37
Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,
venerdì, 14 agosto 2043
Le luci del corridoio s’intensificarono e la porta a specchio si aprì. Entrarono due guardie, una delle quali rimase accanto all’ingresso stringendo il telecomando, mentre l’altra andava verso la cella di Mason.
Il prigioniero non si era neanche preso il disturbo di alzarsi.
«In piedi, girati, schiena contro le sbarre.»
Per la prima volta in vita sua, Mason non sapeva cosa fare. Sembrava che le cose stessero andando come aveva detto la donna, ma non poteva esserne certo. Cosa ci avrebbe guadagnato quella stronza aiutandolo? Lo odiava, il che gli regalava un immenso piacere. Forse era tutta una montatura, forse Miss Mutandine di Pizzo voleva che facesse qualcosa per indurre le guardie a far esplodere il dispositivo. Ma aveva scambiato i meccanismi, giusto? Rimase immobile sulla branda a riflettere, cercando di decidere il da farsi. Restò seduto un po’ troppo a lungo.
«Ho detto in piedi, stronzetto. Girati e appoggia la schiena contro le sbarre.»
Era una montatura. Doveva esserlo. Non avrebbe mai dovuto infilarsi nel didietro quel maledetto cavolo di coso che gli aveva dato la donna. L’avrebbero trovato anche se si fosse comportato bene, e poi l’avrebbero ucciso. Tuttavia, dubitava che lo avrebbero fatto fuori, non per un affarino di gomma inserito dove non batteva il sole.
Si alzò bofonchiando e si girò con la schiena contro le sbarre. Lanciò un’occhiata alla guardia davanti alla porta, che probabilmente stava sorridendo sotto la visiera mentre gli mostrava il pulsante col suo nome scritto in bianco su fondo rosso. Peccato che fosse il dispositivo sbagliato.
Oppure no? Che la donna li avesse scambiati un’altra volta, dopo essersene andata? Lei e quei due bellimbusti gli avevano forse organizzato un bello scherzetto per giocare al gatto col topo? Volevano forse staccargli le braccia e le gambe per una scommessa da due dollari? Oppure, volevano mettere alla prova il piccolo vecchio Mason, per vedere se fosse tonto come sembrava?
In mancanza di risposte e di opzioni immediate, obbedì agli ordini. I ceppi si chiusero con un clic e la guardia indietreggiò, con un cenno al collega che, a sua volta, digitò un codice, e le sbarre svanirono nel pavimento.
Mason si sentiva vulnerabile e, peggio ancora, era terrorizzato; aveva la pelle d’oca e un nodo allo stomaco. Si girò verso la guardia, tremando leggermente. «Dove vuoi portare Mason?»
«Cammina.»
«Dove vuoi portare Mason?»
L’uomo guardò il collega, assicurandosi che avesse il dito sul pulsante, e fece un passo avanti, con la visiera a pochi centimetri dal suo volto. «Sei già nella merda fino al collo, Mason. Ti consiglio di non peggiorare la situazione. Ora cammina, da bravo», disse con voce dura.
Sei già nella merda fino al collo, Mason.
Come aveva detto la donna. Nella merda, e lui non sapeva nemmeno cosa avesse fatto. Lei gli aveva detto che non poteva saperlo perché non l’aveva ancora fatto, ma l’aveva avvisato che stava accadendo qualcosa di grosso. Le cose avevano preso una piega che non gli piaceva affatto. Nossignore.
Avanzò e si girò verso la porta principale, con la guardia alla sua sinistra. Quindi, con un gesto fulmineo prese lo slancio, colpì l’uomo in pieno viso e lo spedì con violenza sul pavimento. Stubbs, che se ne stava seduto sulla branda fregandosene di tutto e tutti, si materializzò dietro le sbarre, con le nocche nere che impallidivano mentre stringeva l’acciaio e la testa schiacciata contro una fessura per vedere almeno un tratto di corridoio.
Il casco della guardia volò via, atterrando un paio di metri più in là, e l’uomo rimase frastornato per un secondo. Poi, alzò gli occhi verso il compagno e lo vide esitare, quasi non sapesse come reagire. Era una delle eventualità cui erano stati addestrati, ma si trattava di una vera emergenza o soltanto di una quisquilia, come la piccola zuffa tra Stubbs e Edison in mensa?
Ma, d’altro canto, Edison non era forse stato sgozzato? Possibile che il suo collega stesse per fare la stessa fine? Merda, fino a che punto era grave la situazione?
L’uomo che fino a poco prima aveva urlato gli ordini era steso sul pavimento, e Mason stava per colpirlo ancora, coi pesanti ceppi sollevati sopra il capo, così fu lui a decidere al posto del compagno. «Premi il pulsante. Premi quel cazzo di pulsante.»
«Sì, coglione, premi quel cazzo di pulsante. Fa’ saltare in aria quel figlio di puttana.» Stubbs sorrise. Ci sarebbe stato da divertirsi.
Trascorse un altro istante, ma alla fine la guardia obbedì. Mason si stava accanendo sull’altro uomo, percuotendogli la testa con la massiccia barra di acciaio che gli bloccava i polsi. Ogni volta chiudeva gli occhi, ma non prima di aver controllato una cosa: le spie rosse.
Erano spente.
Stubbs ebbe un brutto presentimento e abbassò lo sguardo. Aveva visto qualcosa con la coda dell’occhio, ma non sapeva cosa, e impiegò qualche istante a capirlo. Le spie rosse sui suoi polsi si erano accese; girò le braccia e le fissò incredulo. Infine, urlò come un forsennato: «Ehi, hai sbagliato pul…»
I quattro secondi erano passati e le detonazioni si verificarono in sincronia perfetta. Sei piccoli ordigni esplosivi su ciascun arto, collocati a distanze regolari e progettati per scoppiare come razzi in miniatura direttamente nella carne. Ci fu un debole lampo dietro il metallo e Stubbs strabuzzò gli occhi. Non poteva essere vero, doveva essere un brutto sogno. Invece, era tutto reale, perché vide le proprie mani cadere a terra, separate dal resto del corpo come in un film horror. E l’equilibrio? Che fine aveva fatto il suo equilibrio? Perché non furono solo le sue manone nere a cadere, ma anche lui stesso. Probabilmente sentì il dolore – così lancinante da essere inimmaginabile – due o tre secondi dopo essersi accasciato, quando guardò il sangue che, come vino, gli sgorgava dalle estremità. Era come se gli avessero non soltanto staccato le mani e i piedi, ma anche conficcato degli attizzatoi incandescenti nelle ferite.
Gridò a squarciagola.
Mason aveva smesso di picchiare la guardia e si stava trascinando lungo il corridoio, verso l’ascensore che portava in laboratorio. L’altro uomo sbirciò nella cella di Stubbs e vide un moncone nero riverso sul pavimento, con una pozza di sangue che si spandeva tutt’intorno. Intuì cosa fosse successo: aveva azionato il detonatore sbagliato. Ma com’era possibile? Immise di nuovo il codice della porta e corse verso l’altra uscita.
Anche Mason guardò l’altro prigioniero, che urlava e si contorceva in posizione quasi fetale, e non riuscì a trattenere un sorriso. Non rallentò, ma trovò il tempo per dire: «Scommetto che fa un male cane, vero, negro?»
Cosa aveva detto la donna? si chiese. Il codice. Gli aveva suggerito un modo per ricordarlo, l’aveva fatto sentire stupido, ma aveva promesso che avrebbe funzionato. Era una specie di espediente mnemonico o qualcosa del genere. Una posizione comoda per le persone che hai ucciso. Raggiunse il tastierino, pregando che non l’avesse preso per il culo. Altrimenti, di lì a dieci secondi Stubbs non sarebbe stato l’unico a dimenarsi sul pavimento senza mani né piedi, frignando come un poppante affamato.
Alzò le mani, ancora impedite dai ceppi. Una posizione comoda, ripeté nella mente. Sessantanove. Un bel modo per fare sesso. Per le persone che hai ucciso. Be’, anche i sassi sapevano che ne aveva fatte fuori quindici. Quel grassone del giudice l’aveva ribadito tre volte ai giornalisti cinque minuti prima di battere il martelletto. C’era quasi. Non piantarmi in asso proprio adesso, troia, pensò. Premette rapido i tasti, per quanto glielo consentì la libertà di movimento limitata. Sei-nove-uno-cinque.
La porta si aprì.
Non c’era tempo per riposare, perché fermarsi avrebbe significato morire. Cos’altro aveva detto la donna riguardo all’ascensore? Che le celle erano sigillate, perché c’erano degli uffici nell’edificio accanto. A prova di rumore, di bomba, d’acqua e di tutto il resto. Già, a prova di tutto. Anche di telecomando. Non funzionavano, non attraverso porte e pareti così spesse. Tuttavia, se ci fosse stata anche solo una fessura di un millimetro, quando la guardia avesse premuto il pulsante, sarebbe finito tutto.
Schiacciò il tasto di chiusura della porta. L’uomo cui le aveva date di santa ragione si lanciò verso di lui, scivolando sul pavimento viscoso col sangue che gli colava sulla fronte e gli entrava negli occhi.
La porta cominciò a chiudersi.
La guardia infilò le dita nello spiraglio. Giusto la punta insanguinata ma, se avesse azionato il detonatore, sarebbe stato sufficiente. Mason lo colpì con le mani incatenate, e il tintinnio dell’acciaio echeggiò tra le pareti dell’ascensore. Poi, udì la voce della seconda guardia.
«Spostati, Karl.»
Karl, era così che si chiamava il suo avversario. Il collega non voleva che restasse ferito nelle miniesplosioni, o che magari perdesse un dito a sua volta. Così i polpastrelli si ritrassero e la porta quasi si chiuse. Non abbastanza in fretta, pensò Mason; la guardia avrebbe avuto tutto il tempo di azionare il dispositivo e di ridurlo a una larva umana. Su, cazzo, chiuditi.
Poi, però, si udì un altro suono, qualcosa di simile alla plastica contro una superficie solida, come quando si fa cadere qualcosa. Già, era proprio ciò che era accaduto: quel coglione era così agitato che il portachiavi gli era scivolato tra le dita.
Mason non lo vide, ma l’uomo si buttò in ginocchio, prese il telecomando al primo rimbalzo e, con un movimento fluido, premette il tasto. Il suo compagno era seduto con la schiena contro l’ascensore, esausto. La porta si era chiusa. Riprovò. Niente. Gettò il portachiavi in fondo al corridoio e quello sbatté contro la parete, dopodiché rotolò nella cella 19.
«Le scale. Vado a prendere le armi.» Karl si tirò su e, dopo essersi precipitato fuori assieme al collega, afferrò due mitragliatrici da una rastrelliera ai piedi di una rampa e ne lanciò una anche all’altro. Corsero di sopra, coi grossi stivali che rimbombavano sui gradini di metallo.
Nel frattempo, Mason era già in laboratorio. Troppe cose da ricordare, ma non aveva alternativa. Sarebbero arrivati di lì a poco.
Okay, stanza spaziosa. Prima il banco di comando, quello grande vicino alle finestre. In fondo a sinistra, tasto BRACCIO. Alza la leva fino a POSIZIONE AUTOMATICA e premi il pulsante rosso. Poi vai al computer, aspetta… Merda, cosa devo schiacciare? ESC e INVIO, finché non compare la casella. Ora digita 187, poi ancora INVIO. Poi torna al banco di comando. Interruttore rosso con scritto PORTA, sulla sinistra.
La porta è aperta, ottimo. Il braccio scende verso la sfera, benissimo. Ora pulsante arancione 1, in alto a sinistra. Premilo. Dove diavolo è?
Studiò la console, disorientato. Quindi lo, o meglio, li vide al centro: due tasti arancioni, l’uno accanto all’altro. Quello a sinistra è il numero 1. Azionalo. Perfetto, il display digitale si sta alzando. Adesso preparati, perché la troia ha detto che, quando premi il pulsante arancione 2, hai meno di tre secondi per lanciarti a sinistra e superare la grande porta. Quello era il ritardo massimo consentito dal sistema. Tre secondi sono pochissimi quando si è liberi di muoversi, figuriamoci quando si ha una barra di acciaio da venti centimetri che blocca le gambe.
Inspirò a fondo, mise le braccia sopra l’interruttore e si preparò. Guardò il display digitale, che aveva completato la sua ascesa e si era fermato: 187. Udì un ronzio, ma non avrebbe saputo dire se fosse soltanto nella sua testa.
Sentì le guardie che salivano veloci le scale. Merda, merda e ancora merda. Non poteva più pensare, non c’era tempo. Azionò il secondo pulsante, quello a destra, e si tuffò a sinistra, girandosi sui piedi e cadendo all’indietro nella camera di equilibrio. Premette il tasto e il semicerchio che lo attorniava ruotò, così da dargli accesso al laboratorio.
Provò a respirare, ma invano; era come se l’ossigeno si fosse esaurito. Incespicò alla cieca. Vide l’altra porta spalancata e attraverso il vetro riconobbe Karl, con l’indice posato sul grilletto di una mitragliatrice. Non riusciva ancora a respirare e aveva l’impressione che l’aria gli tirasse la pelle.
Ci fu un urlo, il più forte che avesse mai sentito, e si domandò se fosse uscito dalla sua gola. Poi un bagliore accecante, più luminoso del cielo, e alcuni lampi più piccoli qua e là. Quelli, tuttavia, arrivavano dalla direzione di Karl e della sua mitragliatrice.
Rumori. Rumori forti, come vetri rotti. Non davanti o dietro, bensì ovunque, coi frammenti che tintinnavano sul pavimento come piastrine di metallo. Ma non soltanto vetro. No, c’era anche qualcosa di più spesso, di più pesante. Piastrelle di ceramica prese a martellate, forse, con le schegge che volavano da tutte le parti e una raffica di aria fredda che gli soffiava sul corpo.
Seguì la sensazione più calda e piacevole che Mason avesse mai provato in vita sua, come immergersi in una vasca bollente dopo una settimana al freddo.
E la luce. Molto, molto intensa. Quasi abbagliante, ma non tanto da impedirgli di guardarla direttamente. Si diede un’occhiata intorno: ogni cosa era candida, anche se ebbe la sensazione che ci fossero delle cose nascoste nel biancore; oggetti che conosceva, ma tutti immacolati. Enormi bidoni della spazzatura bianchi, con le ruote bianche, accanto a scatole di cartone bianco. C’erano anche porte bianche e quella che sembrava una scala antincendio. Si concentrò sugli scatoloni. Erano coperti di scritte, che però erano fatte solo di disegni. Simili a simboli. Orientali, forse. Giapponesi? Cinesi?
Dove cazzo era? Era vivo o morto? Non si era mai sentito vivo come in quel momento, ma, se era morto, doveva essere finito per sbaglio in paradiso. Percepì un calore che gli s’irradiava dal petto e dal braccio. Non un calore localizzato, però, ma fluido. Come melassa calda che gli scorresse sul corpo.
Ricordò che doveva fare una cosa per la donna. Una specie di «favore», e aveva a che fare col coso che gli aveva chiesto d’infilarsi nel culo: un pezzo di carta o roba del genere. Un nome scritto in cima e un numero. Una ragazza. Doveva trovarla. Mi sento debole. Era in un manicomio dal nome difficile: Oakdern? No, suonava male. Oddio, come mi sento debole. Che importanza aveva? Stava fuggendo e non si sarebbe più lasciato prendere dal panico. Per quanto potesse sembrare incredibile, sarebbe stato al sicuro. Libero. Per tutto il tempo del mondo. Avrebbe potuto pensarci allora. Perché non riesco a respirare? Dopotutto, forse avrebbe potuto consegnare quel coso. In fondo la donna l’aveva salvato, giusto? E, comunque, gli aveva detto come uscire dalle celle, l’aveva liberato. Oddio, cosa mi sta succedendo?
Ogni cosa era bianca. Di un bianco splendente, che diventava ogni secondo più candido, annebbiando i dettagli più piccoli degli oggetti che lo circondavano. Finché non rimase nulla, se non il bianco più puro.
Mason, rannicchiato sulla pietra fredda del vicolo dietro il supermercato cinese Mister Yang, era morto.