Stachanov

Aleksej Grigor’evič Stachanov nacque nel villaggio di Lugovaja il 3 gennaio 1906 e fu minatore nelle miniere di carbone della regione di Donbass, allora in Unione Sovietica, oggi in Ucraina. Infaticabile fino all’eroismo psicotico, il 31 agosto 1935 riuscì a raccogliere in 5 ore e 45 minuti ben 102 tonnellate di carbone, pari a quattordici volte la produzione prevista. Così il 31 agosto divenne il «giorno del minatore» e Stachanov da allora fu considerato il lavoratore modello per tutto il proletariato sovietico. Ricevette l’onorificenza dell’Ordine di Lenin, dell’Ordine della bandiera rossa del lavoro, i distintivi di prima, seconda e terza classe per la Gloria mineraria; fece carriera come assistente ingegnere e poi direttore. La sua salute di ferro gli consentì di morire a settant’anni nonostante il tempo trascorso nell’inferno delle miniere.

Dalle imprese di questo Prometeo proletario nacque lo stacanovismo: tutto un fenomeno di massa, incentivato con la propaganda e con i premi di produzione, teso a dimostrare al mondo l’efficienza dei metodi di lavoro socialisti e la dedizione alla causa da parte degli operai sovietici. «Il movimento stacanovista» disse Stalin «rappresenta l’avvenire della nostra industria, reca in sé il germe del futuro slancio culturale e tecnico della classe operaia e ci apre la sola strada per la quale possiamo raggiungere quegli alti indici produttivi indispensabili per passare dal socialismo al comunismo ed eliminare il contrasto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.»

In realtà il contrasto tra lavoro intellettuale e manuale non è stato appianato portando il secondo alla dignità e creatività del primo ma estendendo anche agli impiegati e ai manager la stessa inconsulta frenesia produttivistica, la stessa alienata dipendenza dal lavoro, la stessa ebete disponibilità all’overtime. E così, allo stacanovismo degli operai comunisti, si è riusciti a sommare il workaholism degli impiegati e dei manager capitalisti, accomunandoli tutti nel medesimo disturbo ossessivo-compulsivo: il disturbo della dismisura, la mania di grandezza, di primato, di velocità, di gara perpetua dell’homo faber, del Prometeo, dell’Icaro, della società dove tutto deve essere più grande, sbalorditivo, fuori squadra e fuori misura.

Aumentare di quattordici volte il rendimento dell’operaio realizzava in Unione Sovietica il sogno già sognato in Inghilterra dai primi imprenditori industriali, poi razionalizzato e sperimentato negli Stati Uniti da Taylor e da Ford, teorizzato dai liberisti come primato della concorrenza, della competitività, delle risorse illimitate al servizio di una crescita illimitata. Un sogno che periodicamente si manifestava nelle varie edizioni trionfalistiche della Grande esposizione universale, la Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations promossa per la prima volta a Londra nel 1851 dal principe Alberto, marito della regina Vittoria, e destinata a innescare tra i vari Paesi industriali una gara di grandeur di cui resteranno, a orgogliosa futura memoria, costruzioni avveniristiche come il Crystal Palace dell’edizione londinese, la Tour Eiffel dell’edizione parigina (1889), l’Atomium di Bruxelles (1958), la Biosfera di Montreal (1967).

Nel 1869 il tronfio Giosuè Carducci aveva pubblicato l’Inno a Satana in cui Satana rappresentava la ragione e il progresso contrapposti alle superstizioni pretesche e ai soprusi imperiali. Come incarnazione moderna del satanico progresso, Carducci assumeva la locomotiva che George Stephenson aveva inventato quaranta anni prima e che ormai si andava diffondendo anche in Italia: «Un bello e orribile / mostro si sferra, / corre gli oceani, / corre la terra: // corusco e fumido / come i vulcani, / i monti supera, / divora i piani».

La dismisura, la velocità, l’ebbrezza del progresso tracimarono dall’industria all’arte: una diecina di anni dopo l’Inno a Satana, l’11 gennaio 1881, andò in scena alla Scala di Milano il balletto mimico Ballo Excelsior, destinato a diventare la colonna sonora dell’intera epoca, un’«azione coreografica, storica, allegorica in 6 parti e 11 quadri» in cui si celebrava, con uno smisurato corpo di ballo composto da 450 elementi e con sorprendenti effetti speciali, il trionfo della scienza allegoricamente intesa come vittoria della luce e della civiltà sull’oscurantismo, nemico del progresso. Ognuna delle sei parti celebrava una grande invenzione o una grande realizzazione dell’epoca: dal battello a vapore al piroscafo e alla pila elettrica, dalla lampadina al telegrafo, dal canale di Suez al traforo del Frejus. «È il paradiso, il trionfo dell’umanità incivilita, una festa del pensiero, ricco e splendido» commenterà il «Corriere della Sera».

Con l’inizio del XX secolo la sindrome di Stachanov, cioè la frenesia del progresso, della dismisura e della velocità esplode in tutte le direzioni, Occidente in testa. Taylor e Ford inventano tempi e metodi per moltiplicare la produttività delle fabbriche; tra il 1903 e il 1905 i fratelli Wright negli Stati Uniti e Alberto Santos-Dumont in Brasile sperimentano i primi aeroplani. Nel 1909 questi trionfi dell’uomo moderno trovano la loro esaltazione nel Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti: «La magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia… Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente».

Poi il futurismo si confronta col cubismo e con l’orfismo fino in America e in Giappone, partorisce il cubofuturismo di Burliuk e Majakovskij in Russia, il rondocubismo di Josef Gočár a Praga, il raggismo di Larionov sempre in Russia, il vorticismo di Lewis in Inghilterra, il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo di Balla e Depero in Italia, la Semana da Arte Moderna a San Paolo.

La dismisura e il gigantismo sono il marchio di fabbrica della società industriale: lo Stachanov, che è dentro ogni imprenditore che rischia, dentro ogni operaio che si aliena, dentro ogni manager che organizza, dentro ogni politico che si esalta, offre il meglio di sé costruendo grattacieli sempre più alti, fabbriche sempre più mostruose ed efficienti, armi sempre più distruttive, scuole, ospedali, caserme, centri commerciali, transatlantici, aerei, petroliere e portaerei sempre più spettacolari, grandiosi, all’avanguardia. E, a furia di ingrandirsi industrialmente, Stachanov si smarrisce nell’idea esaltante dell’illimitatezza ipermoderna.

Secondo Paul Valéry, nel 1492, con la scoperta dell’America, è iniziato «il tempo del mondo finito». Secondo Serge Latouche, solo nel Duemila stiamo prendendo veramente atto della limitatezza delle nostre risorse, dell’illimitatezza delle nostre pretese, della cecità delle nostre contraddizioni. Così «limiti e misura risorgono nella forma di catastrofi: cambiamento climatico, contaminazione nucleare, nuove pandemie, fine del petrolio a buon mercato, esaurimento delle risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili, effetti deleteri dei prodotti chimici di sintesi, controproduttività dei nostri sistemi tecnologici, crisi sociale e fallimento bruciante delle promesse di felicità, minacce integraliste e terroriste. Siamo entrati nell’era dei limiti, non c’è nessun dubbio».

È dunque urgente che un nuovo Illuminismo liberi la società postindustriale dalla dismisura della religione della crescita, della competitività, della colonizzazione, della manipolazione, del consumismo e dell’economia così come il vecchio Illuminismo cercò di liberare la società rurale dalla dismisura del potere religioso e del potere imperiale.

Una semplice rivoluzione
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