20

Lenwood, California,

venerdì, 10 giugno 2011

Maggie aveva fatto il turno di notte, e per questo, quando arrivammo all’Oakdene, c’era un’altra persona alla reception. Era un ragazzo sui ventidue anni. Non l’avevo mai visto, ma lui riconobbe Sarah, perché le sorrise e la salutò cordialmente, quindi prese la chiave e gliela porse senza fare domande.

«Grazie, Carey», disse lei, e ci avviammo. «È giovane, ma è un tipo a posto. Buono e gentile.» Diede un’occhiata davanti a sé e cambiò espressione. «A differenza di qualcun altro.»

Guardai lungo il corridoio e capii a chi si riferiva: Creed, che avanzava nella nostra direzione col sorriso schivo che si stampava sulla faccia ogni mattina quando si vestiva per andare al lavoro.

«Detective… e Miss Fiddes? Che sorpresa rivedervi così presto. Sono certo che siete qui per far visita all’incantevole Tina. Spero sia tutto a posto.» Si fermò di fronte a noi, pronto a fare quattro chiacchiere. Non mi piacque il modo in cui sottolineò le ultime due parole.

«Semplici questioni di lavoro.» Non gli tesi la mano e lui fece altrettanto.

«Ah, capisco. Posso esservi utile?»

Fu Sarah a rispondere: «No, grazie, Mr. Creed. Non ci serve nulla. È come ha detto lei, siamo qui soltanto per una visita».

«Dottor Creed», la rimbeccò indignato. Tuttavia, dalla mia espressione intuì che sapevamo entrambi (e molto probabilmente anche Sarah) che un dottorato in filosofia non contava nulla nel campo della medicina correttiva o riabilitativa, a meno che non si volesse che i pazienti prendessero con filosofia l’idea di non lasciare quel posto deprimente finché non fossero stati portati fuori col volto coperto. «Ma oggi c’è anche lei, detective. Perciò deve trattarsi di questioni importanti», proseguì, con un sorriso forzato.

«Esatto, Mr. Creed.» Sarah lo superò. «Grazie per l’interessamento.» Mentre la seguivo mi lanciò un’occhiata trionfante, e non potei far altro che immaginare la faccia di Creed.

«Lo odio», disse, dopo essersi assicurata che non fossimo più a portata d’orecchio.

«Allora siamo in due. Sono sicuro che è marcio fin nel midollo.»

«Più di quanto tu creda.»

Quando imboccammo le scale, coi corrimano scrostati e coi gradini luridi negli angoli in cui lo spazzolone aveva faticato ad arrivare, chiese la mia opinione. Fui tentato di tacere. Dopotutto, sua sorella doveva vivere là dentro.

«Non ha importanza. È stato molto tempo fa», dissi.

«Non essere delicato per via di Tina. Per il momento deve restare qui, che mi piaccia oppure no, e sono d’accordo col vecchio adagio ’sapere è potere’.»

Sospirai e le raccontai ogni cosa. Le parlai di Jennifer Sanchez, una bellissima ragazza costaricana rinchiusa all’Oakdene quando, per i genitori anziani, la sindrome di Tourette era diventata ingestibile. Le spiegai come, secondo le informazioni che mi avevano dato, un minuto si facesse conversazione con una giovane che aveva l’aspetto e la voce di un angelo e il minuto dopo lei prendesse a scalciare, sputare, urlare e a lanciare insulti irripetibili.

Quasi tutto il personale dell’Oakdene era addestrato ad affrontare eventi di quel tipo, mentre Creed non sapeva neanche allacciarsi le scarpe. Forse era quello il motivo per cui indossava sempre i mocassini. Aveva affermato che Jennifer era andata fuori di testa e gli si era scagliata contro; quando si era spostato, lei era finita dritta contro la porta, fratturandosi il cranio. Era venerdì, e Tony, il predecessore sudamericano di Maggie, aveva portato le lenzuola in lavanderia ed era rimasto al piano di sotto per circa mezz’ora. Abbastanza a lungo perché Creed si stufasse delle urla di Jennifer, tornasse in ufficio, prendesse il trofeo dalla mensola e lo usasse per colpirla alla testa. Lo stesso trofeo sopra cui aveva detto di aver perso qualche goccia di sangue dal naso, quando, il giorno seguente, avevo notato gli schizzi rossi.

Aveva visto benissimo dove avevo posato gli occhi, e l’aveva pulito prima che gli chiedessi spiegazioni.

«La crisi è iniziata quando è andato a somministrarle le pillole. A suo dire, se n’era occupato lui perché erano a corto di personale. Secondo me, quando è entrato, Jennifer ha cominciato a coprirlo d’insulti. Chissà, forse uno di quegli improperi l’ha punto sul vivo. Date le circostanze, è riprovevole che abbia perso la pazienza, ma lo trovo anche comprensibile. Jennifer doveva essere un osso duro. Ma chiuderla nella stanza, come sospetto abbia fatto, andare in ufficio e poi tornare con un oggetto grosso e pesante…» Inspirai a fondo. «Naturalmente, non potevo provare nulla.» Camminai in silenzio per una ventina di secondi e, dopo aver visto la mia espressione, Sarah non fece altre domande. Alla fine, decisi di concludere la conversazione prima di perdere le staffe, scendere di sotto e prendere a calci nel culo quel piccolo, viscido bastardo. «Il problema dei tizi che hanno le mani pulite è che stanno sempre attenti a non sporcarsele», commentai, carico di rabbia.

Sarah rabbrividì. «Odio questo posto con tutte le mie forze. Non quanto Creed, lo ammetto, ma detesto persino le pareti.» Fece una pausa. «Tina merita di meglio.»

«Allora perché tenerla qui?» chiesi. Arrivammo in cima alle scale e svoltammo nel corridoio, dove gemiti sommessi uscivano dalla porta ammaccata della camera 106. «Ci sono molti altri posti.»

«Ho le mie ragioni. Uno di questi giorni troverò le cose che sto cercando e la trasferirò in una struttura governativa. Lo so, fanno tutte schifo, ma di solito il livello d’igiene e di assistenza è un po’ più alto. E, anche se c’è un Creed quasi ovunque, la maggior parte delle volte gli ospedali statali li tengono molto più a freno.» Rifletté. «Uno di questi giorni. Ma, almeno per ora, il fatto che Tina sia all’Oakdene mi permette di esserci.»

Sapevo cosa intendeva riguardo agli standard più elevati delle strutture governative. L’unica che conoscevo, il Thousand Oaks, era di gran lunga più pulita e organizzata dell’Oakdene. Era un edificio abbastanza moderno, un po’ più a nord lungo la costa, vicino all’interstatale 101; molto vetro e luminosi vialetti bianchi che si affacciavano sul mare, a cinque chilometri dalla città omonima. Certo, il Pacific Missile Test Center era a un tiro di schioppo, il che non era l’ideale, ma si poteva forse pretendere un grado di sicurezza più alto? Sapevo pure che la popolarità del Thousand Oaks tra i ricconi di Los Angeles, i cui cari erano usciti di senno, aveva generato una lunga lista d’attesa, ma quello era un altro elemento a suo favore.

Raggiungemmo la 113 e Sarah sbirciò dentro.

Tina era seduta al tavolo, intenta a leggere sotto il sole che illuminava tutta la stanza. Il letto era impeccabile, e in seguito avrei scoperto che la ragazza lo rifaceva ogni mattina con disciplina ferrea. Era concentrata su un libro di Émile Zola. Maggie aveva detto che la paziente conosceva cinque lingue, perciò immaginai che il volume fosse nella versione originale francese.

Entrammo. Tina alzò pigramente gli occhi e, nel vedere la sorella, s’illuminò in volto. Rammento che una volta (molto, molto tempo fa) Vicki assunse la stessa espressione radiosa quando le chiesi se volesse andare a Disneyworld. È il genere di entusiasmo infantile che si perde col passare degli anni, e mi parve strano osservarlo in una persona dell’età di Tina.

Si abbracciarono come se non si vedessero da un’eternità.

«Come stai oggi, tesoro?» domandò Sarah.

Il sorriso della sorella fu più che eloquente. Quando si staccarono, la ragazza mi lanciò un’occhiata frettolosa, e subito tornò a guardare la sorella. Io non ero importante. Infine, iniziò a palparle le tasche con foga, in cerca degli Snickers.

«Tra un minuto, tesoro. Ho portato un po’ di lavoro», disse Sarah, con dolcezza.

Tina si bloccò di colpo.

Mi appoggiai alla parete di fronte alla finestra mentre si sedevano ai lati del tavolo spartano. Sarah pescò un fascicolo dallo zaino e le spiegò brevemente come il dipinto e il testo latino alludessero alla città francese di Serres. Quindi, le mostrò le foto e gli appunti che aveva stampato. «Credo ci sia dell’altro. Sono convinta che il testo mi dirà dove cercare», concluse.

Tina ascoltò attenta ogni parola. Dava l’impressione di essere ansiosa di aiutarla.

«Pensi di poter dare un’occhiata, tesoro?»

Gli occhi luminosi e penetranti della paziente non lasciarono dubbi sulla sua disponibilità a collaborare, ma brillarono ancora di più quando Sarah tirò fuori i due Snickers. «Pensavo che potresti mangiarne uno ora, e l’altro dopo aver esaminato il fascicolo. Che ne dici?»

Tina sorrise e fece per afferrare la barretta, ma Sarah la tirò indietro. «Vorrei che la prendessi a modo tuo. Credi di poterlo fare?»

La ragazza mi guardò e l’emozione nei suoi occhi svanì all’istante. Non avevo idea di cosa significasse «a modo tuo», ma capii che non voleva farlo davanti a un estraneo. «Va tutto bene, tesoro. È nostro amico, davvero», aggiunse Sarah.

Nostro amico. Quelle parole mi fecero piacere.

Tina esitò, ma la sua espressione diede a intendere che, se sua sorella diceva che era okay, forse, e sottolineo forse, lo era davvero. Sarah indicò qualcosa alle mie spalle e, giratomi, vidi una piccola veneziana di tela montata sopra il vetro della porta. Quando tornai a voltarmi, annuì, così abbassai la tendina e cercai di agganciarla.

Creed. Sarah non voleva vedesse ciò che stava per mostrarmi.

Purtroppo non c’era un fermo, ma soltanto un cordoncino e un foro circolare sulla porta, del diametro di venticinque millimetri, dove un tempo era inserito un gancio.

«Dubito che in quella borsa tu abbia il rossetto più grande del mondo, giusto?» domandai a Sarah.

«Questo posto», disse contrariata, mentre frugava nello zaino. Alla fine estrasse un pennarello nero, più o meno delle dimensioni giuste. «Tieni, prova con questo.» Me lo lanciò.

«Ti porti sempre dietro una penna così grossa?»

«Scrive ovunque. È uno strumento da archeologo.»

Il pennarello era un po’ troppo grande ma, poiché si assottigliava all’estremità, bastò un minimo sforzo per incastrarlo. Quindi abbassai la tendina e vi avvolsi intorno la cordicella.

Sarah posò gli Snickers davanti a Tina, a circa sessanta centimetri l’uno dall’altro. La ragazza aveva le dita appoggiate sul bordo del tavolo, coi pollici che si toccavano, e fissò una delle barrette. Intensamente. Non strinse le palpebre e non sembrò neppure mettere a fuoco, non fece altro che tenere gli occhi puntati sull’oggetto dei suoi desideri. Era il genere di sguardo che pareva nascere da una brama irrefrenabile. Lo voglio. Lo voglio da morire.

Lo Snickers si spostò. Di poco, ma giuro su Dio che si mosse. Sono sicuro al cento per cento.

Feci per parlare, ma Sarah mi zittì con un gesto impercettibile da sotto il tavolo. Così guardai, a bocca aperta. Nei secondi successivi mi chiesi se fosse stato uno scherzo della mia immaginazione o se lo snack si fosse mosso davvero. E, in questo caso, se una delle due avesse spinto il tavolo per sbaglio. Forse la causa era la banalissima forza di gravità.

La mia curiosità non durò a lungo, perché poi Tina prese lo Snickers nel suo modo speciale.

Un altro leggero tremito, e la barretta schizzò lungo il tavolo come una freccia scoccata dall’arco, come se fosse fatta di acciaio e le dita della giovane nascondessero una potente calamita. Da qualche parte nella sua testa, la paziente aveva azionato un interruttore, quindi alzò la mano e l’afferrò con naturalezza. Sapeva che sarebbe andata dritta da lei e quando. Mosse appena le dita e la sua espressione rimase sempre la stessa.

Sarah sorrise affettuosa. «Brava, tesoro.» Mi guardò. Dio solo sa cosa abbia letto sul mio viso ma, come sua sorella, era piena di entusiasmo infantile e, oserei dire, di orgoglio. Tina aveva già strappato l’involucro e, mentre mangiava, ordinò i documenti secondo un criterio che forse le avrebbe semplificato il compito. Sembrava una studentessa sul punto di sostenere un esame: penna, gomma, acqua minerale, calcolatrice. Pronta per iniziare.

«Io e il detective Lambert andiamo a bere un caffè, perché ho la sensazione che ne abbia bisogno», disse Sarah.

Tina alzò a malapena lo sguardo, era come se non riuscisse a scollare gli occhi dai fogli. In quell’istante mi resi conto che erano accomunate dalla stessa passione. Tina Fiddes non vedeva la sorella da due o tre giorni e stava per essere lasciata di nuovo sola. Non a lungo, te l’assicuro, ma pur sempre sola. Tuttavia, era molto più interessata al «lavoro».

«Quando torniamo facciamo una passeggiata, eh, tesoro? Che ne dici?» propose Sarah.

Tina non diede segno di aver sentito.

«Ti avevo detto che uno Snickers sarebbe stato utile. Forza, detective. Togliti quell’espressione sbalordita dalla faccia, e forse ti darò qualche dritta su come funziona questo mondo.»

La Teoria Dell'eternità
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