Previsioni
Quel briccone di Savinio, il più postmoderno dei nostri scrittori preindustriali, scrisse una volta: «Quando Alessandro che traversava la Persia vide una notte fiamme altissime levarsi dalla terra, lì per lì non capì che quelle fiamme un giorno avrebbero fatto guadagnare milioni a un signore chiamato Deterding».
È dunque difficile fare previsioni, persino per una persona acuta come Alessandro Magno. Alcuni, anzi, sostengono che sia addirittura impossibile. Così il grande politologo Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, morto a metà del Settecento, prudentemente pensava che «la maggior parte degli effetti si producono per vie così singolari, o dipendono da cause così impercettibili e remote, che non si può prevederle. Si può inoltre porre come massima generale, che ogni rivoluzione prevista non si verificherà mai… Se si consulta la storia, la si troverà ovunque piena di grandi eventi imprevisti».
Eppure, nella nostra società postindustriale è necessario azzardare previsioni. Come faccio a sapere in quale punto è meglio piazzare un casello autostradale se non prevedo quanta gente lo userà, venendo da dove e per andare dove? Come faccio a sapere quante aule scolastiche occorre costruire se non azzardo una previsione su quanti bambini nasceranno nei prossimi anni? Noi lavoriamo oggi per preparare la società di domani, la quale sarà come noi l’avremo progettata con dovuto anticipo. Alain Touraine è arrivato addirittura a sostenere che questa nostra società non va chiamata «società dell’informazione», o «società globalizzata», o «società postindustriale», come dicono altri, ma «società programmata» proprio perché l’esigenza di programmare la connota più di ogni altra cosa.
La necessità di prevedere ha fatto nascere il business della previsione. Nella Grecia e nella Roma antica c’erano gli aruspici, che deducevano il destino dal volo degli uccelli o dalle viscere degli animali immolati. Il popolino ci credeva, e a volte anche gli imperatori, ma gli intellettuali restavano scettici. Cicerone, ad esempio, confessava: «Non riesco a capire come fa un aruspice a non morire dal ridere quando incontra un altro aruspice».
Ora, invece, sono proprio gli intellettuali che ogni giorno azzardano previsioni: i politologi esibiscono previsioni politiche, gli economisti offrono previsioni economiche, i sociologi azzardano previsioni sociologiche. Soprattutto gli esperti di marketing cavano dal loro cilindro previsioni su tutto: come vestiranno gli androgini, quale colore ecciterà i frigidi, quale lobby favorirà i prostatici.
Prevedere, almeno in certi casi, è possibile. Ma, per non essere smentiti dalla realtà, occorre prendere in considerazione un numero enorme di variabili, adottando un buon metodo previsionale. Non lo ha fatto Einstein quando, nel 1932, sentenziò che «niente ci autorizza a pensare che si possa ottenere energia nucleare». Non lo ha fatto il generale Foch quando, nel 1911, assicurò che «gli aerei sono giocattoli interessanti ma di nessun valore militare». Non lo ha fatto il signor Warner della Warner Brothers quando, nel 1927, disse: «Il cinema muto non morirà. Chi diavolo vorrebbe sentir parlare gli attori?». Non lo ha fatto il signor Zanuck della 20th Century Fox quando nel 1946, parlando della televisione, disse: «In sei mesi la gente si stancherà di stare tutte le sere davanti a una scatola di compensato». Non lo hanno fatto i manager della Decca quando, nel 1962, dissero dei Beatles: «Non li vogliamo. La loro musica non funziona e le band che usano chitarre sono ormai fuori moda».
Accanto a coloro che si imbarcano in previsioni senza averle ponderate scientificamente ci sono i previsori mestieranti che, per non essere smentiti dai fatti, si tengono sull’ovvio, contrabbandandolo per oro colato: «Cresce il bisogno di benessere»; «Si vivrà pensando sempre più al presente»; «Si va verso una rivalutazione della famiglia»; «Aumenta la paura della morte» sentenziano questi moderni aruspici lautamente pagati, che, invece di scrutare il movimento delle budella animalesche, armeggiano con i loro computer alimentati di banalità.
E, come ai tempi di Cicerone, essi si guardano bene dal morire dal ridere quando incontrano un loro collega.