27
In viaggio verso la Francia,
venerdì, 10 giugno 2011
Odio volare. Non mi stancherò mai di ripeterlo. L’ho sempre odiato. Non solo il decollo e l’atterraggio, che statisticamente sono le fasi del volo in cui è più probabile lasciarci le penne, un momento che rappresenta appena il quattro per cento del viaggio complessivo. Più l’aereo si fosse avvicinato al suolo, più rapidamente mi avesse riportato sulla terraferma, e più sarei stato contento.
A non andarmi proprio giù era la consapevolezza che, mentre mi guardavo i piedi, non c’erano che alcune lastre di metallo spesse un centimetro e mezzo tra le suole delle mie scarpe, diecimilaseicento metri e otto lunghissimi minuti e mezzo di morte certa, durante i quali – nei momenti in cui fossi stato cosciente – avrei messo in imbarazzo il mio futuro cadavere in tanti modi, non soltanto urlando come un forsennato.
La spia della cintura di sicurezza si spense, la cintura rimase allacciata e ordinai un drink. Con fare pigro, Sarah aggiunse un po’ di panna light al caffè. «Dimmi, detective, perché non sei un bravo detective?»
Evitai di guardarla negli occhi.
«Ieri sera, in macchina, hai detto che non sei un bravo detective, che ti rifilano gli incarichi più schifosi perché non importa se combini qualche casino. Allora, come mai combini casini?»
Fissai il drink. La risposta roteava nel bicchiere. «Succede e basta.»
«Deve pur esserci un motivo. Hai detto che fai questo mestiere da quando avevi ventotto anni. È impossibile che tu sia sempre stato una frana.»
«Infatti.»
«Cos’è cambiato?»
«Alcune cose.»
«Che genere di cose?»
«Non saprei.» Invece lo sapevo benissimo. «Tutto, suppongo.»
«Definisci ’tutto’.»
«È cambiato il lavoro. È diventato troppo veloce, troppo… ecco, tecnico, e non ho la minima idea di come funzioni un dipartimento di polizia moderno. Non capisco niente di computer o di sistemi.» Mi girai verso di lei. «Sai, abbiamo un sistema che si chiama ViCAP, utile per catturare i criminali violenti. Pare sia fantastico. Raccoglie informazioni a livello nazionale e… boh, le riunisce in un grosso file. Io non sono nemmeno capace di accedere.»
«Un database, intendi?»
«Visto? Capisci cosa voglio dire? Che diavolo è un database, tanto per cominciare? Come cavolo funziona?» Sospirai. «Non hanno più bisogno di me, e la cosa è reciproca. Io ottengo risultati attraverso l’istinto e il duro lavoro. Non chiedo a un computer di setacciare i file al mio posto. Potrebbe tralasciare qualche dettaglio. E sai una cosa? Non voglio cambiare. Se sono uno stereotipo, pazienza. Lasciatemi in pace e fatemi arrivare alla pensione.»
«Si direbbe che ti sia arreso.»
«Può darsi.»
Si voltò, incuriosita. «Qual è il motivo?»
«Fai troppe domande.»
«Lo so.» Fece un sorriso astuto. «E tu dai troppe poche risposte.»
Tirai un sospiro. «È una lunga storia.»
M’imitò. «È un lungo volo.»
Ci sono momenti, nel corso della vita, in cui le persone non hanno voglia di parlare.
Ci sono anche momenti in cui non hanno altra scelta, se non parlare. È qualcosa del tipo «ora o mai più». Sono le scene imbarazzanti nel gioco della vita, che molto spesso si svolgono davanti a un genitore o al partner, durante le quali un individuo manda giù il poco orgoglio che l’esistenza gli ha lasciato e comincia a vuotare il sacco, con tutta la coerenza possibile. Queste conversazioni possono comprendere frasi come «sono gay», «mi piace vestirmi da donna» o addirittura «ho una fissazione per gli scoiattoli, ma non è carina». Spesso si omettono i punti salienti per attutire il colpo, come, ad esempio, dire alla propria madre (o alla propria moglie) che la sua biancheria intima è più comoda di quella in vendita nei negozi.
Questi momenti, immagino, ti fanno stare meglio perché ti convincono di non aver avuto voce in capitolo. Puoi soltanto prendere il testimone e cominciare a correre.
«Mia moglie mi ha piantato.» Ingollai il drink e feci segno all’hostess.
«Perché?»
A quel punto dovetti essere sincero sino in fondo, soprattutto perché l’hostess, col carrello che le vacillava davanti, era già a tre quarti del corridoio. «Perché ho iniziato a bere.»
«E perché hai iniziato a bere?»
Cristo, si dava mai per vinta?
La guardai dritta negli occhi e capii che sapeva benissimo di essere stata invadente, ma che non si sarebbe arresa. Non finché non le avessi rivelato ogni singolo, penoso dettaglio.
«Perché t’interessa?» Perché sarebbe dovuto interessare a qualcuno?
«Per ciò che sei.»
«E chi sono esattamente?»
Fece un sorriso sibillino, come se sapesse qualcosa di cui io ero all’oscuro. «Sta a te scoprirlo.» Mi rivolse un’occhiata penetrante. «Dai, Nick, dimmi perché hai iniziato a bere.»
Aveva ragione, sarebbe stato un lungo volo. Quando fossimo atterrati, sarebbe sembrato ancora più lungo, perché nella mia vita c’erano cose di cui non avevo mai parlato con nessuno. Non mentre ero sobrio, almeno.
Tuttavia, durante quel viaggio, con Sarah, ne parlai. Non so perché né in che modo sia riuscita a tirarmele fuori, ma lo fece. L’unica cosa che dimenticò fu di dirmi di rilassarmi e di esprimermi liberamente, perché non sarebbe stato doloroso. Invece lo fu. Lo era sempre. Tanto che in genere avevo bisogno di un anestetico. O due, o tre. Liscio, o con ghiaccio.
«Stavo seguendo un caso, molto tempo fa. È morta una ragazza.»
«Ed è stata colpa tua?»
Sorrisi, senza sapere il perché. Immagino sia dipeso dal fatto che qualcuno aveva finalmente dato voce a un pensiero che mi ero tenuto dentro per molti anni. Troppi, forse. «Sì, in gran parte.»
Tre giorni dopo il mio ventinovesimo compleanno, a meno di un anno da quando ero diventato detective, mi stavo occupando di un caso di droga. Fin qui, nulla d’insolito. All’epoca, e nel Wholesale District in generale, quasi tutte le indagini riguardavano il traffico di stupefacenti. Avevamo tenuto d’occhio il nostro uomo, un portoricano arrogante che si chiamava Freddy Casparo, per più di cinque settimane. Conoscevamo il suo territorio meglio di lui e, soprattutto, sapevamo quando e come si spostava al suo interno. Avevamo scoperto che la mattina del 15 marzo avrebbe consegnato un carico, non il più grosso della sua carriera, ma sufficiente a farlo finire in gattabuia da sette a dieci anni.
Le cose non erano andate secondo i piani, anche se ormai simili sciocchezze avevano smesso di cogliermi di sorpresa. A nostra insaputa, Casparo intendeva prendere un aereo per il Messico quella sera. Il perché non aveva importanza, a contare era il fatto che per la prima volta in cinque settimane avesse anticipato i suoi movimenti di tre ore. I suoi scagnozzi lo sapevano ed erano preparati, ma la nostra rete d’informatori non era aggiornata come avremmo voluto.
Quindici poliziotti, me compreso, sedevano in auto civetta a distanze calcolate con cura, in attesa di un uomo che aveva già tagliato la corda, come aspiranti passeggeri che aspettano lungo un binario morto. Quasi un’ora dopo il momento in cui Casparo sarebbe dovuto cadere dritto nelle nostre mani, avevamo rinunciato ed eravamo tornati a casa.
Io mi ero accomodato all’ombra della tenda bianca, rossa e verde del Gray’s, la gastronomia italoamericana all’angolo tra Alameda Street e 4th Street. Per tirarmi un po’ su il morale, avevo ordinato un cappuccino e un sandwich con pane di segale. Avrei dovuto essere in tribunale a mezzogiorno, perciò mi ero convinto che sarebbe stato inutile sfidare il traffico per rientrare al dipartimento e poi ripartire di lì a un quarto d’ora. Così avevo mangiato, maledicendo Casparo.
Era il genere di fiasco che non avrebbe fatto una buona impressione durante la riunione presieduta dal vicecapo David, che dirigeva il reparto operativo. Avrebbe dovuto spiegare a Perkins – il capo della polizia, un tipo ottuso, sempre incline a perdersi nei particolari, trascurando la visione d’insieme – come mai tutti quei poliziotti fossero stati sollevati dal servizio di routine per ben quattro ore e perché fossero tornati con un pugno di mosche.
In soldoni, significava che probabilmente David avrebbe dovuto strisciare, se avesse avuto ancora bisogno di personale extra. A meno che non si fosse imbattuto in Casparo con quattro o cinque sacchetti di coca colombiana nella fodera del completo Armani, sarebbe stato tagliato fuori. Per il momento.
Le cose erano andate più o meno così. Soltanto che la droga non era nascosta nella fodera della giacca, bensì riposta molto ordinatamente in un’elegante valigetta di pelle marrone. E non era colombiana, ma americana, anche se ancora non lo sapevo.
Così, mentre bevevo il caffè, avevo alzato gli occhi e, toh, ecco quel viscido bastardo che mi passa davanti, a meno di un metro, con un’aria spensierata. Con una mano si preme un cellulare contro l’orecchio, nell’altra stringe la cartella. Avevo udito solo un frammento della conversazione, ma era bastato per spingere una testa calda come me a entrare in azione. «Rilassati, Carlo, ho capito tutto. Ora tocca a me. Sto arrivando.» Avevo finito il caffè, tanto per lasciare che qualche pedone s’infilasse tra noi, quindi mi ero incamminato.
Con l’andatura tronfia tipica degli stronzetti presuntuosi come lui, aveva percorso Alameda Street in direzione di Produce Street. Le mie alternative erano semplici: seguirlo e arrestarlo con la valigetta, oppure sedere in un’aula di tribunale piena di spifferi e assistere all’ennesima udienza di mezz’ora per la determinazione di una cauzione, presieduta dall’ennesimo giudice decrepito. Se hai mai presenziato a un’udienza di quel tipo, resa ancora più noiosa dai tentativi dell’imputato di spacciarsi per un padre e un marito affettuoso nella convinzione di prolungare la propria libertà, intuirai che la decisione era stata facile. Così, avevo mantenuto un’andatura costante, non più di sei e non meno di quattro passi da quel piccolo bastardo spocchioso.
Finché non avevo visto la Porsche, con la capote abbassata e lo specchietto del guidatore che scintillava da dietro un furgone blu. Una 911 ultimo modello, color argento col tettuccio nero. Proprio come ci avevano detto nel corso della riunione informativa.
La consapevolezza mi aveva colpito come un pugno allo stomaco: se fosse salito in auto, si sarebbe dileguato e, se si fosse dileguato, io sarei rimasto a mani vuote, come quella mattina. Così, mentre si avvicinava alla Porsche, avevo deciso di fare la mia mossa, di andare sino in fondo. Mi ero spostato, avevo proseguito lungo il lato del furgone e mi ero piazzato accanto al finestrino del passeggero. Casparo si era messo al volante, aveva posato la borsa sul sedile accanto e aveva guardato dritto nella bocca scura della mia calibro 357 a canna corta.
«Buongiorno, coglione.»
Aveva contratto il viso butterato in una smorfia schifata. «Chi cazzo sei?» Rabbia, disprezzo. Ma dalla sua voce trasparì anche qualcos’altro, una sensazione che Casparo non avrebbe voluto provare: la paura. Quel maledetto pezzo di merda pensava che dovessi farlo fuori per conto di una delle tante persone che aveva fregato in vita sua.
Avevo estratto il distintivo con la sinistra e gliel’avevo mostrato. «Chiavi sul sedile, mani sul volante.»
Quel figlio di puttana si era rilassato. Riesci a crederci? Era come se avesse pensato: Ehi, va tutto bene, è soltanto la polizia.
«Apri la valigetta», avevo ordinato.
«Hai detto mani sul…»
«Apri quella cazzo di borsa, stronzetto. Subito!»
Si era mosso lentamente, come gli aveva suggerito l’istinto. «Ehi, stronzetto», mi aveva scimmiottato, lanciandomi un’occhiata seria. «Ora sì che sono nei guai, detective. Mi hai preso con le mani nel sacco.» Si era battuto il pugno sul petto, poi aveva aperto la borsa. Aveva fatto scattare le serrature e sollevato il battente. Fa’ che sia la colombiana. Ti prego, Dio, fa’ che sia la coca, avevo pregato.
Ma non era roba colombiana. Era americana, fino all’ultimo grammo. Washington, Lincoln e Jackson, contati e disposti in mazzette ordinate. Dovevano essere almeno cinquantamila dollari. Avevo cercato di non darlo a vedere, ma dentro avevo continuato a ripetere «vaffanculo» come se fosse l’unica parola rimasta nel vocabolario. Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo. Sono fottuto.
Casparo aveva detto ciò che già sapevo: «Soldi, detective. Belle banconote fruscianti. Cosa ti aspettavi? Droga o roba simile? No, soltanto qualche spicciolo. Oggi ho venduto la mia auto, ecco perché ho tutta questa grana».
«Ci sei seduto, sulla tua auto, coglione.»
Aveva scosso la testa con finto sgomento. «Coglione. Questa sì che è una parola offensiva. Ho venduto la mia vecchia macchina, detective. La Mercedes. Puoi arrestarmi, se vuoi, ma chiederò al mio avvocato di spedirti l’atto di vendita. Sai, devo prendere un volo alle tre e sono appena in tempo. Che facciamo?»
Lasciando le mani in mostra, aveva prelevato una mazzetta dalla valigetta e me l’aveva infilata nel taschino. Riesci a crederci? Me l’aveva infilata nel taschino, e io non l’avevo fermato.
«Sei un bravo detective, basta guardarti per capirlo. E sai di non avere prove. Che ne dici se accendo il motore e me ne vado, dato che stiamo solo perdendo tempo?» Due denti d’oro massiccio avevano scintillato nella luce. «Fa’ un bel regalo alla tua ragazza, detective, e fingiamo che non sia mai successo.»
Erano mille dollari. Non uno di più, non uno di meno. Lo so perché li avevo presi. Capito? Li avevo presi. E Casparo se n’era andato.
Avevo cercato di convincermi che avesse ragione, che non avevo nulla contro di lui tranne i soldi e che non erano sufficienti. Certo, la scientifica avrebbe rilevato tracce di coca sulle banconote ma soltanto perché, come avrebbe precisato l’avvocato della difesa – anche se dubitavo che si sarebbe arrivati a quel punto –, il novantacinque per cento della valuta statunitense recava tracce di cocaina. L’atto di vendita dell’auto sarebbe stato redatto nel giro di un’ora e io sarei stato lo zimbello di tutti, quando Casparo fosse tornato a piede libero.
Allora perché avevo tenuto il denaro? Be’, avevo fatto un bel regalo alla mia ragazza, anche se non era Katherine. Cavolo, no. Avevo comprato una console da gioco per Vicki.
Nei mesi successivi avevo speso il resto nei bar.
Ne vado fiero? Certo che no. Lo rifarei? Mai. Ma l’ho fatto, una volta sola e, che ciò mi renda un poliziotto corrotto oppure no, mi fa senza dubbio sentire tale.
Quella sensazione era già abbastanza sgradevole, ma non è nulla in confronto agli avvenimenti che erano seguiti. Pare che quella sera Casparo fosse arrivato a casa incazzato nero. Forse era stata colpa mia o forse era un tipo irascibile, non voglio saperlo. A ogni modo, aveva litigato violentemente con la sua ragazza, una ventitreenne di nome Monica. Era giovane, molto giovane, e un vero schianto, a giudicare dalle fotografie. Una bambola magnifica.
Avevano discusso e si erano azzuffati e urlati addosso come a volte fanno i portoricani. Temperamento latino e tutto il resto. Poi, nel bel mezzo di quell’alterco rumoroso, qualcuno aveva visto Casparo andare rabbioso verso l’auto, dove aveva recuperato quella che i vicini avevano descritto come una pistola. Infine, era rientrato e aveva freddato Monica con tre colpi. Bang, bang, bang, morta. In men che non si dica. Agghiacciante, vero?
Monica era anche incinta di otto mesi. Avevano comprato la culla e tutto il corredino. Avevo provato a convincermi che forse era stato quello il motivo del litigio, che non era dipeso dal fatto che gli avessi sventolato la pistola sotto il naso, spaventandolo tanto da indurlo a vergognarsi come se sua madre l’avesse pizzicato a farsi una sega. Insomma, data la sua reputazione da dongiovanni, forse non amava l’idea di legarsi per sempre a una sola ragazza. Ma l’onore latino gliel’aveva imposto. Devo dargli atto, tuttavia, che poi si era pentito di ciò che aveva fatto. Al punto di suicidarsi con uno dei tre proiettili rimasti, sparandosi sotto il mento.
Ora puoi decidere se considerarmi deprecabile, o semplicemente umano. A te la scelta. In tutta onestà, però, credo non ci sia nulla che io non abbia incasinato nella mia vita. La carriera, il matrimonio, un sacco di casi (anche se ho collezionato un successo ogni tanto) e, sì, persino il rapporto con Vicki, la mia splendida figlia diciannovenne. È dovuta ricorrere alla terapia. Secondo lo strizzacervelli, soffre di una profonda crisi di autostima e di diffidenza innata verso gli uomini, che potrebbe risalire alla prima infanzia o stronzate simili. Che risale a quando ero suo padre. O meglio, a quando ero l’uomo che avrebbe dovuto essere suo padre, ma che non era mai abbastanza presente, anche prima dell’entrata in scena di Jack. So soltanto che è colpa mia, se è diventata la persona che è.
Avrei dovuto perquisire l’auto, trovare la pistola e portare Casparo e i suoi commenti sfrontati in un posto dove avrebbero potuto avere un pubblico interessato. Una cella, ad esempio. Avrei dovuto sputare sui suoi soldi pidocchiosi, sbatterglieli in faccia e suonargliele di santa ragione. Ma non l’avevo fatto. L’avevo lasciato andare e la ragazza ci aveva rimesso la pelle.
La sua morte e quella del bambino erano state inutili.
Avevo scoperto l’accaduto quando avevo letto il giornale, l’indomani mattina. Foto di Casparo (piccolo riquadro per Monica) e dettagli. Molti, moltissimi dettagli.
Non volevo conoscerli, non volevo sapere che era caduta all’indietro e che la polizia l’aveva trovata distesa sulla culla, col sangue che le usciva dal ventre e che gocciolava sulle fredde lenzuola bianche.
Come ho detto, il giornale aveva pubblicato una sua foto. Così che non la dimenticassi. Da allora, non è passato giorno che non mi sia svegliato senza rivedere il suo viso.
«È stato là che hai iniziato a bere?» chiese Sarah in tono dolce ma indagatore.
«Più o meno. Rende tutto più facile.»
«’Tutto’, cosa?»
Feci una risata sommessa. «Essere me stesso? Convincermi che non è stata colpa mia? Entrambe le cose? Non sono alcolizzato, riesco ancora a ragionare in modo lucido. Però ragiono meglio con un po’ d’aiuto.»
«Tua moglie non sopportava il nuovo te?»
«No. E non la biasimo. Prima ho cominciato a rincasare tardi, poi a farlo da ubriaco. Alla fine ho unito le due cose, e da quel momento in poi lei e Vicki mi hanno visto soltanto in quelle condizioni.» Riflettei, poi cercai invano di buttarla sul ridere. «A proposito, gradirei un altro drink. Dopotutto, mi serve qualcosa per rallegrare questa squallida esistenza, non trovi?» Sorrisi per farle capire che stavo scherzando, quindi richiamai l’hostess.
Sarah non disse una parola. La donna arrivò e mi scoccò un’occhiata di rimprovero, porgendomi un altro bicchiere di ghiaccio, un tovagliolino quadrato e la terza mignonnette di whisky.
Ne presi altre due dal carrello. Volevo risparmiarle un viaggio.
Quando l’assistente si fu allontanata, Sarah si rilassò contro lo schienale della poltrona. Senza guardarmi, quasi come se stesse parlando da sola, disse: «Sai una cosa, Nick? Il bello della tua esistenza è che non hai ancora idea di quanto sia incredibilmente importante».