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Tra 5th Street e Alameda Street, Los Angeles,

martedì, 11 agosto 2043

«Il nostro Agnello ha vinto, seguiamolo.»

La storia di Josef Klein che Alison aveva riassunto in poche parole quando aveva deriso le idee dei colleghi non era del tutto esatta. I genitori di Klein erano emigrati negli Stati Uniti e lui aveva studiato al MIT, ma non «subito dopo la seconda guerra mondiale». All’inizio, con l’aiuto delle autorità, la sua famiglia si era trasferita nel Regno Unito. Il governo britannico, come quello americano e quello russo, era stato impaziente di assumere scienziati, ingegneri e, quel che forse era più preoccupante, genetisti del Reich caduto. Per quanto riguardava il perfezionamento dei sistemi a propulsione, i politici erano stati ansiosi soprattutto di ricollocare chi aveva dato un contributo importante al programma missilistico V2. Forse il Regno Unito non era riuscito ad assicurarsi i servigi di Wernher von Braun (ideatore del V2 e poi collaboratore della NASA), ma con Johann Krass, il cinquantatreenne Dietrich Klein e con Erik Valk si era accaparrato rispettivamente il secondo, il terzo e il quarto tra i migliori scienziati disponibili.

Neanche a dirlo, Krass, Klein e Valk erano nazisti fin nel midollo, con tanto di tessera del partito e camicia bruna, ma, come von Braun, erano nazisti molto utili e, nella cruda luce della pace, incentivare i loro piani era parso una linea d’azione più efficace che condannarne gli ideali. Durante la guerra fredda, il romanzo 1948 era stato rinominato 1984 (perché la prima data era già passata) e, secondo l’insegnamento di un’altra opera orwelliana, tutti coloro che erano stati uguali volevano essere un po’ più uguali degli altri. In particolare, tutti volevano vincere la corsa allo spazio.

Il cognome Klein era stato trasformato temporaneamente in «Cain» (per un certo periodo, Dietrich si era sentito importante come Lord Mountbatten), erano stati emessi nuovi documenti d’identità e, per dare un po’ di stabilità alla famiglia (che era già stata sradicata tre volte, due delle quali niente meno che dal Führer in persona), «Joe Cain» era stato iscritto al Fellbeck, un collegio moravo nell’Inghilterra settentrionale.

Il movimento della Chiesa morava era stato fondato nel XV secolo nell’attuale Repubblica Ceca. Gruppo debole dagli ideali forti, era stato perseguitato durante la Controriforma e di conseguenza era sopravvissuto per poco più di cent’anni. La Chiesa rinnovata aveva visto la luce solo nel 1727, quando i rifugiati moravi avevano ottenuto dal conte Nicholas il permesso d’insediarsi in Sassonia, vicino al confine con la Polonia. Era là che erano nati e cresciuti Dietrich Klein, suo padre, il padre di suo padre e tutti i padri prima di lui. La colonia aveva preso il nome di Herrnhut, cioè «sotto la protezione del Signore».

Era stato da là, e sotto quegli auspici, che la Chiesa aveva iniziato a diffondere il suo semplice messaggio. E, per un’istituzione all’apparenza così piccola, lo fece in modo piuttosto efficace.

L’obiettivo del conte Nicholas e del suo gruppo eterogeneo non era fare dei moravi una Chiesa a sé, bensì formare società all’interno delle confessioni più tradizionali e costruire dall’interno. Era un’ambizione che Josef aveva sempre ammirato. Anzi, per tutta la sua carriera aveva usato la stessa tecnica, con ottimi risultati. Non provare mai a competere direttamente, ma entra, ascolta, impara, sodalizza e, poi, supera. La KleinWork Research Technology aveva stretto alleanze con le aziende e i governi più importanti del mondo e attinto da quelle istituzioni, perciò era fondata anch’essa sulla filosofia morava.

Ogni domenica pomeriggio, nei mesi di scuola, Klein e più di altri trecento alunni erano stati costretti a frequentare una piccola cappella nella proprietà del collegio. Per molti di loro era una delle uniche tre occasioni settimanali in cui potevano mescolarsi (seppur da lontano) con le ragazze della vicina scuola femminile; le altre due erano le ore di ginnastica il sabato e il martedì sera, quando i campi da gioco venivano usati da entrambi gli istituti. Klein non aveva mai provato un grande interesse per l’altro sesso. Era un ragazzino timido e dinoccolato, gentile coi compagni ma poco incline a fare amicizia, ed era più facile trovarlo intento a leggere un libro che a cacciarsi nei guai. Così, ogni settimana, per tre anni, si era limitato a obbedire alle istruzioni, sedendosi quasi nello stesso posto, davanti alla stessa iscrizione. Quella che, alta circa due metri e mezzo, circondava l’immagine istoriata di un agnellino con un pretenzioso stendardo su cui spiccava una croce rossa. Aveva letto le parole una volta dopo l’altra, fino a imprimersele nella testa in modo indelebile: «Vicit Agnus noster, eum sequamur. Il nostro Agnello ha vinto, seguiamolo».

Sin da piccolo, Josef Klein (o Joe Cain), il cui padre era stato fervido sostenitore del leader più potente nella storia della Germania – un uomo scelto da Dio per guidare e riformare il mondo conosciuto, per poi fare l’impossibile e fallire –, aveva sentito un’affinità verso quelle parole. Erano cariche di significato, si rivolgevano direttamente a lui, e gli dicevano non soltanto che «vincere» era una buona cosa, un’azione degna di rispetto, ma pure che l’animale più mite, come il fragile e studioso giovane Klein, era capace di simili successi. Inoltre, dicevano che, quando avesse vinto, gli altri l’avrebbero seguito. Sarebbero stati chiamati a seguirlo.

Durante la sua ultima estate al Fellbeck, era stato in quella stessa cappella, pigiata come una barricata di pensieri virtuosi tra il collegio maschile e quello femminile, che Josef aveva deciso che, probabilmente, Dio non esisteva. O che, se esisteva, non aveva nessun potere, perché, come uno stupido, l’aveva ceduto alle creature dotate di libero pensiero. Era la fine di giugno, il mondo era come era sempre stato, e in cielo brillavano gli ultimi raggi di un sole che, già tinto di rosso, filtrava dalle finestre alte, con leggeri vortici di polvere che, attraversando i vetri colorati, esplodevano in un arcobaleno.

Era un bravo ragazzino e cercava sempre di essere educato, sia per non disonorare la famiglia sia perché, su richiesta del padre, aveva promesso di non attirare l’attenzione, per evitare che qualcuno scoprisse le sue origini tedesche. Non era ancora il 1970 e nessuno s’insultava con termini come «bastardo» o «stronzo». E, a pensarci bene, perché avrebbero dovuto, quando i britannici ritenevano che Kraut (crucco) fosse l’epiteto più offensivo?

Quella domenica, Klein era andato alla cappella con gli altri. Aveva soddisfatto i tre criteri principali: frequenza, puntualità e aspetto inappuntabile. Si era fatto strada verso il centro della terza fila assieme agli altri dodicenni e i suoi capelli biondicci avevano occupato il solito posto tra gli arazzi variopinti.

Di lì a poco, quel lampo ocra chiaro era sparito e, tra chi era incaricato di sorvegliare i ragazzi, la sua assenza improvvisa e inspiegabile non era passata inosservata.

Nel giro di cinque minuti, Klein aveva avuto il primo dei molti crampi invalidanti allo stomaco che l’avrebbero perseguitato per tutta la vita, il sintomo iniziale del morbo di Crohn, per cui, ancora adesso, prendeva alcuni immunomodulatori. Era rimasto quasi paralizzato per il dolore, come se un nido di serpenti dalla schiena affilata avesse cominciato a contorcersi nel suo ventre. Mentre gli altri alunni ascoltavano attenti il ministro, si era messo la testa tra le gambe, col viso contratto e coi denti stretti. Quando gli altri si erano alzati per cantare gli inni, con le spalle diritte e il mento sollevato verso il Signore, lui aveva tenuto il capo chino, mentre le lacrime gli gocciolavano sulle scarpe lucide.

La vendetta di Dio non era mai arrivata. Soltanto quella dell’uomo. Forte e chiara.

Dopo la funzione, Klein aveva deciso di saltare la cena, sebbene i pasti (così come le cerimonie nella cappella) fossero obbligatori, e di ritirarsi nel dormitorio. Aveva appoggiato la testa sul cuscino, con le gambe sollevate, e pregava qualunque dio lo stesse ascoltando di attenuare il dolore. Era là da non più di un quarto d’ora, quando Martins, uno studente dell’ultimo anno, si era materializzato ai piedi del letto con un sorriso malizioso. Klein era stato convocato dal preside Chamberlain, aveva annunciato. Un invito funesto.

Chamberlain era un uomo molto occupato, con cinquecento alunni da tenere d’occhio (compresi quelli che non dormivano nell’istituto) e un milione di cose da fare. Era troppo impegnato per perdere tempo a congratularsi coi suoi pupilli, perciò l’ordine di presentarsi «da Chamber», come era stato soprannominato, di rado era buon segno. Il più delle volte, era cattivo.

Molto cattivo.

Klein, straziato dal dolore, aveva cercato invano di alzarsi, e Martins l’aveva afferrato per i capelli e l’aveva buttato sul pavimento. Poi, come se stesse sollevando un sacco di patate, aveva tirato su il ragazzino urlante.

Per la prima rampa di scale era stato preso a calci, trascinato lungo la seconda e aveva pianto per tutta la terza.

Chamberlain era un tipo alto e smilzo, con minuscoli occhiali dalla montatura metallica e coi capelli grigi tirati indietro. La sua vita era guidata da due cose: la Bibbia e il bastone, con una propensione malsana per il secondo. Più «vecchia scuola», forse, della venerabile istituzione che dirigeva con tanta determinazione. Quanto alla Chiesa, c’erano tre requisiti che Klein aveva soddisfatto quel pomeriggio, ma, per quel che riguardava Dio e Chamberlain, ce n’era un quarto cui conformarsi senza eccezioni: il rispetto. «Guai a coloro che non ne hanno.» A quanto pareva, se il rispetto fosse venuto a mancare, la paura avrebbe tranquillamente potuto prendere il suo posto. A quello scopo, il preside aveva un grosso bastone in legno di Malacca marrone scuro, posato su perni di ottone, dietro la scrivania. Era liscio e lucido nella parte centrale di una delle due estremità, a indicare che veniva usato spesso e che, per quelle occasioni, Chamberlain aveva una presa preferita.

Nei minuti successivi, nel silenzio quasi perfetto garantito dai pannelli di mogano e da numerosi classici di cui nessuno aveva mai letto neanche una pagina, Chamberlain aveva colpito forte i palmi di Klein, finché il ragazzo non si era convinto che la pelle morbida di cui erano ricoperti non sarebbe più stata la stessa. Per giorni avrebbe creduto sul serio che non sarebbe mai più riuscito a chiudere le dita.

A ogni bastonata, Chamberlain aveva recitato una serie di passi toccanti del Nuovo Testamento. Ma dov’era Dio, si era chiesto Klein, mentre gli veniva inflitta quella tortura? Dio il misericordioso, Dio il grande. Dio che era così onnipresente in questo mondo e nell’altro da vedere ogni singolo peccato. Se era così, di sicuro quel gigantesco occhio onniveggente sapeva anche quando un bambino era malato, e ne perdonava le trasgressioni. Lottando contro il dolore, aveva chiuso gli occhi e ripensato all’unico passo che aveva udito durante l’interminabile funzione. Marco, capitolo 2, versetto 10: «Il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati».

L’Agnello. L’Agnello aveva il potere di perdonare.

Come l’uomo, che, semplicemente, decideva di non usarlo.

Anziché inculcargli la bontà e la parola di Dio, ogni bacchettata, ogni fitta di dolore aveva allontanato sempre di più Dio dal corpo del giovane Klein. Si era reso conto che la colpa non era della religione, e nemmeno della fede in un essere superiore, bensì delle regole stabilite dall’uomo in suo nome. «Non fare ciò che io non abbia deciso.» Regole che spuntavano dal nulla e che sarebbero tornate da dove erano venute se e quando la fine dei tempi fosse scesa come nebbia e come una pestilenza si fosse diffusa sulla superficie del mondo.

Gli uomini di Dio sostenevano di avere le risposte a tutto. Non le rivelavano mai agli ingenui, è naturale, perché cos’erano i bisognosi, una volta che il bisogno era stato placato? Anzi, aveva pensato Klein, forse i sacerdoti, i ministri e i vescovi non avevano nessuna risposta. E se in realtà avessero avuto soltanto promesse irrealizzabili? Abbi fede, figliolo. Abbi fede, ma non chiedere mai e poi mai delle prove.

Se la redenzione aveva un colore, quello era l’arancione: come una carota appesa a un lunghissimo bastone.

Quella notte, mentre era steso sul letto, coi palmi aperti che sanguinavano sulle lenzuola, Klein aveva capito una volta per tutte che Dio non rappresentava il potere in questo mondo, Dio non avrebbe mai potuto essere il potere, perché era invisibile. Nelle giuste circostanze, persino l’elettricità, la cui capacità di produrre luce veniva sfruttata dall’umanità più di quelle di Dio e del sole messe assieme, poteva essere resa visibile nella sua forma pura. Dio poteva essere ringraziato quando filava tutto liscio, o incolpato quando qualcosa andava storto, ma sarebbe stato impossibile dimostrare che qualcosa fosse accaduto per sua volontà. Perciò, se un uomo era un uomo di Dio, pretendeva che gli altri credessero alle sue parole senza metterle in dubbio. Se era un sacerdote, teneva in pugno una congregazione.

D’un tratto, negli occhi di Klein, alle lacrime si era unita la chiara consapevolezza che i ministri «ordinati» – vescovi e sacerdoti – non erano migliori dei predicatori televisivi dei canali a pagamento, uomini intelligenti – in apparenza – per trovare e custodire le risposte, ma mai abbastanza per ricordare che, quando esortavano gli spettatori a «inginocchiarsi e pregare», la parola «pregare» aveva le prime lettere «re» al posto della «a».

Le persone erano pecore disposte a seguire ciecamente chi aveva le risposte. Forse, era necessaria una certa opera di persuasione, ma talvolta, quando le pecore ricevevano le risposte giuste, si lasciavano convincere persino a seguire gli Agnelli.

Un bambino di dieci anni con gli occhi azzurri, i capelli biondicci e col desiderio di riuscire in almeno alcuni degli ambiti in cui il Führer e suo padre avevano fallito, aveva deciso che, se Dio non avesse dato al mondo le risposte di cui aveva un disperato bisogno, forse gli scienziati ne sarebbero stati capaci.

«Il nostro Agnello ha vinto, seguiamolo.»

Sarebbe diventato scienziato. Avrebbe fornito le risposte, e il mondo lo avrebbe amato per quello. L’avrebbero seguito ciecamente.

Inchiodato su una sedia a rotelle, i capelli biondi ormai sostituiti da rade ciocche grigie, all’inizio dell’anno Klein aveva preferito radersi del tutto, restando calvo e accentuando la severità dei lineamenti spigolosi.

Sedeva nel suo ufficio, una stanza triangolare che comprendeva una parete di vetro fumé grigio-azzurro, situata all’ultimo piano della KleinWork Tower.

Stava studiando un fascicolo digitale proiettato sulla lastra di cristallo di cui era fatto il retro della scrivania. Sorrise, e profonde rughe gli solcarono le guance scarne e abbronzate. Le risposte erano a portata di mano. Negli ultimi anni non aveva più sentito il gusto del cibo sulla lingua, ma aveva sentito loro. Avevano proprio il sapore del futuro: dolce e metallico.

Montata su un piedistallo di titanio alto otto centimetri, una granulosa saponetta di grassi animali raffinati faceva bella mostra di sé sulla scrivania. Benché il grasso animale fosse stato soppiantato dal carbonato di sodio già alla fine dell’Ottocento, la saponetta era intatta, come se fosse stata prodotta e venduta quel mattino. Un messaggio scritto su carta ruvida, pesante e costosa, fatta di pasta di legno – «Mani pulite ora?» 10 settembre 1852 (mattina) – e un rozzo schizzo del tatuaggio di Castle erano appesi in un portafoto senza cornice dietro la scrivania, l’unico oggetto fissato alle due pareti rivestite di pannelli scuri che non fosse una proiezione digitale retroilluminata e che non si dissolvesse in una nuova immagine a intervalli di mezz’ora.

La saponetta e il biglietto erano stati trovati nella scatola di legno, assieme a cinque pallottole autentiche del XIX secolo – un caricatore pieno per un revolver Paterson del 1836 – e una fotografia sfocata color seppia, ricavata da un negativo al collodio umido, un’altra procedura ormai in disuso.

L’immagine, che raffigurava una fattoria spartana attorniata da erba rinsecchita, mostrava Castle, con la barba lunga, assieme a quelle che probabilmente erano sua moglie e sua figlia. Da una verifica accurata dei documenti catastali e storici, era emerso che Greg Castle doveva essere diventato Gerald Castell, un falegname di frontiera che aveva vissuto con la famiglia circa trecentoventi chilometri a nord-est del punto in cui era stata recuperata la scatola. Era verosimile che il nuovo cognome fosse una semplice corruzione derivante da una pronuncia errata, data la lingua parlata dell’epoca, e che il nome di battesimo fosse stato un vano tentativo di scalata sociale all’interno di una comunità che l’uomo non conosceva appieno. Aveva acquistato il podere nel 1867 ed era rimasto là fino alla morte, avvenuta nel 1898 a causa di una malattia descritta soltanto come «una grave infezione». Stando alle testimonianze, si era spento a settantadue anni.

Quando Alison entrò a passo deciso, Klein chiuse il fascicolo e alzò gli occhi. «Volevi vedermi», esordì la ragazza. Era un’affermazione, non una domanda.

Puntuale come un orologio e capace di andare subito al sodo, come sempre, pensò Klein. «Accomodati.»

La giovane si sedette e accavallò le gambe, con la gonna che le saliva appena sopra le ginocchia sotto il camice bianco.

«Vorrei che svolgessi qualche ricerca per me.»

«Mi stai escludendo dal Sequence?» Sembrava stupita, ma in realtà non lo era. Forse, non aveva capacità extrasensoriali, ma, dato l’atteggiamento che sin dall’inizio aveva avuto verso il progetto, non erano necessarie doti fuori del comune per notare qualcosa di così prevedibile.

«Niente affatto.» Con fare pensoso, Klein unì le mani davanti al viso. «Al contrario. Questo incarico è parte integrante del progetto, perciò devo affidarlo a un membro del team.»

«Perché io?» Alison pareva irritata dal fatto che l’unica donna della squadra potesse diventare un’assistente alle ricerche. «Non sono una ricercatrice. Faresti meglio a rivolgerti a qualcuno come Haga, che…»

Klein scrollò il capo, poi si voltò e si spostò verso la finestra, ammirando la New Los Angeles. Da quando l’ufficio centrale della KRT era sorto su quei cinque acri di terreno bonificato, erano stati costruiti tre grattacieli d’oro e di vetro, che con la loro fastidiosa presenza ostruivano la vista delle colline.

«A essere sincero, penso che tu sia l’unica all’altezza del compito.»

Alison era sconcertata. Le ricerche erano ricerche, giusto? E lei non aveva accesso privilegiato alle informazioni. O almeno non a quanto ne sapeva. «Non capisco.»

Klein rifletté. «Non si tratta di semplici ricerche. Voglio qualcuno capace di comprendere ciò che scoprirà, e forse addirittura di trarre delle conclusioni. Mi servono risposte, Alison, e mi servono molto presto, temo.»

«Quanto presto?»

«Entro venerdì.»

«Cosa succede venerdì?»

«Parto per la Francia.»

«Per la Francia? Che diavolo ci vai a fare?»

Klein puntò lo sguardo fuori della finestra, oltre la città. Era arrivato il momento in cui doveva essere sicuro al cento per cento della discrezione della sua collaboratrice. Si domandò se potesse essere certo della discrezione di qualcuno, a parte la propria, ma, se non fosse stato così, quel giorno non avrebbe invitato la ragazza nel suo ufficio, non è vero?

«Lavorerò a Cardou per qualche settimana.»

Alison era perplessa, cosa che accadeva di rado. Sapeva di Cardou, o almeno sapeva ciò che sapevano tutti gli altri alla KRT: era il terreno acquistato dal governo degli Stati Uniti alla fine del secolo precedente. Klein aveva lavorato laggiù in passato, sfruttando le proprie competenze scientifiche per offrire consulenze in un sito archeologico. Ma non era stato rinvenuto nulla, e alla fine la proprietà era stata ceduta alla sua società, che la usava per scopi assai meno interessanti.

«Ma non c’è niente laggiù, a parte il nostro ELRC.» Alison si riferiva allo European Livestock Research Centre (Centro europeo di ricerca sul bestiame) della KRT. Era una piccola struttura ubicata su acri di aperta campagna, popolata soltanto da tre uomini, quindici mucche con una produzione di latte più alta della media e da alcune pecore il cui vello, con un po’ di lavoro, sarebbe forse cresciuto un po’ più velocemente del normale.

Klein aveva un’espressione seria. Si guardò intorno, lanciò un’occhiata fuori della finestra e poi verso Alison, ancora pazientemente in attesa di una risposta. I suoi occhi si posarono ovunque, ma la giovane non capì cosa stessero vedendo. Non ancora. Lui accennò al fascicolo posato sulla scrivania e rilegato in plastica rossa traslucida. «È tutto nel dossier.»

Lei non lo prese. Intuì che le stava nascondendo qualcosa; forse i suoi sensi non erano più sviluppati di quelli di Klein, ma sbagliavano di rado. Sapeva che in quelle pagine avrebbe trovato solo fatti, non risposte. «Cosa sta succedendo, Josef?»

«Sei mesi fa abbiamo trasferito l’ELRC in Inghilterra e ristrutturato l’edificio a Cardou. Abbiamo creato una stanza ermetica con le pareti rivestite, potenziato la fornitura elettrica e aggiunto una pompa da vuoto. Venerdì il laboratorio entrerà in funzione, e vorrei essere presente», spiegò Klein a bassa voce, come se stesse confessando un peccato.

Alison capì. Un altro sito, un sito europeo. Un luogo da cui i «topi» sarebbero stati mandati indietro nel tempo senza il rischio che si ritrovassero in un ambiente desolato, popolato soltanto da nativi americani.

Ricordò con una fitta di dolore le parole che aveva pronunciato durante la riunione. Probabilmente in Europa… Ecco cosa aveva fatto Klein: tra le numerose proprietà che la KRT contava in tutto il mondo, aveva trovato la sede ideale per perseguire i suoi ridicoli obiettivi.

«Hai spedito la seconda sfera. È per questo che ne hai tagliate due prima di distribuire il resto. Avevi programmato tutto», disse Alison, mentre rifletteva sulle conseguenze.

«No, all’epoca non ancora. Ma Dio agisce in modi misteriosi, vero? Ho ritenuto opportuno conservare una piccola riserva; se non l’avessi fatto, avrei sempre potuto prendere la sfera al piano di sotto. Però la prudenza non è mai troppa, e ora sembra che non sia necessario.»

Alison andò alla finestra, da dove senza dubbio vide un panorama diverso da quello che aveva ammirato il suo datore di lavoro. Vide il mondo com’era quel giorno. Quel pazzo di Klein, invece, lo vedeva altrove, in un luogo in cui voleva guidarlo in prima persona.

Alison si voltò di scatto. «Cosa stai cercando veramente, Josef?» C’era qualcosa di molto specifico in quella faccenda, e quella era la ragione per cui il vecchio aveva bisogno che lei svolgesse alcune «ricerche». Voleva che trovasse qualcosa. Non una cosa qualsiasi, bensì qualcosa di preciso.

Klein le rivolse un’occhiata che sembrava quasi di scusa. «Sei sempre stata molto perspicace. Se ben ricordo, è una delle qualità che hai dimostrato all’epoca della NorthStar.» Accennò un sorriso e trasse un lungo respiro sibilante. «In realtà, ho cercato qualcosa per tutta la vita, e ora la vita sta per finire. Poi, all’improvviso, come un dono di Dio, ho l’opportunità non soltanto di trovarlo, ma anche di essere il motivo per cui non l’ho mai trovato prima. È quasi come se Lui volesse che lo trovassi, come se in qualche modo fossi benedetto.» Guardò il fascicolo e strinse le palpebre come a voler leggere le parole all’interno. «Chissà, forse sono l’ultimo dei Templari.»

Alison lottò duramente per controllare i propri pensieri e le parole che avrebbero potuto derivarne. Che ne sapeva Klein di Dio? In che misura credeva in lui? Poco o nulla, forse, eppure eccolo là, col corpo indebolito dall’ictus e con la mente ottenebrata, a parlare di «benedizione» e a definirsi un «Templare», come se l’eterna ricerca del potere e del profitto fosse diventata una specie di crociata distorta.

«Cosa stai cercando? A cosa vuoi che trovi le risposte?» domandò, calma.

«Il nostro Agnello ha vinto», mormorò Klein. Poi, alzò gli occhi e Alison vide la luce che gli ardeva nelle pupille, il suo ultimo guizzo di vita. «A tutto. Non capisci? Voglio che trovi le risposte a tutto», dichiarò criptico, con la passione che infondeva una breve iniezione di energia alla sua voce stanca.

La Teoria Dell'eternità
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