26
Los Angeles,
giovedì, 13 agosto 2043
I riflessi erano sfocati, come sempre.
Era come essere in un corridoio maleodorante. Niente luce chiara, soltanto una lunga ombra ondulata. Sempre la stessa. Il puzzo di candeggina, o forse di antisettico, non dava un’impressione di pulizia, bensì il sospetto che servisse a coprire qualcos’altro. Scivolò lungo quello spazio come se fluttuasse nell’aria. Che stesse attraversando lo Stige? Se ci fosse stata una luce in fondo, se ci fosse stato anche solo un debolissimo chiarore, forse si sarebbe domandata se stesse per morire.
Poi un rettangolo scuro. Una porta. Nera. Si aprì lenta e silenziosa, rivelando, anziché una stanza, un banco di foschia lattiginosa. Acida. Il cielo di una gelida mattina di febbraio.
Non è un sogno. Non può esserlo.
Perché non sto dormendo.
Avrebbe dovuto essere freddo. Le leggi dei colori e dei sensi le dicevano che avrebbe dovuto essere percorsa dai brividi. Invece aveva caldo. Era giusto che fosse là. Aveva bisogno di essere là. Era il suo posto.
Essere qui.
Una luce smorta, proveniente da una fonte abbastanza vicina, fendette l’aria densa. Una lampada, forse, in un locale sgombro, ma era difficile a dirsi. Una piccola forma all’esterno. Più chiara della luce. Riflettente.
La sagoma si mosse in modo goffo, avanti e indietro. Non c’era nulla di armonioso, anche se forse in quel mondo avrebbe dovuto essere il contrario. L’unica eccezione era la testa, che non fluttuava, ma piuttosto galleggiava, andando su e giù, come un relitto nel porto.
C’era qualcosa in quella forma, qualcosa d’importante.
Bianco.
La prima volta che era stata in quel luogo, aveva notato subito di non essere l’unica visitatrice. C’era già qualcun altro, una figura esile, seduta su un letto di lenzuola ruvide. Aveva avuto la sensazione che avesse il capo chino, ma nel suo stato allucinatorio non poteva esserne certa. All’inizio aveva concentrato i propri sforzi su quella presenza. Qualcosa le aveva fatto capire che provare a parlare sarebbe stato inutile, che il suono non esistesse in quella dimensione, ma ce l’aveva messa tutta per vedere il viso di quella persona, forse nella speranza che spiegasse dove si trovava e perché.
Non l’aveva mai scoperto. Il volto era rimasto vago e gli occhi erano specchi.
Era come guardare attraverso un velo. Uno spettro vivo. L’istinto le aveva suggerito che la stanza era la cella di una prigione, nuda e spartana. Era difficile stabilirlo con certezza e ricavare risposte dal poco che riusciva a distinguere. Ciò che vedeva era una tela vuota, perché ogni cosa era una sagoma senza forma. Senza storia.
Però aveva capito. Non l’aveva scoperto, ma aveva capito.
Chi era, dove si trovava.
Sorrise, si sentì protetta e felice. Davvero felice, forse per la prima volta in vita sua.
La seconda volta era stata uguale alla prima. Tutto identico. La terza vide un’altra silhouette, quella sotto la luce.
Non aveva idea di cosa volesse dire né del perché fosse là, ma sapeva che significava qualcosa e che, come tutto il resto in quel mondo, era là per una ragione specifica. Una ragione che le era sfuggita allora e che continuava a non farsi afferrare.
Eccola là, con la testa ballonzolante. Un relitto.
Molti anni dopo aver visitato quel posto per la prima volta – o meglio, dopo che un amico intangibile le era entrato nella mente, l’aveva presa per mano e l’aveva condotta fin là – aveva potuto fermarsi un po’ più a lungo, ambiente permettendo. Mondo reale permettendo. Se mai fosse esistita una dimensione simile, perché quel luogo non soltanto era nebuloso, ma riusciva anche a rendere labile il confine tra i due.
Non sapeva mai quando sarebbe stata portata là, o per quanto tempo il suo mondo le avrebbe permesso di restare – di vedere –, ma la durata delle visite si allungò. Ogni volta un po’ di più.
Provare ad andarci era inutile; l’aveva fatto, ci aveva provato. No, veniva condotta là su richiesta di qualcun altro, il cui soggiorno in quel luogo era un po’ più stabile, e le cui visite non si potevano rifiutare come si fa coi bambini urlanti quando li si restituisce ai loro genitori. Andava là per vedere il mondo com’era davvero. Ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette.
La testa galleggia. Relitti. In un porto.
La porta si riaprì, anche se non ricordava di averla chiusa. L’aveva fatto? Contava qualcosa? C’era un’altra sagoma, un profilo scuro e morbido nella foschia. Non nero, piuttosto un grigio spento, come il riflesso in un lago. Quel posto non era altro che questo. Lui non era altro che questo, e lei sapeva che era un uomo perché sentiva qualcosa nel suo respiro che vorticava nella bruma. Riflessi.
Era la terza volta che vedeva lo sconosciuto, o meglio, i suoi contorni. Nella prima occasione, forse tre settimane addietro, mentre era a casa e con le luci basse leggeva Comma 22 di Joseph Heller, si era ritrovata di colpo in quella dimensione, soltanto che aveva provato ciò che avrebbe dovuto provare sin dall’inizio. Freddo. Dentro, fuori e tutt’intorno, come se la nebbia congelata le si stesse appiccicando alla pelle. Era quella la sensazione che accompagnava la sagoma dell’uomo. Il freddo più pungente che avesse mai sentito. Più intenso persino di quello della morte? si era chiesta. Forse faceva così freddo perché si trattava proprio della morte.
Tuttavia, aveva provato anche qualcos’altro, e adesso era più forte. L’uomo non portava con sé soltanto la morte, ma anche la vita. Non calda, amorevole e generosa, ma pur sempre vita. Come una coltre avvolgente, che però non aveva niente a che vedere col rifugio e col tepore di una coperta. Era sempre sulla soglia, più orgoglioso di quanto avrebbe dovuto essere, mentre la luce tenue gli aleggiava intorno come un’illusione ottica. Visi e vasi, cosa vedi? Cosa vuoi vedere?
Voglio vedere cosa succede. Voglio sapere perché è qui.
Una voce nella sua testa. Una voce che riconosce pur essendo sicura di non averla mai udita prima. Dolce, confortante. Triste. «Lo scoprirai. Devi scoprirlo. Ma non avere fretta, perché a quel punto non potrai più tornare indietro.»
A quel punto non potrai più tornare indietro.
Comma 22.
L’uomo sulla soglia fece un passo avanti. Solo uno. Sempre uno. Non era un passo lungo, ma trasmetteva un senso di finalità. Cose da fare. Cose che sono già state fatte. Cose che non si possono cambiare.
La storia. Quella no che non si può cambiare, pensò.
Mentre lo sconosciuto si avvicinava, percepì i suoi occhi, mesti e scuri. Come la sua andatura, nascondevano uno scopo, un obiettivo misterioso che lei ignorava e che aveva paura anche soltanto di provare a indovinare. Avrebbe voluto urlare. Non per se stessa, perché aveva intuito che non era là per lei. Era venuto per l’altra persona, quella che l’aveva chiamata laggiù ma che non le aveva permesso di vedere ogni cosa. Non ancora.
A quel punto non potrai più tornare indietro.
Una sagoma alla finestra. Di un bianco purissimo, come un angelo. Intenta a muoversi. A ondeggiare. A osservare. Riusciva a vederla? Riusciva a vedere l’altra persona? Oppure l’uomo che stava entrando? Vedeva qualcosa?
Oppure non erano che riflessi del mondo reale?
Se esisteva un posto simile, doveva tornarci. Una voce inudibile le disse che doveva farlo non soltanto per il suo mondo, ma per entrambi. Subito. Aveva delle cose da fare (ormai l’uomo era dentro). Non sapeva quali fossero, solo che la stavano aspettando. Come un supermercato. Perché era entrata? Forse non lo sapeva, ma era certa che stava cercando qualcosa.
Lui è nella stanza.
Qualcosa da fare.
È qui da me.
Cose importanti da cui capì che avrebbero potuto prendere quel confine e cancellarlo per sempre. Il mio mondo è pieno di paura, ma non è la mia. Forse potrebbero dissolvere la nebbia e fare un po’ di chiarezza non soltanto in quella dimensione, ma anche nella sua vita in entrambi i luoghi. Paura. La percepì distintamente.
Riflessi. Nitidezza. Come un paio di occhiali nuovi.
Alison era a casa e i suoi occhialini riflettevano gli schermi di tre computer, ciascuno con un’immagine diversa. Le studiò con attenzione, poi picchiettò con le lunghe dita sul tappetino a pressione per modificare i dati e sorseggiò un caffè ormai freddo. Come accadeva ogni volta che tornava da quel luogo, aveva il cuore che batteva all’impazzata. Non aveva idea di quanto tempo fosse stata via. Il tempo non era importante nel mondo reale, solo nell’altro posto, quello in cui aveva percepito che stava per scadere.
Doveva fare qualcosa. Doveva trovare qualcosa.
Ma cosa?
Andava avanti così da tre ore. Cinque la notte precedente e sei quella ancora prima. Aveva gli occhi stanchi. Batté le palpebre per scacciare il sonno e fece del proprio meglio per continuare. Non sapeva bene il perché, ma doveva trovare le risposte prima che Klein partisse per la Francia.
Le risposte a tutto, per citare le sue parole.
Non quelle di Klein, però. Non più. Ma le sue.
In realtà, aveva già stampato tutte le informazioni e le aveva raccolte in un fascicolo, che era finito sulla scrivania del suo capo prima che lui arrivasse alle sette e mezzo di quel mattino. Pur non avendogli più parlato da allora, era sicura che sarebbe stato molto soddisfatto. Ciò che stava cercando, ciò che desiderava da tutta la vita, aveva scoperto, erano le tavole della Testimonianza. Antiche tavolette di pietra, descritte nei testi sacri aramaici e denominate «equazione cosmica» e «leggi divine dei numeri, dei pesi e delle misure».
Si diceva che fosse possibile imparare l’arte mistica di leggere le iscrizioni utilizzando il sistema criptico della Cabala. Se si doveva prestare fede al mito, alla tradizione, alla speculazione e Dio sa a cos’altro, quelle iscrizioni erano le risposte tanto agognate da Klein. Due tavolette di pietra, in apparenza incise dalle stesse mani che avevano plasmato la terra, e collocate nell’Arca dell’alleanza o nell’Arca di Sion, che per un certo periodo aveva viaggiato con Mosè, conducendo lui e i suoi seguaci nella Terra promessa.
Ma dove, voleva sapere Klein, avevano concluso quell’epico viaggio di proporzioni bibliche? Con una ricerca approfondita, incrociando le informazioni d’innumerevoli archivi digitali e biblioteche in tutto il pianeta, Alison era riuscita a dimostrare che con ogni probabilità l’Arca aveva seguito il «percorso noto», la strada concordata. Non c’era nulla che smentisse quell’ipotesi. L’enorme contenitore in legno di acacia era stato trasportato per sette volte da Giosuè intorno alle mura di Gerico, usato contro i filistei dai figli di Eli e trasferito da Davide nella nuova capitale, Gerusalemme, dove Salomone, figlio di Davide, aveva costruito un magnifico tempio in cui custodirlo.
Dopo secoli di relativo oblio, l’Arca era svanita in circostanze su cui neppure la Bibbia ebraica riusciva a fare luce. Il tempio era stato distrutto dai babilonesi e poi ricostruito. Nel sancta sanctorum, tuttavia, non era mai stata collocata nessuna Arca. Alla fine, se si voleva credere alle voci, alle ipotesi e ai miti, il più sacro di tutti i contenitori era stato rubato ed era finito in Etiopia.
Pareva, invece, che le tavole della Testimonianza avessero preso una strada diversa. Secondo i documenti consultati da Alison e stando agli scritti di Filone di Alessandria e di Flavio Giuseppe, erano rimaste a Gerusalemme. Là, riferiva il Talmud, erano state occultate da Giosia quando si era reso conto che il tempio sarebbe stato demolito. Nel 36 d.C. Filone aveva riferito che un falso profeta aveva chiesto ai samaritani di accompagnarlo sul monte Garizìm, dove avrebbe mostrato loro le «tavole sacre» che vi erano sepolte. Era risaputo che i samaritani avessero creduto che un profeta santo, come Mosè, avrebbe restituito le tavole al tempio, così avevano accettato. Il Memar Marqah, un testo aramaico compilato nel IV secolo d.C., accennava al Garizìm parlando di un tempo in cui «ciò che è nascosto sarà rivelato».
Tuttavia, le tavole non si trovavano sul monte; erano ancora sotto il tempio, nella spaziosa scuderia di re Salomone. Durante la prima crociata del 1091, l’enorme rifugio sotterraneo era stato definito da un combattente «una stalla di tale ampiezza che potrebbe ospitare più di duemila cavalli». A quanto pareva, aveva custodito anche «grandi tesori, tra cui le tavole della Testimonianza».
Se le leggende sui Templari contenevano un briciolo di verità – le congetture di un gruppo così schivo andavano sempre prese con le pinze –, gli scopi ultimi dei cavalieri erano stati il ritrovamento e l’apertura di quell’immenso deposito. Una confessione successiva all’evento.
Nel 1127 i Templari detenevano ormai tutto ciò di cui avevano bisogno. Si erano impossessati non soltanto delle tavole, ma anche di una cospicua quantità di lingotti d’oro e tesori, occultati sotto terra molto prima della distruzione e del saccheggio del tempio, avvenuti da parte dei romani nel 70 d.C.
Dopo la scorreria, Ugo de’ Pagani, primo maestro dei Templari, era stato convocato a un concilio che si sarebbe tenuto a Troyes, presieduto dal cardinale legato di Francia. Aveva lasciato Gerusalemme scrivendo: «L’opera è compiuta e, sotto la protezione del conte di Champagne, i cavalieri viaggeranno attraverso la Francia e la Borgogna, dove saranno prese tutte le precauzioni». La corte di Troyes, sede di una scuola di studi esoterici e cabalistici, era pronta anche a eseguire un’accurata traduzione delle tavole.
Tuttavia, non ne aveva mai avuto la possibilità. Lungo il tragitto, i documenti erano stati rubati, e Alison sapeva che se Klein fosse venuto a conoscenza di quelle informazioni, come ormai era accaduto, la sua mossa successiva sarebbe stata assicurarsi non solo che le tavole venissero rubate, ma pure che lui e la sua stramba concezione di perpetuità fossero la causa del furto.
Sarebbe stato impossibile fermarlo. Anche se Alison avesse mentito, o falsato la realtà, Klein avrebbe scoperto l’inganno e si sarebbe rivolto a un altro ricercatore. Poi, col tempo, avrebbe fatto due più due, poiché aveva già i modi e i mezzi a propria disposizione.
Se fosse stata lei a doverlo dissuadere dai suoi propositi, sarebbe stata fregata. Alla fine Klein si sarebbe impadronito dell’unica cosa che nessun uomo dovrebbe avere – le leggi divine dei numeri, delle misure e dei pesi – e nulla avrebbe potuto impedirlo. Nulla che le venisse in mente in quel momento.
Martedì notte e mercoledì, mentre stampava e rilegava il nuovo fascicolo per Klein, si era lasciata prendere dallo sconforto; fino a quella sera, quando aveva deciso che la direzione imboccata dalle sue ricerche avrebbe dovuto allontanarsi dalla strada principale e avventurarsi in un territorio sconosciuto, dove si sarebbe calata nel ruolo di esploratrice e cartografa.
Aveva una mente logica, una delle migliori, e c’erano due cose che le erano rimaste impresse da quando ne era venuta a conoscenza: primo, Klein aveva affermato di aver cercato le tavole «per tutta la vita» ma, pur conoscendolo da molti anni, lei non ne aveva avuto nessun sentore; secondo, e più preoccupante, da alcuni documenti datati aveva appreso che Klein aveva offerto «consulenze» su uno scavo archeologico vicino al monte Cardou già nel 2011.
Si chiese come mai. Perché Klein aveva fatto da consulente in uno scavo archeologico in Francia? Le tavole non erano forse state portate in Francia da Ugo de’ Pagani nel 1127? Non erano forse state rubate in Francia? Cosa le stava nascondendo Klein? Era possibile che si fosse convinto di averle trovate già nel 2011?
Se sì, cos’era andato storto? Cosa, quando e come?
Grazie ai codici governativi, accedette a tutti i file che riuscì a reperire. Klein, scoprì, era stato coinvolto ampiamente negli scavi di Cardou dopo il ritrovamento di una pergamena all’abbazia di Fontfroide, in Francia, nel 1992. Aveva lavorato a quel progetto fino a giugno 2011, quando era stato mandato in Siberia per esaminare un altro sito d’interesse scientifico, quello che aveva condotto alla scoperta del siberio. Nel corso di quei cinque giorni in Russia, tuttavia, aveva ricevuto un’e-mail dal capo della sicurezza di Cardou, il generale Peter Grier.
Il messaggio diceva: Sito vuoto, ma ho individuato e intercettato ciò che stai cercando. Rubato da detective del dipartimento di Los Angeles e da ragazza, ormai deceduti. Tavole a Los Angeles, da trasferire a Washington per decrittazione. Grier.
Lo scavo era stato chiuso e Klein non era più tornato nella regione di Cardou.
Due anni dopo, la proprietà dell’area era passata alla Klein-Work Research Technology, che avrebbe svolto ricerche sul bestiame.
Perciò, se Grier aveva «intercettato» ciò che Klein stava cercando – e Alison poteva soltanto concludere (per quanto fosse una conclusione pericolosa) che si trattasse delle tavole –, perché Klein non era in loro possesso? Perché le stava ancora cercando? Non c’erano indicazioni su dove fossero state bloccate né su come un detective e una ragazza ci avessero messo le mani sopra, ma Alison era rapita.
D’un tratto, gli avvenimenti del 1127 passarono in secondo piano – erano un problema di Klein –, mentre quelli del 2011 diventarono fondamentali. Ciò che era accaduto in quei pochi giorni era la ragione per cui, dopo tutti quegli anni, Klein stava ancora cercando il tesoro.
Doveva soltanto scoprire cosa fosse.
E poi, per citare Klein, mettere a posto le cose.
Sotto il laboratorio principale, a un piano sotterraneo di cui molti alla KleinWork Research Technology non conoscevano l’esistenza, e cui non avrebbero potuto accedere in ogni caso perché non avevano l’impronta genetica necessaria, arrivarono otto guardie, quattro per parte, pronte a scortare gli uomini fuori delle celle.
Due rimasero vicino alla porta, stringendo i pulsanti su cui era riportato il nome di ciascun detenuto e che, una volta premuti, avrebbero attivato la spia rossa sulle fasce di acciaio chiuse intorno ai polsi e alle loro caviglie. Se fosse accaduto, ordigni esplosivi capaci di detonare verso l’interno avrebbero staccato le mani e i piedi del malcapitato. A quanto pareva, la tecnologia aveva prodotto il caffè istantaneo, la pizza istantanea e, quel che era più preoccupante, l’inabilitazione istantanea per chi non avesse rispettato le regole, a prescindere da quanto fossero assurde.
Le altre sei guardie si divisero in due gruppi di tre, coi caschi dotati di visiera e con gli indumenti protettivi a mascherarne i corpi e le identità. Muovendosi in perfetta sincronia, si diressero con calma verso le rispettive posizioni.
Due detenuti ricevettero l’ordine di alzarsi dalle brande e di dare le spalle alle sbarre, con le mani fuori. Le fasce furono bloccate con aste di acciaio, così da ridurre al minimo i movimenti di braccia e gambe, in caso ci fosse stato un guasto dei dispositivi.
Quindi le guardie indietreggiarono e fecero segno ai colleghi davanti all’uscio, che immisero i codici per attivare le porte delle celle 3 e 9, e le barre scivolarono nel pavimento per liberare gli uomini.
Uscirono Michael Davies e Pierrot D’Almas, selezionati da Josef Klein in persona.
«Dove andiamo?» chiese il primo.
«Chiudi il becco, Davies», li zittì una guardia.
«Ehi, stronzo», si lamentò il secondo, con un marcato accento di New Orleans, quando lo costrinsero a camminare più velocemente di quanto gli consentissero i ceppi. La guardia lo spinse ancora più forte, facendolo incespicare.
Davies dovette aspettare a un metro dalla porta finché D’Almas non lo raggiunse; poi, si fermarono l’uno accanto all’altro, circondati, mentre una delle guardie spiegava le regole: «Non parlerete con nessuno a eccezione delle guardie, e soltanto per rispondere a eventuali domande. Eseguite gli ordini e non ci saranno problemi. Disobbedite alle istruzioni per qualsiasi motivo, e diventerete tetraplegici ancora prima di rendervene conto». Sollevò il pulsante. «Sono stato chiaro?»
I prigionieri non annuirono, ma avevano capito. Si scambiarono un’occhiata perplessa, come due cristiani spinti verso il cancello del Colosseo. Sapevano perché erano là, o almeno conoscevano alcune delle ragioni per cui si trovavano in quel posto. Ma perché in due? E perché li avevano scortati alla porta principale? Perché non all’altra estremità del corridoio, dove l’ascensore li avrebbe condotti direttamente al piano di sopra? Era là che era andato Castle e, a quanto avevano sentito, era anche sopravvissuto.
L’avevano saputo da un’altra guardia, che gliel’aveva riferito tanto per farli stare zitti.
Alla loro destra, mentre venivano accompagnati fuori della stanza, due occhi scuri. Freddi e grigio piombo. Jeffrey Mason si appoggiò alle sbarre con espressione torva. Come Davies e D’Almas, indossava una tuta rossa e stringeva una tazza di acciaio in cui il caffè era finito ormai da tempo. La bevanda era densa e nera, come Stubbs della cella 11, gli piaceva pensare. Sapeva di urina. Piscio di guardia.
Quello era il carcere più pulito e avanzato in cui fosse mai stato rinchiuso. Pareti immacolate, porte di vetro a specchio tirato a lucido e illuminazione così moderna da essere quasi disgustosa. Tuttavia, l’elemento umano, la costante inevitabile che pareva seguirlo ovunque lo portassero i suoi crimini, rendeva quel posto candido più oscuro dell’inferno. Mason odiava l’idea di passare un’altra giornata là dentro, più di quanto odiasse la certezza di aver trascorso nove mesi nel ventre di quella puttana di sua madre.
Voleva andarsene, e non gli importava dove. Ovunque gli avessero ordinato. Lui, che non aveva mai versato una lacrima in vita sua, era sul punto di scoppiare a piangere per la noia. Come mai Davies, D’Almas e Castle erano usciti prima di lui? Non era forse all’altezza dell’incarico?
«Che mi dite di Mason, coglioni?» urlò senza staccare le parole. «Mason non esce da questa maledetta topaia? Perché loro se ne vanno e il piccolo vecchio Mason no?»
Nessuna risposta. I dieci uomini svanirono e la porta principale, un finto specchio a lunghezza intera da cui si poteva monitorare il corridoio ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, si richiuse silenziosamente. Le luci del corridoio si ridussero come sempre a un terzo dell’intensità. Mason scagliò la tazza oltre le sbarre. Il recipiente colpì lo specchio senza nemmeno scalfire la superficie irruvidita e tintinnò sul pavimento, scomparendo in un angolo buio della cella 3.
«Ehi, non azzardatevi a lasciarmi solo col fottutissimo negro», gridò Mason.
«Falla finita, testa di cazzo.» La voce di Stubbs echeggiò tra le pareti spoglie dietro le sbarre della 11, dando l’impressione che a parlare fossero stati tre uomini rabbiosi.
«Vaffanculo, negro. Mason dice quello che gli pare.» Si girò verso la porta, con l’immagine degli uomini che se n’erano andati ancora impressa sulla retina. Quando sarebbe uscito? «Coglioni», sussurrò.
Uno dei riflessi sugli occhiali di Alison Bond apparteneva a un uomo, un tipo anziano e annoiato che chiaramente avrebbe preferito non farsi fotografare. Un certo Nick Lambert, che era entrato nel dipartimento di polizia di Los Angeles a ventitré anni ed era diventato detective a ventotto. Si era sposato e nel 2000 aveva divorziato, al che l’ex moglie aveva portato la figlia di otto anni a vivere con sé e il nuovo compagno a Seattle. Da quel momento in poi, la sua carriera era andata di male in peggio. Negli anni successivi, Lambert aveva collezionato un paio di successi, ma alla fine era caduto così in basso da non riuscire più a risalire la china. Nel 2011 era stato incaricato d’indagare su un testo latino rinvenuto nel cadavere di un uomo e aveva fatto visita a una paziente della clinica Oakdene. Alison sorrise. Un testo latino. Era così che Klein era stato indotto a credere che le sue amate tavole fossero state trovate e intercettate.
Dopo un esame meticoloso degli archivi V-2102 della polizia per il giugno del 2011, s’imbatté nel fascicolo BX9906808, che descriveva la morte e la successiva inchiesta sull’individuo che all’inizio era stato in possesso del testo. Fu in quel dossier che incappò per la prima volta nel nome di Nick Lambert.
Poi, vide le fotografie, cinquantaquattro in tutto. Alcune raffiguravano la scena del crimine, con l’uomo coperto da un lenzuolo mentre enormi pozze di sangue si allargavano sul pavimento; altre riguardavano l’indagine. Qualcuna era stata scattata durante l’autopsia.
Restò seduta davanti ai tre schermi per quasi un’ora, spremendosi le meningi nel tentativo di capire cosa e come fosse successo. Non fu semplice. Era l’equazione più complessa che avesse mai dovuto risolvere in vita sua; le tessere del mosaico erano tutte là, dalla prima all’ultima, ma comprendere come e perché interagissero era un altro paio di maniche.
Si alzò e si preparò un caffè, ma non servì a nulla. Continuò a fissare il vuoto, con la certezza che da qualche parte doveva esserci la risposta ai suoi quesiti. Conosceva l’uomo della foto, l’aveva visto coi propri occhi, allora perché non riusciva ad appurare cosa gli fosse accaduto?
Poi, ebbe una folgorazione. «Oh, Gesù.» Tornò di corsa verso lo schermo e richiamò un’altra immagine. Sorrise soddisfatta. Guardò il monitor e arrivò a una conclusione: aveva capito esattamente cosa stava per accadere.
L’uomo aveva un ghigno stampato sul volto e, benché fosse stato catturato e condannato in tempi molto recenti, i suoi tratti non mostravano nessun rimorso per i crimini elencati sotto il suo nome; gli occhi non manifestavano sentimenti, se non una sorta di tacita consapevolezza. Non di qualcuno o di qualcosa, ma solo di se stesso.
Doveva essere stato un uomo del genere, pensò Alison. Glaciale. Forse, aveva creduto che sarebbe vissuto per sempre, almeno dal punto di vista spirituale, e il fatto che fosse stato selezionato per il progetto Sequence era servito soltanto a rafforzare quella convinzione.
Lo scrutò. Aveva visto le fotografie dell’autopsia, dalla prima all’ultima. Sapeva che le immagini e la fedina penale erano veritiere, perciò dedusse cosa ne sarebbe stato di lui, anche se in quel momento stava insultando le guardie dall’altra parte della città.
«Qualcuno ti troverà morto molto presto, vero?» Si sporse verso lo schermo, sorridendo alla parola «presto». Era già accaduto, molto tempo prima.
L’avrebbero trovato morto, su questo non ci pioveva. Morto come i suoi occhi. Sorseggiò il caffè e pronunciò a bassa voce il nome del detenuto, separando le parole con brevi silenzi autocompiaciuti: «Maledetto. Jeffrey. Mason».