56
Montalvo, a nord di Los Angeles,
lunedì, 13 giugno 2011
«Gesù pianse.»
Non sapevo che altro dire. Se avevo capito bene, ed ero quasi sicuro di sì.
Sarah si voltò e si appoggiò alla ringhiera. Non occorreva essere un detective per capire che stesse piangendo.
Non avevo mai avuto il minimo sospetto. D’altra parte, come avrei potuto? Come? Insomma, Sarah aveva almeno cinque anni più di Tina, no? Era la sorella maggiore. Come poteva essere ciò che aveva appena detto di essere? Era semplicemente impossibile.
«Stai dicendo che è… tua madre?»
Aveva la voce rotta dal pianto e carica di rabbia. «Apprezzo molto quello che hai fatto per lei, Nick, dico sul serio. Il Thousand Oaks è stato un colpo di genio, e sono certa che sarà molto felice là. Per qualche tempo.» Singhiozzò. «Grazie.»
Si riferiva al mio «accordo» con Grier. Così semplice, eppure così astuto. Convincerlo che non era necessario uccidermi e sperare che rispettasse i patti. E, soprattutto, fargli credere che non fosse stata Sarah a decifrare il codice, che non era lei l’anello fondamentale della catena, bensì Tina.
Era lei ad avere le capacità, a vedere le cose che noi non avremmo mai potuto sperare di cogliere. Allora, se voleva decodificare le tavole, perché non lasciare che se ne occupasse Tina? Forse avrebbe impiegato un po’ di tempo, ma alla fine ci sarebbe riuscita. Probabilmente molto prima dei computer perché, come mi aveva spiegato Sarah, i computer non pensano; fanno ciò per cui sono programmati e non conoscono concetti quali «astratto» e «insinuazione».
Come avevo detto a Grier, se voleva che gli dessi quello di cui aveva bisogno, avrebbe dovuto promettermi solennemente che se ne sarebbe preso cura. In altre parole, avrebbe portato via Tina dall’inferno dell’Oakdene e l’avrebbe trasferita in una struttura migliore. Un posto come il Thousand Oaks, lungo la costa. Un luogo dove gli standard d’igiene e assistenza fossero più alti, e dove i Creed di questo mondo non avessero troppa libertà di azione.
Merda, pensai. Non avrei voluto pronunciare la parola successiva, ma mi sfuggì dalle labbra: «Creed».
Sarah inspirò a fondo. L’aria non le arrivò nei polmoni, ma tornò fuori in brevi respiri affannosi, come quelli di una bambina che si è fatta male. Mi voltò le spalle e prese a singhiozzare.
«È probabile che ora sia in camera sua. La starà violentando.» Si girò, con gli occhi arrossati e le guance rigate dalle lacrime. «Non poso impedirlo, Nick.» Iniziò a colpirmi il petto con rabbia. «Non posso impedirlo, cazzo!»
Lasciai che mi prendesse a pugni finché non esaurì le energie e si fermò. Poi, la cinsi con le braccia e la tenni stretta mentre piangeva sulla mia spalla.
«Possiamo andare subito all’Oakdene. Troverò qualcosa con cui incastrarlo, qualsiasi cosa. Cavolo, fabbricherò delle prove. Mi basta tenerlo lontano per una settimana. A quel punto, Tina se ne sarà andata e lui non potrà più raggiungerla, giusto?»
Si ritrasse, sbigottita. «Cristo, non hai ancora afferrato il concetto, vero, Nick? Nemmeno ora. Non posso cambiare le cose. Creed è mio padre, non capisci? Non posso farci niente. Se non… Se non succede, io non esisto. Invece esisto, no? Sono qui. Perciò, per quanto voglia evitare che accada, non posso intervenire. Non capisci? Non è scoppiata nessuna bomba nella Berlino del 1939.»
In altre parole, non si può far succedere qualcosa che non è mai successo. Era tutto chiaro. Qualunque cosa Sarah avesse fatto per impedire lo stupro, avrebbe fallito. Non si poteva cambiare la storia. Tina era sua madre e Creed suo padre. Non poteva cambiare genitori più di quanto non potessi farlo io. Era quella la ragione per cui odiava Creed, per cui l’aveva sempre detestato. Aveva violentato sua madre, una ragazza autistica che non era in grado di difendersi. Eppure, l’aveva incrociato più volte, per due anni, sapendo che sarebbe accaduto. Non riesco neppure a immaginare cosa possa aver significato per lei.
Odio questo posto con tutte le mie forze. Non quanto Creed, lo ammetto, aveva detto. Scommetto che avrebbe voluto ucciderlo in quel preciso istante, solo per togliersi il pensiero.
Aveva detto anche qualcos’altro, qualcosa cui all’epoca non avevo prestato attenzione. Lo ripetei ad alta voce: «’Il fatto che Tina sia all’Oakdene mi permette di esserci’».
«Capisci?» chiese. Era come se si sentisse in dovere di giustificare le proprie azioni, ma non ne aveva bisogno, non con me. «Ho dovuto lasciarla là. Avrei voluto trasferirla, ma non potevo. La sua presenza all’Oakdene era indispensabile. È così che è successo.»
«È per questo che ti sei offerta volontaria per tornare nel passato?»
«Volevo soltanto conoscerla.» Era ancora sulla difensiva. «Ti sono molto riconoscente per il Thousand Oaks, Nick, dico sul serio, ma Tina non resterà a lungo. È morta dandomi alla luce. Non l’ho mai conosciuta, e ho voluto tornare indietro per ricambiare ciò che mi aveva dato. Mi ha donato la vita e ho voluto ripagarla. Ecco perché ho convinto Klein a mandarmi qui due anni fa invece di venti. Ho avuto il tempo di raccogliere le cose che mi servivano, di creare i falsi e trovare le prove, in modo che, quando fossi entrato in scena, tu potessi aiutarmi, e ho anche potuto trascorrere due anni con… con mia madre.»
Pronunciò l’ultima parola come se fosse la più importante del mondo.
Per lei, probabilmente lo era.
«Dunque, hai sempre voluto fregare Klein?»
«Ho solo pensato che avrei potuto fare qualcosa per il mondo, mentre facevo qualcosa per me stessa.»
Annuii.
Sarah guardò l’oceano. Per molto tempo si udirono soltanto il nostro respiro e il rumore delle onde che si frangevano contro gli scogli.
Le credevo.
So che sembra assurdo, ma è così. Le credevo sul serio.
Avevo visto Tina spostare lo Snickers senza nemmeno sfiorarlo, ne ero certo. Se lei era in grado di modificare la sequenza, forse altri avevano la stessa capacità. E, sì, forse lo stesso concetto si poteva applicare a tutte e quattro le dimensioni. I conti tornavano.
Detesto ammetterlo, ma quadrava tutto alla perfezione.
Tranne una cosa, per certi versi, la più ovvia. Sarah mi aveva detto che forse Tina stava subendo una violenza sessuale in quel preciso istante, e non potevo rassegnarmi a quel fatto. Non poteva nemmeno lei, suppongo. Ma se fosse stato vero, o anche se Tina fosse stata stuprata di lì a un mese, restava un grosso problema: in qualche modo, da qualche parte, Sarah Fiddes sarebbe nata nel giro di un anno, e invece era là, in lacrime accanto a me.
«Se sei qui adesso, che ne sarà di te quando nascerai?»
Si asciugò il pianto e si sforzò di sorridere. «Ho pensato a tutto, Nick. Fidati.»
Mi fissò a lungo. Niente di più, soltanto un sorriso amichevole e affettuoso, seguito da una risata sommessa. «Ricordi la busta che ti ho dato quando siamo usciti da casa mia?»
«Sì, ce l’ho ancora.»
«Credo sia arrivato il momento che tu dia un’occhiata dentro.»
O almeno pensavo di averla ancora. Avevamo lasciato il suo appartamento, eravamo andati all’Oakdene, poi avevo accompagnato Sarah all’aeroporto, quindi avevo ricevuto una lavata di capo da Deacon e infine… «È in auto, nel vano portaoggetti.»
Fece un sorriso ampio, vero, il primo da quando ero arrivato. «Allora ti suggerisco di andare a prenderla.» Con finta aria di rimprovero, roteò un ciondolo.
Tornai alla Taurus, aprii il cassetto e recuperai la busta. Mi raddrizzai, sbattei la portiera e guardai oltre il tetto della vettura, lungo il sentiero.
Quando uscì, Jonathan Lionel Creed chiuse la porta. Girò la chiave nella toppa.
Non aveva bisogno di mostrarsi sorridente, anche se la soddisfazione gli si leggeva negli occhi. Nella sua mente, tuttavia, c’era un raggio di luce che avrebbe potuto illuminare una piccola città per un anno intero, o la sua vita miserabile per dieci. Controllò con calma la cintura e la zip dei pantaloni, raddrizzò la schiena e le spalle e si avviò per il corridoio a passo strascicato.
Nella 113, dietro la porta marrone ammaccata, Tina Fiddes era rannicchiata sul letto, con le guance rosse come mele mature e le lacrime scintillanti come rugiada. Niente suoni, niente singhiozzi, soltanto respiri profondi. Era sotto shock e il suo corpo stava cercando di decidere come reagire.
Quando Creed aveva chiuso la porta, aveva prodotto una leggera corrente d’aria lungo la parete appena tinteggiata. Quello sbuffo delicato, forse di uno o due gradi più fresco rispetto al resto della stanza soffocante, soffiò silenzioso sino in fondo alla stanza e percorse la parete opposta. Le accarezzò le gambe nude, le scivolò addosso come un lenzuolo invisibile tirato su per proteggersi dal freddo della notte, e le spostò le ciocche di capelli sopra gli occhi arrossati.
Poi, cambiò di nuovo direzione, irradiandosi assieme al calore del suo corpo, finché non incontrò l’unica mensola della camera.
Tina la vide con la coda dell’occhio. Bianca. Tremante.
La colomba di carta si mosse. Prima di lato, poi in avanti. Aveva la testa alta mentre si avvicinava al bordo, come se stesse traendo un respiro. Rimase in equilibrio precario finché la corrente d’aria non fu passata. Quindi la testa si abbassò e l’equilibrio cambiò nuovamente.
Tina la osservò scivolare con grazia giù dal ripiano e cadere avvitandosi verso il pavimento, e d’un tratto rabbrividì. Non una brezza, bensì un vento impetuoso che le tagliava la pelle. Per qualche istante non sentì altro. Niente dolore, niente paura e niente conseguenze, ma ebbe la certezza che da qualche parte stesse accadendo qualcosa di molto brutto.
Fu il vento più freddo che avesse mai sentito.
Si rese conto di essere dentro la colomba, intenta a cadere dolcemente, al ritmo lento dei sogni e dei ricordi. La mensola era svanita, rimpiazzata da scogli che luccicavano nel chiarore fioco. Le sfrecciarono davanti come un fuoco scuro. In alto dominava il rosso, il colore intenso di un tramonto, con le nuvole che ardevano come tizzoni.
Benché il suo corpo le ordinasse di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per evitare di cadere, resistette alla tentazione di allargare le braccia – le fragili ali di carta che aveva piegato con cura quasi due anni prima, il giorno in cui Sarah era tornata nella sua vita – e di abbandonarsi alla brezza. Frenò l’impulso di volare, di librarsi nel cielo o di salvarsi. Dentro, qualcosa che non riusciva a udire né a vedere, ma soltanto a percepire, le sussurrò che non le avrebbe fatto nessun bene.
Una parte di lei se ne stava andando. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Prima uno scintillio, poi un velo e infine piccole pozze salate, perché gli argini delle sue palpebre inferiori non erano stati costruiti per opporsi alla marea crescente. Aprì la bocca.
Provò invano per due volte. Quindi, nel momento più buio della sua vita, nonostante lo stupro, capì chi era, perché stesse cadendo e cosa sarebbe successo in un’altra parte del mondo. La colomba se ne stava andando. Era rimasta con lei per due anni. Forse era rimasta sulla mensola spoglia per tutto quel tempo, ma aveva osservato ogni sua mossa all’interno della stanza. Le aveva voluto bene.
La colomba se ne stava andando.
Urlò.
Tina Fiddes, la ragazza muta le cui corde vocali atrofizzate non avevano mai prodotto più di un suono gutturale, impose uno sforzo immane alla sua fragile gola e, con le labbra ancora sanguinanti per i morsi che si era inflitta, urlò abbastanza a lungo e abbastanza forte perché il mondo e il futuro la udissero.
Creed si bloccò di colpo. In fondo al corridoio, a circa un metro e mezzo dalle scale e dalla ringhiera di ferro scrostata, si voltò e affilò lo sguardo. Quindi sgranò gli occhi.
Le luci esplosero a una a una, quasi in una sequenza sincronizzata. Si avvicinarono sempre di più, come se si stessero dirigendo verso di lui, o se lo stessero seguendo.
Si paralizzò.
I tubi fluorescenti si spensero con un suono e una forza così intensi che il telaio di ferro si torse sulle spesse catene, come un uomo ammanettato che si dimeni per fuggire da una stanza in fiamme. Piovvero scintille e frammenti di vetro, come se il paradiso stesse cacciando i peccatori fuori delle sue porte.
Sempre più vicine, sfrecciando lungo il corridoio come un cane da combattimento incatenato, a digiuno da giorni e poi sguinzagliato contro un intruso. Quasi troppo veloci per vederle, di sicuro troppo per scappare. Quando esplose l’ultimo neon, quello sopra la testa calva di Creed, il rumore dei vetri e delle scariche elettriche gli riempì le orecchie e, quando le schegge gli si rovesciarono addosso come una pioggia di piombo, l’uomo avvertì calore sul viso. Ebbe l’impressione che fosse stato lo scoppio più fragoroso di tutti. Per un istante, credette quasi che fosse stato intenzionale.
Un anello. In qualsiasi catena, è sufficiente perché l’integrità vada a farsi benedire.
Nell’oscura lingua di terra in cui era Creed, tra la confusione e le grida che riempivano l’aria come un vento terrificante, un anello di ferro annerito, che la ruggine consumava silenziosa da anni, cedette all’improvviso.
Il telaio, ricavato dal ferro più pesante, prima che l’alluminio e i metalli leggeri diventassero di uso comune, vide una possibilità e si liberò, cadendo a terra con precisione assurda. Prima che Creed avesse il tempo di urlare, gli piombò in pieno volto, a fratturargli il naso e sfondandogli la fronte. Gli occhiali andarono in frantumi, un’esplosione di vetri. Gli occhi che avevano appena goduto del dolore sul viso di una giovane donna se lo videro restituire. Con gli interessi.
Indietreggiò vacillando, il parapetto premuto contro la spina dorsale come fosse un fucile.
La ringhiera resistette.
Quando il telaio si fermò, dondolando piano dall’unica catena rimasta, Creed ricadde in avanti, accasciato sulle ginocchia. Dopo alcuni secondi, i più lunghi e dolorosi della sua vita, riprese fiato. Restò immobile per qualche altro istante, si tastò cautamente la faccia e cercò di orientarsi, nonostante la cecità. Si rialzò. Nel corridoio rischiarato soltanto dalla fredda luce blu della notte che filtrava dalla finestra in cima alle scale, troppo alta per essere stata pulita più di una volta durante la sua dirigenza, allungò la mano destra insanguinata. Fu come se credesse che un salvatore potesse afferrarla e liberarlo dall’inferno che gli si era abbattuto sul viso e sugli occhi e dalla paura incontenibile che gli aveva invaso la mente.
L’aria immobile sfrigolava ancora di elettricità intrappolata, una forza immortale che cercava spasmodicamente l’unica droga di cui aveva bisogno: un passaggio verso la terra. Minuscole faville tremolarono a destra e a sinistra, come occhi impegnati a scrutare. Non si sarebbe placata, non avrebbe potuto placarsi, finché il suo desiderio non fosse stato soddisfatto. Non sarebbe stata schizzinosa. Si sarebbe accontentata di qualsiasi spacciatore.
D’istinto, Creed fece un passo avanti, agitando il braccio come un uomo in procinto di annegare, e l’elettricità gli saltò letteralmente addosso. Anche se la sua mano non entrò mai in contatto col ferro né coi cavi, un rabbioso arco arancione coprì i pochi centimetri rimasti, così luminoso che Creed lo vide persino attraverso le palpebre sanguinanti e urlò quando aggiunse altri tizzoni al fuoco che già gli bruciava la faccia.
Fu scaraventato indietro, con le gambe che scivolavano sul pavimento, finché di nuovo non sentì la ringhiera contro la schiena. D’un tratto, il mondo parve tradirlo, ritirandosi disgustato da sotto i suoi piedi e scagliandolo nel vuoto. Non ci vedeva, ma intuì che la prospettiva dell’ambiente circostante era cambiata. Anzi, capovolta.
Stava precipitando a tutta velocità.
Sentì il soffio improvviso dell’aria asciugargli il sudore di una bella scopata, ancora umido sulla sua pelle unta.
Il suono che il suo Dio gli permise di udire prima che l’ultima scarica di elettricità – la sua scintilla vitale – penetrasse nel terreno fu quello di tre vertebre cervicali che si spezzavano come rami secchi sul cemento.
Tina tacque. Il vento si era placato e lei era di nuovo sola, rannicchiata in posizione fetale in una stanza che non le era mai parsa così vuota.
Pensando a una vita che non le sarebbe mai più parsa così piena.
Oltre la porta non era rimasto niente, se non una serie di suoni deboli: il ronzio dell’elettricità che cercava una valvola di sfogo e i lenti e fastidiosi cigolii dei tubi al neon che oscillavano sopra un lungo corridoio immerso nell’oscurità.
Un luogo buio che, inspiegabilmente, era tornato a essere la sua vita.
Singhiozzando, seppure con un po’ di vergogna, si tastò il ventre. C’era qualcosa di diverso. Si sentì diversa. Forse una nuvola nera era scesa su di lei negli ultimi minuti, e forse era stata seguita da una nube ancora più scura, ma ormai erano sparite, rivelando la luce più intensa che si potesse immaginare. Più forte del sole, in grado d’illuminare persino gli angoli così tenebrosi che erano impossibili da vedere. Non aveva bisogno di essere assalita dalla nausea ogni mattina o di sentire un rigonfiamento che le cresceva nell’addome piatto. Non aveva bisogno di saltare le mestruazioni o di percepire il calcio delicato di un bambino ansioso di muovere i primi passi nel mondo. Sapeva pochissimo dell’argomento, soltanto ciò che aveva letto. Ma di una cosa era sicura: forse Sarah le aveva detto addio per sempre, ma stava già tornando. Sarebbe andato tutto bene.
A quanto sembrava, la magia esisteva anche nei sogni più cupi.
Vidi uno spazio sgombro. Un vuoto nel punto in cui avevo lasciato Sarah, con gli occhi tristi e un sottile ciuffo di capelli che svolazzava nella brezza fresca. L’unico segno della sua presenza era lo zaino, appoggiato alla base del parapetto. Avevo la visuale libera in entrambe le direzioni. Non poteva essere andata da nessuna parte, in così poco tempo.
Ho mentito, lo confesso. C’era un luogo in cui sarebbe potuta andare.
Ma uno soltanto.
L’unico cui non avrei voluto pensare, nell’eventualità che avessi ragione.
Urlai qualcosa, non so cosa, e mi misi a correre. Forse sapevo già che era troppo tardi, ma pregai con tutto me stesso di essermi sbagliato.
Ti prego, no. Ti prego, Dio, no, supplicai.
Per le stesse ragioni per cui odio volare, odio anche i posti alti. Due paure che, per così dire, vanno di pari passo. Ciononostante, mi sporsi più che potei da quella maledetta ringhiera, guardando i flutti che sciabordavano. La marea non si era ancora alzata e gli scogli erano di un blu intenso, quasi nero. Scrutai a destra e a sinistra, ma non vidi nulla, tranne le rocce nude che luccicavano negli ultimi raggi di sole. Di tanto in tanto, un’onda si frangeva, con un pennacchio bianco che balenava per qualche secondo, prima di svanire nell’oceano nero.
Poi accadde un fatto curioso. Un’onda si ritirò e vidi qualcos’altro.
Era bianco come la spuma ma, a differenza dei flutti, non fu inghiottito dal mare. Restò esattamente dov’era, con le gambe unite e le braccia allargate. Non sono religioso, non lo sono mai stato, eppure mi rammentò un’immagine che ero stato costretto a vedere molte volte da bambino, quando, scalciando e urlando, ero stato trascinato nella chiesa battista di Hardenhall, con le sue navate piene di spifferi.
Un salvatore su una croce. Il momento della storia in cui qualcuno di altruista morì soltanto perché tutti noi potessimo vivere.
Posai le mani sul parapetto, lasciai cadere la testa all’indietro e gridai. Le mie urla echeggiarono tutt’intorno. Quando ebbi finito, quando non ebbi più fiato in corpo, mi accasciai e mi fissai i piedi.
Fu allora che notai qualcosa con la coda dell’occhio. Una luce che sfavillava e dondolava dolcemente nella brezza. Un medaglione d’argento.
Lo aprii. Dentro, invece della solita ciocca di capelli, trovai un orologio col quadrante bianco come la neve e coi numeri neri come il carbone.
Nemmeno i viaggiatori più avventurosi possono essere in due posti contemporaneamente, Nick, aveva detto Sarah.
C’erano troppe cose da ricordare.
Ma non ne avrei dimenticata neanche una.