo, le tavole avevano la giusta composizione chimica; secondo, in assenza di erosione recente, la datazione al carbonio non sarebbe servita a nulla (a meno che non prelevassero dei campioni dalle zone incise, ma si sarebbero guardati bene dal farlo ancora per molto tempo). Poi, vidi le fotografie. I primi piani delle tavole che erano state portate via per essere studiate. I maledetti falsi.
Oh, sì, c’erano cascati con tutte le scarpe.
Grier fece un cenno ai due uomini, che si ritirarono verso la parete alle mie spalle, quindi si rivolse a me, pur tenendo gli occhi incollati alle pagine che stava sfogliando con noncuranza.
Durante la rapida occhiata che mi aveva lanciato, doveva aver osservato attentamente quello che, fino all’intervento del suo tirapiedi, era stato uno dei miei tratti migliori. «Mi piace il naso», disse con voce piatta.
«Sto sperimentando un nuovo look», replicai, come se non me ne importasse nulla e se non mi facesse più male. «Ho pensato che poiché donava così tanto al suo amico…»
Sentii lo sguardo dello scagnozzo che mi perforava la schiena.
«A quanto pare, lei è un uomo molto difficile da uccidere, detective. Encomiabile, ma piuttosto irritante», continuò Grier, disinteressato. Alzò lo sguardo, inarcando le folte sopracciglia grigie. «Mi dica, sa chi sono?»
D’un tratto assunse l’espressione severa che aveva nella foto sulla parete di Sarah. Mi fissò, cercando disperatamente di farmi abbassare lo sguardo. Per la cronaca, non ci riuscì.
«So come si chiama. È sufficiente?»
Mi sorrise come si potrebbe fare con un candidato durante un colloquio di lavoro. «Ce lo faremo bastare.» Tirò fuori quattro fotografie in bianco e nero dei falsi, tutte di ottima qualità: due fronti e due retri. Le posò sul tavolo, rivolte verso di me. «E sa cosa sono queste?»
Non ci feci nemmeno cadere l’occhio. «L’ha uccisa, bastardo.»
Resta calmo, ma fingi di essere incazzato. Dagliela a bere, pensai.
«Doloroso, ma necessario.» Tuttavia, il suo volto non aveva nulla di sincero e la curva mesta delle labbra era tutt’altro che spontanea. «Con lei sarò franco, detective, ci dispiace molto di ciò che abbiamo fatto.»
«Mi sta chiedendo scusa?»
Sembrò ancora più gelido di prima: «Non ho l’abitudine di scusarmi per le mie azioni, detective. Non si conviene alla mia posizione. È solo che è rimasto… un piccolo problema».
«E sarebbe? Un enigma che non avete idea di come risolvere, forse?»
Eluse la domanda. Se avesse risposto, avrebbe detto che gli ci sarebbe voluto più tempo per scioglierlo, ma non che non ce l’avrebbero fatta. Ebbi la netta sensazione che la forma negativa di «riuscire» non fosse contemplata nel suo vocabolario. Forse, per gli uomini come lui, stampavano edizioni diverse dei dizionari, omettendo volutamente parole come «impossibile» e «fallimento».
Scommetto, però, che inserivano termini come «egotistico».
«Sappiamo che la ragazza…» iniziò.
«Sarah», lo corressi. Chiama la presunta morta col suo nome, Grier.
Fece una pausa e accennò un sorriso. «Sarah ha decifrato un codice i cui risultati vi hanno condotti dritti dritti al nascondiglio di queste tavole. E, sì, devo dargliene atto, ci ha battuti sul tempo…»
No, è riuscita dove tu hai fallito, stronzo. Hai sentito? Fallito. Questa parola esiste eccome.
«… perché, come tutti i codici che si rispettino, pare che avesse un manualetto d’istruzioni.»
«E avete capito un po’ troppo tardi che anche queste potrebbero averne uno?»
Grier ricominciò a ostentare indifferenza. Voleva solo ottenere i risultati che avrebbero consentito a Klein di portare a termine la missione. Non gliene importava nulla di capire. «Più o meno, ma…»
«E ora volete che vi aiuti?» lo interruppi, senza neanche dargli il tempo di rispondere. Come avevo detto, sapevo come si chiamava e ancora meglio cosa voleva: una soluzione rapida. «Allora, avete ucciso un francese innocente, avete assassinato Sarah e per poco non avete fatto fuori anche me.» Mi sporsi in avanti, allungando il collo con fare incredulo. «E ora volete il mio aiuto?»
Mi fissò con gli occhi neri. Niente vita, soltanto morte, e con ogni probabilità anche molta. «Detective, sarebbe vantaggioso per la sua salute, se ci dicesse quello che sa.»
Mi appoggiai allo schienale e sospirai. Poi, finsi di riflettere. Per due volte sembrai lì lì per dargli una risposta, ma mi tirai indietro all’ultimo minuto. Alla fine, feci un altro sospiro e assunsi l’espressione più rassegnata che potei. «Okay, vi dirò quello che so.»
Non parve troppo emozionato, ma di certo pronto ad ascoltarmi. «Continui.»
«So che, se in questo preciso istante non vi dico ciò che volete, sono un uomo morto. So pure che non appena vi dirò ciò che volete, e cioè in questo preciso istante, sarò un uomo morto. Anzi, anche se in questo preciso istante sono seduto qui a chiacchierare con lei, è tutta una grande illusione. Perché ho la netta impressione di essere un uomo morto anche mentre parliamo, in questo preciso istante.» Soddisfatto, mi rilassai.
«Allora vuole contrattare per salvarsi la vita, giusto?»
Suppongo che Grier amasse veder negoziare le persone, anche se, in realtà, sono certo che preferisse vederle supplicare. A ogni modo, sembrò compiaciuto. Odio il compiacimento quasi quanto la sfacciataggine.
«Non voglio contrattare per nulla di così inutile. Dopotutto, la festa è vostra. Se la memoria non m’inganna, siete stati voi a invitare me.»
Fece un profondo respiro ed estrasse un altro foglio, una fotografia. L’aveva messa in fondo, tra pagine che fino a quel momento aveva evitato accuratamente di sfogliare. Aveva prima voluto inquadrarmi, vedere sino a che punto fossi disposto a giocare duro. E la prima regola dei giochi di quel tipo è avere sempre un asso nella manica e, merda, lui ce l’aveva eccome.
L’immagine era a colori e sembrava una di quelle foto «clandestine» scattate dalle angolazioni oblique che si vedevano su Candid Camera. In primo piano, a sinistra, spiccava il montante del parabrezza di un’auto, a indicare che il fotografo era rimasto seduto in macchina. Ciò spiegava anche perché il soggetto, una ragazza bionda intenta a parlare assieme a un uomo con indosso una polo nera davanti a una fila di negozi, era completamente ignaro di essere immortalato.
C’erano una lavanderia a gettoni aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, una rivendita di articoli per animali e un SonicStuff. Quest’ultimo sembrava uno di quei locali rastafariani dove si fuma marijuana, con le vetrine tappezzate di orribili adesivi bianchi, verdi e gialli. Solo che non era affatto un posto del genere, perché al centro spiccava un’enorme S racchiusa in un cerchio. Fu quel simbolo a dirmi, senza che guardassi attentamente come avrei avuto bisogno di fare in sua assenza, chi fosse la ragazza. La S, infatti, stava per «Sonics», come in SonicStuff. Il bianco, il verde e il giallo erano i loro colori.
Per chi non lo sapesse, i Sonics giocano nell’NBA.
A Seattle.
«Figlio di puttana.» Mi sforzai di apparire arrabbiato, ma indifferente. Come se la cosa non mi toccasse. Ma non era così, vero? Quella era mia figlia, e in qualche modo quei bastardi l’avevano rintracciata, cosa che forse, all’epoca, io non sarei riuscito a fare. «Lasciatela fuori da questa storia.»
«Lo vorrei tanto, ma il fatto è che a lei, detective, potrebbe non interessare di vivere o morire e, dato lo stato pietoso della sua esistenza, ho qualche difficoltà a darle torto. Ma che mi dice di questa giovane donna? Non avrà intenzione di trascinarla nel baratro con sé? Insomma, non sarebbe giusto, non crede?» fece, con un sorriso freddo.
«Lei non c’entra assolutamente nulla.»
«Non c’entrava, ma, vede, questa faccenda mi sta molto, molto a cuore, perciò è coinvolto chiunque io decida di coinvolgere. L’uomo con cui sua figlia sta parlando – non facciamo nomi – è uno spacciatore. Un piccolo delinquente, nessuno di cui preoccuparsi, in realtà, ma è il tipo di persona che va fuori di testa quando qualcuno osa anche solo menzionare una condanna da otto a dieci anni.»
Mia figlia, la mia Vicki, era una tossicodipendente. Non puoi immaginare quanto mi abbia fatto male saperlo. Per due motivi: il primo era che c’era voluto Grier per scoprirlo; il secondo, forse ancora più atroce, era che la notizia non mi stupì affatto.
Avrebbe dovuto, ma non fu così. Che razza di padre ero?
Grier proseguì: «Al momento, questo tizio riceve la roba da un fornitore che interessa molto al dipartimento di polizia di Seattle. Di conseguenza, gli sbirri hanno quello che si potrebbe chiamare un ’accordo’ con lui. È risaputo che ’dà loro una mano’, di tanto in tanto». Si fece più avanti. «Perciò, spero per lei che non finisca per dare alla giovane Vicki della roba tagliata male. Potrebbe essere davvero sgradevole per la ragazza. Molto, molto sgradevole. Letale, forse.»
«Sa una cosa?» Avvicinai il più possibile la faccia alla sua. «Lei è proprio un grandissimo pezzo di merda.»