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Lenwood, California,

giovedì, 9 giugno 2011

Quando tornai, Maggie, con un camice di plastica bianca sopra l’uniforme azzurra, si apprestava a fare il giro di pillole serale. Tutti i colori dell’universo e tutte le emozione sintetiche disponibili erano sistemati in piccole file ordinate, ciascuna con un’etichetta su cui era scritto il nome del destinatario. Mi guardò da sopra gli occhiali, ma non si deconcentrò. Nessuno, né tantomeno la premurosa Maggie, voleva la responsabilità di aver confuso la benzedrina con la benzodiazepina e di aver messo un attizzatoio arroventato nel didietro di chi non riuscivo a rilassarsi abbastanza per dormire.

Solo quando le pillole furono allineate con cura, alzò gli occhi e mi fece il suo consueto sorriso cordiale. Quindi si voltò verso la scrivania per tracciare gli ultimi segni di spunta su un foglio. «Non è necessario che ti chieda se hai ottenuto qualcosa», disse, con aria pigra.

Scossi la testa ed estrassi la foto del cadavere. «Hai mai visto quest’uomo, Maggie? Insomma, è mai stato qui per una visita?»

Mentre si chinava a guardare, si spinse gli occhiali su per il naso. Non vedendoci bene a causa della luce fioca, mi sfilò la fotografia dalle dita e la tenne sotto la lampada, come una cassiera del supermercato che verifichi se i tuoi venti dollari sono veri.

«Una visita a Tina, intendi? No, mai visto. E a giudicare dal suo aspetto dubito che avrò mai questo piacere. Com’è morto?»

«Gli hanno sparato. Cinque volte.»

Fece una finta smorfia inorridita, ma sapevo che aveva visto e sentito di molto peggio. «Credi che fosse un amico di Tina?»

«Sì, oppure sapeva della sua esistenza», risposi sconfortato. «Quando l’abbiamo trovato aveva il suo nome e il numero della sua camera scarabocchiati…» Cercai la parola giusta: «… addosso».

«Allora può darsi che fosse diretto qui, ma che non sia mai arrivato.»

«È una possibilità», concessi. Maggie non era stupida. «Tina ha mai visitatori? Familiari o amici?»

«Soltanto la sorella maggiore. Vive a Downtown, mi pare. Abbiamo l’indirizzo da qualche parte. Lo vuoi?»

Annuii, pensando che tanto valeva provarci.

Si girò, aprì un archivio e frugò tra i fascicoli, che, nonostante le condizioni dell’edificio, erano in perfetto ordine alfanumerico. D’altro canto, quei due metri quadrati erano il regno di Maggie e lei ne aveva una gran cura. Cara, vecchia Maggie.

«Farmer, Fickle, Fiddes. Ecco qui.» Tirò fuori la cartellina e chiuse il cassetto. «Ah, sì, Sarah Fiddes, 1180 7th Street, South Central.» Con una grafia chiara, scrisse l’indirizzo sul retro di una busta che recava l’insulso logo giallo e verde dell’Oakdene.

«Grazie», dissi educatamente. Dubitavo che sarebbe servito a qualcosa, ma forse mi sarebbe tornato utile se il mio ruolo nelle indagini avesse fatto un salto di qualità. «Che mi dici di questa ragazza? Di questa… Tina? Com’è, crea problemi?»

«Nick, te l’assicuro: tra tutti i pazienti che ho dovuto assistere, e negli anni sono stati molti, non credo di averne mai conosciuto uno tranquillo come Tina. D’accordo, a volte, per riuscire a vestirla, occorre convincerla con le buone a lasciare il piccolo mondo in cui vive, ma non rompe mai le scatole. È un angelo.» Riesaminò la fotografia. «Chiunque sia quest’uomo, o chiunque fosse, sono contenta che non sia mai venuto. Ha un’aria sinistra e… be’, Tina è una ragazza troppo dolce per dover avere a che fare con un tipo così.»

Sinistro. Un eufemismo per «guai seri».

Mi porse la busta e cominciò a spingere il carrello di acciaio, con le ruote che cigolavano piano sul linoleum, sferragliando sul cemento grigio bucherellato che si vedeva qua e là sotto gli strappi.

«Se vuoi continuare a parlare, ti conviene muovere le gambe», disse, e la seguii.

Non conversammo di nulla in particolare: l’Oakdene, i suoi tre figli (li adorava), il suo ex marito (lo odiava), Creed (cazzo, tutti odiavano Creed) e i pazienti. Le chiesi di quelli che piangevano, di quelli che urlavano e di quelli che dormivano e che, evidentemente, avevano deciso di dimenticare una brutta realtà rifugiandosi nei brutti sogni. Chiacchierammo del più e del meno, insomma.

Le domandai da quanto tempo Tina fosse ricoverata. Circa cinque anni, calcolò Maggie, ma la sorella aveva lavorato a Chicago per un lungo periodo e aveva saputo della sua esistenza soltanto un paio di anni prima. I genitori erano morti, a quanto sembrava. Prima, niente visitatori. Chiesi se la paziente sapesse leggere (sì, cinque lingue) e scrivere (le stesse cinque lingue, sorprendente) e se fosse sempre calma. «Oh, non farla arrabbiare, Nick. Quella ragazza fa il diavolo a quattro quando perde le staffe.» Chiesi quante sfuriate avesse fatto da quando era stata assegnata a Maggie: due, entrambe con Creed. Come se ci fosse da stupirsi.

Mentre camminavamo pensai che, poiché Maggie sarebbe rimasta sola per tutta la notte – a eccezione di qualche urlo sporadico che l’avrebbe costretta ad accorrere – e poiché io non dovevo andare da nessuna parte, avrei potuto tenerle compagnia per un’oretta. In mancanza d’informazioni sulla ragazza, sarebbe stato inutile scrivere una relazione da consegnare a Deacon l’indomani mattina. Detto questo, se avessi visto Maggie tirare fuori un mazzo di carte, avrei tagliato la corda.

Raggiungemmo la camera 113 e lei sbirciò dal vetro. Per precauzione.

«Le somministriamo la fenfluramina in piccole dosi, ma è sperimentale. Se vuoi il mio parere, è scandaloso. Tina è molto intelligente, soltanto che il più delle volte non lo dà a vedere. Merita di meglio, su questo non ci piove.» Mi si fece più vicina e parlò sottovoce, come se la presenza inquietante di quel grassone del suo superiore indugiasse nei corridoi come un puzzo, anche dopo che lui aveva lasciato l’edificio: «Creed non lo sa, ma ogni tanto faccio una partita a scacchi con lei, e quella ragazza potrebbe dare del filo da torcere ai grandi campioni. Non è sorprendente solo che vinca, Nick, ma anche la velocità con cui ci riesce. Fai la mossa e, zac, lei fa la sua. Sempre geniale. Non so dove abbia imparato a giocare, ma porca miseria se ha imparato».

Attraverso il vetro vidi Tina seduta dove l’avevo lasciata, esattamente dove era rimasta per tutta la mezz’ora che avevo trascorso con lei. Le avevo mostrato la foto del cadavere e lei l’aveva guardata. Oppure no, non saprei. In un caso o nell’altro, non aveva battuto ciglio, non aveva reagito neppure al tatuaggio né al testo latino. Niente. Nemmeno il più piccolo segno di riscontro in quegli splendidi occhi marroni.

Aveva la testa appoggiata sulle braccia e ammirava il tramonto. Forse sognava. Mi domandai se sapesse di noi, del mondo circostante, e se aspettasse un miracolo che le permettesse di diventarne parte. Forse guardava oltre le pareti scrostate e i campi sconfinati. Forse pensava: Un giorno correrò anch’io laggiù.

O forse no.

Forse il mondo di Tina Fiddes non si estendeva oltre i muri della sua immaginazione. Per il suo bene, mi augurai che fosse così. Anche se non avevo idea di cosa significasse per lei essere imprigionata dentro di sé, ipotizzai che sarebbe stato più semplice da accettare se fosse rimasta per sempre all’oscuro di ciò che si stava perdendo.

Inoltre, chi poteva dire che il suo mondo non fosse un luogo assai migliore del nostro? A essere sincero, alcune delle cose che scoprii nei giorni e nelle settimane successivi mi spingono tuttora a chiedermi se non dovremmo essere noi ad aspettare un miracolo che ci permetta di diventare parte del suo mondo.

«Ogni quanto viene la sorella, ora che vive in California?»

«Tre, forse quattro volte la settimana. Brava ragazza. Sulla trentina, molto affabile. E se le guardi assieme… Be’, si somigliano come gocce d’acqua, te l’assicuro. Si presenta verso mezzogiorno e le dà un’aggiustatina; sai, un colpo di spazzola e un velo di trucco. Poi, se il tempo è bello, la porta a fare una passeggiata. Le solite cose. Quindi danno un’occhiata al lavoro di Sarah, per vedere se Tina riesce ad aiutarla. Infine, arriva il ’momento Snickers’.» Rise. «Sarah le regala sempre una barretta di Snickers. E il viso di Tina s’illumina come… Be’, devi vederlo, è davvero uno spettacolo. Perciò, se dovessi rifarti vivo e se volessi attirare la sua attenzione sulle tue foto, potresti portargliene una anche tu. Non posso garantire che tornerà nel nostro mondo, ma scommetto che vale la pena spendere cinquanta centesimi del tuo stipendio.»

Drizzai le antenne. Non soltanto per via dello Snickers, ma anche dell’altro dettaglio. «Che lavoro fa sua sorella?» Ossia: Perché diavolo se lo porta dietro?

«Oh, non lo so di preciso. L’archeologa, credo. Non ho la presunzione di capire. Ma arriva con mappe, pergamene e appunti segreti che parlano di un ’tesoro nascosto’, e li leggono per un po’.» Rise di nuovo. «Però credo che sia salutare per Tina avere qualcosa di utile da fare, sai? Qualcosa con cui esercitare la sua mente straordinaria. Insomma, io faccio del mio meglio, ma non sono una scacchista così brava, perciò temo di non stimolare molto la sua immagin…»

«Che tipo di mappe? Della città, degli Stati Uniti?»

Parve contrariata dall’interruzione, ma rispose di buon grado: «Non ne ho idea. A casa mia, una mappa è una mappa, e cerco di non ficcare il naso. Potrebbe essere la Cina, per quanto ne so. Sono affari loro, non miei».

Purtroppo, dato che Maggie trasudava onestà, ero certo che fosse tutto vero. In quell’istante, tuttavia, l’onestà non era ciò di cui avevo bisogno. Sarei stato disposto a sborsare una bella cifra per un internista che amasse ficcare il naso. Soltanto un pochino, quel tanto che bastava.

«E che mi dici delle ’pergamene’?» Usai quella parola intenzionalmente, mentre cercavo la fotocopia del biglietto rinvenuto nel cadavere. «Erano come questa?»

Mi sarei potuto risparmiare la fatica, perché, prima che trovassi il foglio nel fascicolo, Maggie mi aveva dato la risposta senza accorgersene. La risposta che quella sera m’impedì di tornare dritto nella mia casa a San Marino e che m’indusse a percorrere l’interstatale 10 in direzione di Inglewood, finché non raggiunsi la zona degradata di South Central.

Un luogo dove, con un po’ di fortuna, avrei potuto rovistare tra la spazzatura e individuare la casa della sorella di Tina Fiddes.

«Non chiedermi cosa c’era scritto sopra, Nick», disse Maggie, noncurante. «Il Signore sa che certi giorni non riesco a leggere bene l’inglese, figuriamoci il latino.»

La Teoria Dell'eternità
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