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Quarantadue chilometri a nord del Fort Tejon State Park, California,
domenica, 12 giugno 2011
Una ventina di chilometri dopo che avevamo lasciato l’interstatale 5, Sarah smise di sventolarsi con la mappa, abbassò lo sguardo e, poi, lo rialzò con aria trionfante. Mi chiese di prendere la prima strada a destra. Da parte mia, non vidi nessuna strada, soltanto lo stesso interminabile nastro d’asfalto su cui viaggiavamo da venti minuti, che si allungava all’infinito come se stesse cercando il confine del mondo. Continuai a guardare. E guardai ancora.
«Qui», disse d’un tratto, come se avessi la svolta sotto il naso.
Premetti il pedale del freno e inchiodai, con gli pneumatici che slittavano sulla polvere, e mi diedi un’occhiata intorno. Un paesaggio desolato, il nulla più assoluto. Niente alberi, pochissimi cespugli e una distesa perfettamente piatta, con le sagome scure delle uniche colline che si stagliavano in lontananza. C’era una strada laggiù, certo, ma una sola, e si sarebbe detto che ci fossimo già sopra. Poi, alla mia destra, distinsi una serie d’impronte di gomme appena visibili, che si dirigevano verso la boscaglia, verso gli abissi soffocanti del nulla.
«Vuoi scherzare? Questa non è una strada, Sarah. È… ecco, è… non è una strada, questo è poco ma sicuro.»
Sorrise. «Andrà benissimo.»
La imboccai e ci avviammo non so dove. Non ne avevo idea, e non osai neppure tirare a indovinare.
«Allora credi davvero che i viaggi nel tempo siano fattibili?» domandai, quando il silenzio diventò insopportabile.
«Sì, altroché.»
Scossi la testa. C’erano moltissime cose a questo mondo che erano state impossibili e che poi si erano trasformate in realtà: il volo, i viaggi spaziali, con l’eventuale eccezione degli allunaggi, io che mi appassionavo a un caso, come era accaduto in quei giorni. Ma non i viaggi nel tempo. Quelli erano destinati a comparire per sempre nella categoria «fantascienza» in quasi tutte le biblioteche del pianeta.
Come le mie promesse matrimoniali.
«Certo, ci sono alcune situazioni che mi piacerebbe riesaminare», dissi. Fu soltanto un commento ozioso, che non riguardava Sarah né nessun altro in particolare.
Tuttavia, lei prese la palla al balzo. Girò la testa di scatto. «Come hai detto?»
«Errori.» Alzai un po’ la voce. «Stavo pensando che forse potrei tornare indietro a correggerne qualcuno.»
«Temo che non funzioni così.» Bevve un sorso di Budweiser e distolse lo sguardo.
«Perché no?»
«Non si può, punto e basta. Se è successo, è successo e, se no, mi dispiace molto, ma di sicuro non accadrà.»
«Non è giusto.» Parole strane, dette da un uomo che non crede in certe cose.
«Non sono io a stabilire le regole.»
«Allora chi? Il cervellone nel cielo?»
«Immagino di sì.»
«Dunque, a parte diventare uno sport molto popolare, a cosa servirebbero i viaggi nel tempo?»
«Me lo sono chiesta anch’io. L’unico scopo sarebbe cambiare alcune cose.»
«Hai appena detto che non si possono cambiare le cose.»
«No, ho detto che non si può cambiare il passato. Non ti degni mai di ascoltare?»
«Solo finché non perdo il filo del discorso, che tra parentesi…»
«Okay, diciamo che il tempo è un tappeto, come quello rosso che si stende alla prima di un film, d’accordo?»
Annuii.
«Si srotola alla velocità del tempo. Un secondo al secondo. Noi, la razza umana e tutte le creaturine pelose, sappiamo soltanto cos’è accaduto nel passato. Non possiamo prevedere cosa ci riserverà il futuro, perché è ancora arrotolato. Fin qui mi segui?»
Allontanai la bottiglia dalla bocca, versandomi la birra sul mento. «Penso di sì.»
«Dunque, se è così, dobbiamo ipotizzare che, per quanto riguarda la nostra posizione sul tappeto, camminiamo subito dietro il rotolo, lo seguiamo da vicino.»
«Sembra ragionevole.»
«Quindi il tappeto che è già stato steso è… già stato steso. Non si può cambiare il modo in cui è stato srotolato perché, se una persona viaggia a ritroso nel tempo, ci sono ancora milioni d’individui dietro il rotolo che si voltano a guardare ciò che è stato steso. Hanno libri di storia e/o ricordi che non si possono modificare.»
«Tutto chiaro, tranne la parte sul cambiamento.»
«Okay, supponiamo che una delle persone dietro il rotolo voglia lanciare qualcosa più avanti, in modo che di lì a poco il tappeto ci passi sopra e si crei una protuberanza. Ma non può, perché il rotolo è enorme e l’angolazione è troppo ripida.»
«Così fa qualche passo indietro, trova un’angolazione migliore e getta il sasso?»
«L’influenza del passato sul futuro funziona più o meno così. Il fatto è che non si può lanciare un sasso nel futuro, ma si può seppellirne uno nel passato affinché venga dissotterrato nel futuro.»
«E perché si dovrebbe fare una cosa simile?»
«Perché nel mondo i sassi scarseggiano. Stiamo parlando per analogie, Nick.»
«Lo so. Volevo sapere perché qualcuno dovrebbe seppellire qualcosa nella speranza che in seguito venga dissotterrato.»
Rifletté per un istante, col respiro affannoso. «Immaginiamo che tua nonna sia in punto di morte e che il suo unico desiderio sia morire indossando la sua prima fede nuziale, quella che ha smarrito cinquant’anni fa.»
«Okay.»
«L’anello è introvabile, perché nessuno l’ha mai visto per tutto questo tempo. Ma tu vuoi che la cara nonnina muoia felice, così pensi: Torno indietro e glielo rubo.»
«Rubarglielo? E perché mai? Voglio dire, se le volessi davvero bene…»
«Proprio perché le vuoi bene. Non capisci? La fede è scomparsa e tu non puoi farci niente. Ma puoi diventare la ragione per cui è andata smarrita. Torni indietro di cinquant’anni e la seppellisci in un luogo che non è mai stato controllato da nessuno, ma dove sai che la nonna scaverà una buca, diciamo, cinque minuti dopo la tua partenza.
«Così la nonna fa per piantare un albero e, oplà, l’anello spunta fuori dal terriccio. Lo raccoglie, se lo infila al dito e, poiché le va ancora bene, muore felice.»
«In sintesi, non si può cambiare nulla di quanto è accaduto fino alla propria partenza, ma si può viaggiare indietro nel tempo con l’intenzione di cambiare qualcosa che accadrà dopo?»
«Esatto. Oltre il rotolo di tappeto.»
«Quello rosso?»
«Sì.»
«E, benché questo ti faccia sembrare pazza, non provi il minimo imbarazzo ad affermare che lo ritieni possibile?»
«Anche tu hai ammesso che potrebbe esserlo.»
«Sì, ma ho mentito. Soprattutto per tenerti alla larga dalla mia indagine.»
«Il che m’induce a domandarmi se ci sia qualcosa in cui non fallisci.»
Pregai che stesse scherzando.
Immagino che l’unica ragione per cui la Taurus non perse altri pezzi mentre parlavamo fosse che aveva ufficialmente esaurito le cose da gettare via in segno di disgusto. Tuttavia, continuò a sobbalzare, slittare e cigolare. E l’afa? Cavolo, la brezza che entrava dal finestrino scassato sembrava un termoventilatore, di quelli che si usano per riscaldarsi le dita dei piedi, non per rinfrescarsi la faccia.
Ventiquattro chilometri. Controllai l’orologio. Era quella la distanza che avevamo percorso dalla strada principale. La strada vera, quella fatta di asfalto. Secondo i miei calcoli, eravamo a meno di trenta chilometri dalla riserva degli indiani mojave, forse il luogo più isolato nel suo genere in tutti gli Stati Uniti.
D’un tratto, la pista s’inclinò bruscamente e cominciò ad attraversare un lago asciutto, un’altra immensa distesa monotona.
Sarah tolse il Magellan dalla scatola e inserì la batteria; premette un pulsante sul davanti e l’apparecchio emise un forte bip. Assomigliava a un cellulare fuori misura, con lo schermo retroilluminato e cinque o sei tasti in fondo, quattro dei quali disposti a freccia. Sul display a cristalli liquidi c’erano una mappa tratteggiata alla bell’e meglio e alcuni numeri.
Molti numeri.
Per me non avevano nessun senso. «Cos’è quell’aggeggio?»
L’auto traballò quando la strada iniziò a scendere, all’apparenza destinata a correre per tutta la larghezza del lago.
Per poco Sarah non lasciò cadere il dispositivo, ma non staccò mai gli occhi dallo schermo. «GPS», rispose, quasi indifferente. «Ci dice la nostra posizione esatta sul pianeta.»
«Cosa sta dicendo in questo momento? ’Chissà?’ ’Smarriti?’ ’A casa del diavolo?’»
«No, dice: ’Ferma la macchina, detective Lambert, perché Sarah vorrebbe scendere’.»