Metodo
Per risolvere la complessità costringendola alla semplicità occorre metodo. La prima tappa di questo metodo è la conquista dell’intolleranza.
In una delle sue fulminanti metafore, Borges descrive (o inventa) i rapporti sotterranei tra Gustave Flaubert e i protagonisti del suo romanzo Bouvard e Pécuchet che molti considerano opera capitale della letteratura francese. Flaubert carezzò a lungo l’idea di scrivere qualcosa sull’umana stupidità e, non essendo per nostra fortuna un sociologo, invece di cavarne un saggio barboso, dette alle sue riflessioni la forma di un romanzo, pubblicato postumo e incompiuto nel 1881.
La trama è nota: due antieroi, grigi copisti d’ufficio, inaspettatamente ricevono una grossa eredità che consente loro di ritirarsi in campagna e dedicarsi alla cultura. Da persone sguarnite quali sono, senza nulla capire, essi leggono alla rinfusa libri di agronomia e di giardinaggio, di anatomia, archeologia, storia, mnemonica, letteratura, idroterapia, spiritismo, pedagogia, veterinaria, e chi più ne ha più ne metta.
Borges riferisce che Flaubert, per descrivere scrupolosamente le reazioni di due ignoranti che tutto leggono senza nulla comprendere, impiegò cinque anni a divorare 1500 trattati di anatomia, agronomia, pedagogia, fisica, metafisica e via dicendo. Ma, come osserva acutamente Émile Faguet in un suo vecchio saggio su questa vicenda, «se uno si ostina a leggere dal punto di vista di uno che legge senza capire, in pochissimo tempo arriva a non capire assolutamente nulla e a essere ottuso per conto suo». Così Flaubert si rese conto che, a furia di leggere trattati alla rinfusa, senza capirli, stava diventando ottuso a sua volta, contagiato dall’ottusità delle sue letture e dei suoi due personaggi. In altri termini, non era lui a scrivere Bouvard e Pécuchet, ma erano i suoi due protagonisti sempliciotti che stavano scrivendo lui. La stessa cosa, del resto, era accaduta a Goethe, quando si era accorto che non era lui a creare Faust, ma era Faust che stava creando lui. E la stessa cosa era successa a Tolstoj quando fu costretto a riconoscere: «Ho perso il controllo su Anna Karenina».
È a questo punto che Flaubert, allarmato dal suo proprio istupidimento progressivo, giunto all’ottavo capitolo del suo capolavoro compie un’improvvisa virata e conferisce ai suoi due antieroi la scintilla dell’intelligenza. Così essi mettevano in dubbio la probità degli uomini, la castità delle donne, l’intelligenza del governo, il buonsenso del popolo, in poche parole: minavano le basi. E allora una facoltà incresciosa insorse nel loro spirito: «Celle de voir la bêtise et de ne plus la tolérer», quella di riconoscere la stupidità e di non riuscire più a tollerarla.
In questo rapido passaggio è sintetizzato tutto il nocciolo salvifico dell’intolleranza: la forza – conquistata attraverso la cultura – di non tollerare più la stupidità dei conoscenti stupidi, dei media stupidi, degli opinionisti stupidi, di tutti i mediatori culturali stupidi. La capacità di resettare il loro brusio e pensare ex novo il passato per capire dove ci spinge e il futuro per capire dove ci risucchia. Non è che, così facendo, l’uno e l’altro ci diventino totalmente comprensibili, ma almeno perdono la loro carica minacciosa, smettono il ruolo di incubo e assumono quello di itinerario. Importante è imparare a dare credito solo a coloro che producono idee, non a quelli che le chiosano e, chiosandole, le frantumano e le ingarbugliano ammantandole di luccichio.
Una volta conquistata ed esercitata eroicamente la virtù dell’intolleranza, occorre capire che alcuni problemi elencati nel capitoletto precedente ci appaiono complessi perché originano da determinati settori ma poi debbono essere risolti da settori diversi. Ad esempio, i problemi connessi alla disoccupazione tecnologica e creati dagli ingegneri devono essere poi risolti dai politici. I problemi creati dagli uomini della guerra debbono essere poi risolti dai gestori della ricostruzione. E ciò non facilita le cose. Come pure non facilita le cose la netta contrapposizione tra chi pensa che la povertà nel mondo sia comunque debellabile e chi pensa che non lo sia; tra chi pensa che le tecnologie distruggano più posti di lavoro di quanti ne creino e chi pensa il contrario.
Dopo l’intolleranza e l’intersezione tra settori diversi, occorre sfoderare l’immaginazione: quella che Charles Wright Mills chiamava «immaginazione sociologica», cioè «una qualità della mente che lo aiuti a servirsi dell’informazione e a sviluppare la ragione fino ad arrivare a una lucida sintesi di quel che accade o può accadere nel mondo e in lui… Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l’ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne».
A rileggere la storia peraltro recente della sociologia possiamo renderci conto di come l’immaginazione dei sociologi, fervida quando si trattò di decodificare la società rurale e quella industriale, si sia inceppata di fronte alla società postindustriale. In bilico tra il piacere della brutalità e l’estasi della ragione – sempre per usare le parole di Wright Mills – essi si sono adagiati nella descrizione del benessere invece di spiegare il disagio e l’indifferenza del mondo. Oppure hanno bluffato millantando d’aver scovato un finto bandolo della matassa che, in fin dei conti, si risolveva in un titolo a effetto o in uno slogan che, di volta in volta, definiva la società come liquida (Bauman), impreparata (Michael), a consapevolezza III (Reich), casuale (Harrington), entropica (Henderson), postcivile (Building), attiva (Etzioni), tecnotronica (Brzezinski), discontinua (Drucker).
Nel dipanare la complessità di un sistema sociale occorre ammettere che vi sono livelli diversi di oggettiva difficoltà a seconda che l’impresa sia tentata da uno storico, da un antropologo, da un sociologo, da un futurologo. Lo storico non è presente ai fatti del passato che cerca di ricostruire e comprendere, ma tratta questioni che sono prossime alla sua cultura, di cui conosce gli antecedenti storici e di cui possiede i documenti necessari per esplorarle. Soprattutto conosce il seguito degli eventi che esamina e, sapendo come sono poi andate le cose, ha il vantaggio di poterle meglio interpretare. Ad esempio, lo storico che oggi studia la battaglia di Waterloo sa come si è conclusa la battaglia e sa che fine ha fatto Napoleone.
Invece il sociologo e l’antropologo si occupano di fatti a loro contemporanei che avvengono sotto i loro occhi. Entrambi ne conoscono gli antecedenti storici, ma entrambi ne ignorano il seguito perché non è ancora accaduto. Il sociologo ha il vantaggio di studiare fenomeni che appartengono alla cultura della sua stessa tribù, ne condivide il linguaggio e i paradigmi; l’antropologo ha lo svantaggio di studiare fenomeni «altri», che appartengono ad altre culture, obbediscono ad altri paradigmi, connotano altre tribù.
Il futurologo condivide con lo storico, il sociologo e l’antropologo solo gli svantaggi. Cerca di immaginare i fatti che avverranno dopo anni (ad esempio, nel 2030) ma non sa cosa li precederà da qui al 2029 e cosa li seguirà dal 2031 in poi. Ciò che avverrà nel 2030 si produrrà in un contesto profondamente estraneo a quello attuale, secondo paradigmi e linguaggi «altri» rispetto ai nostri.
Alla complessità oggettiva e alla inadeguatezza soggettiva si somma poi l’oscurità del linguaggio con cui alcuni esperti pretendono di spiegarci quello che hanno capito. Wright Mills si divertì a sgonfiare la «grande teorizzazione» di Talcott Parsons che associava e dissociava concetti nascondendo poca sostanza sotto una boscaglia di frasi incomprensibili. Un ragionamento annacquato e intorbidito da Parsons in trenta righe poteva essere tradotto da Wright Mills in tre righe chiare fino all’ovvietà.
Oggi la «grande teorizzazione» è passata di mano, dai sociologi agli economisti, e con essa è passato di mano lo stile criptico, da iniziati, che intenzionalmente la connota. Si legga questo articoletto con cui un noto economista italiano cerca di spiegare la situazione: «Il saldo positivo delle partite correnti tedesche, che si è attestato ben al di sopra della soglia massima fissata dalle regole dell’Unione europea (Six Pack), è alimentato dalle esportazioni nette di beni e servizi verso il resto dell’Europa e del mondo e non più da consistenti avanzi nell’interscambio all’interno dell’area euro. Una lettura affrettata di questa duplice evidenza empirica potrebbe suggerire che gli avanzi della bilancia commerciale tedesca abbiano un impatto meno recessivo sul resto dell’area euro e siano, quindi, meno preoccupanti. Di fatto, tali avanzi continuano a indicare che in Germania vi è un eccesso di decisioni di risparmio rispetto a quelle di investimento. Il dato è particolarmente negativo perché, nell’area euro, il rafforzamento della domanda aggregata e delle strutture produttive appare frenato proprio dal ristagno degli investimenti».
Per fortuna, l’immaginazione sociologica non è monopolio né dei sociologi né degli economisti e spesso si ritrova nei film e nei romanzi più che nei trattati teorici e nelle ricerche empiriche. Sentite, ad esempio, come la scrittrice Elena Ferrante, rispondendo a un’intervista, descrive il sistema sociale di un rione napoletano e riconoscerete in lei un’immaginazione sociologica invidiabile da tanti sociologi e psicologi di comunità: «Certi ambienti napoletani erano affollati, sì, e chiassosi. Raccogliersi in sé, come si dice, era materialmente impossibile. Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L’idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dell’altro non era una conquista teorica, ma una realtà. Essere vivi significava urtare di continuo contro l’esistenza altrui ed essere urtati, con esiti ora bonari, l’attimo dopo aggressivi. Nei litigi si tiravano in ballo i morti. Non ci si accontentava di aggredire e insultare i vivi: si finiva per degradare con naturalezza anche zie, cuginette, nonni e bisnonni che non erano più al mondo. E poi c’era il dialetto e c’era l’Italiano. Le due lingue rimandavano a comunità diverse, entrambe gremite. Ciò che era comune all’una non era comune all’altra. I legami che stabilivi nelle due lingue non avevano mai la stessa sostanza. Variavano gli usi, le regole di comportamento, le tradizioni. E quando cercavi una via di mezzo ti veniva un dialetto finto che era contemporaneamente un italiano triviale».
Prima e dopo l’intolleranza e l’intersezione, l’immaginazione sociologica e lo stile espositivo, il metodo necessario per risolvere la complessità in semplicità esige la posizione mentale e l’impegno sociale dell’outsider, libero da maestri intesi come sponsor e di allievi intesi come figliocci. Insomma, per riuscire a semplificare il complesso occorre condividere con i coniugi Lynd la consapevolezza che «il compito delle scienze sociali è di essere moleste: di criticare gli ordinamenti vigenti e indicarne di migliori».