Globalizzazione
Nel 1848, in piena ascesa della società industriale, Marx ed Engels denunziarono nel Manifesto del Partito Comunista, con lucidità ancora attualissima, i pericoli della globalizzazione industriale: «Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali, subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale».
A quasi due secoli di distanza, possiamo dire che la globalizzazione del pianeta è vicina al suo compimento. Globalizzati sono ormai i mass media, le scienze, le tecnologie, le guerre, il denaro, la cultura. Ogni telegiornale contiene notizie, immagini e voci raccolte in tempo reale da tutto il mondo. Ogni laboratorio scientifico mantiene interscambi continui con tutti gli altri laboratori. Altrettanto globalizzati sono i mercati monetari: la proprietà delle imprese si sposta al minuto, col passaggio di mano dei pacchetti azionari. Sul solo mercato di Londra vengono scambiati ogni anno 75 trilioni di dollari, pari a 25 volte il valore di tutti i beni che il mondo intero produce nel medesimo tempo.
Prima di approdare alla sua forma attuale, pervasiva e onnicomprensiva, la globalizzazione ha assunto varie forme parziali. La prima è consistita nella progressiva esplorazione del pianeta e dell’universo per conoscerlo e sfruttarne le risorse (si pensi a Magellano, a Cabral, a Colombo fino alla zattera del Kon-Tiki e alle esplorazioni spaziali). La seconda forma di colonizzazione è costituita dallo scambio di merci entro un raggio sempre più esteso (si pensi all’ampliamento progressivo dei mercati, dall’epoca mesopotamica fino all’e-buy dei giorni nostri). La terza forma di globalizzazione deriva dal tentativo di colonizzare militarmente i popoli limitrofi e poi, via via, i popoli sempre più lontani (si pensi agli eserciti romani che sottomisero tutta l’Europa, parte dell’Asia e dell’Africa, per cui la lingua, l’economia e la legge romana divennero lingua, economia e diritto dell’intero mondo allora conosciuto). La quarta forma di globalizzazione consiste nel colonizzare ogni mercato invadendolo con le proprie merci (si pensi alla Repubblica veneta nel XII e XIII secolo, all’Inghilterra nell’Ottocento, agli Usa e alla Cina oggigiorno). La quinta si realizza espandendo il raggio di influenza dei propri capitali e della propria moneta (si pensi all’area del dollaro, dell’euro, dello yen e dello yuan). La sesta spostando le fabbriche in regioni sempre più lontane (si pensi alla Fiat che ha prodotto la sua Palio contemporaneamente in 13 Paesi). La settima imponendo a tutto il mondo le proprie idee (si pensi alla cultura ateniese che colonizzò l’intero Mediterraneo, al teatro e alle terme romane che modificarono le abitudini del mondo antico, ai missionari cristiani, al cinema, al jazz, al rock e alla Cnn degli Stati Uniti o, nel settore produttivo, al World Class Manufacturing). L’ottava forma di globalizzazione consiste nel creare organismi internazionali per regolare super partes le politiche dei singoli Paesi, le ricerche, l’economia, la difesa dell’ambiente, i servizi segreti, gli apparati militari, quelli umanitari e sportivi (si pensi al Cern, alla Nato, al Mercosul, alla Fifa, alla Bce o alla World Trade Organization). La nona nel creare istituzioni sovranazionali con cui mitigare, attraverso accordi e scambi, la pericolosa fluidità della competizione globale (si pensi all’Onu).
Il decimo tipo di globalizzazione, quello più attuale, è caratterizzato dal fatto che, per la prima volta, le nove suddette forme sono tutte compresenti; per la prima volta il trasferimento di merci e persone è reso velocissimo dai moderni mezzi di trasporto e il trasferimento dei dati avviene in tempo reale grazie alle reti telematiche; per la prima volta i voli sono diventati interplanetari; per la prima volta i processi di unificazione sociale e culturale sono lubrificati dai mass media e dai social network; per la prima volta l’intera umanità avverte simultaneamente e quotidianamente le medesime paure degli attentati, della disoccupazione, delle epidemie, dei crolli in Borsa.
In tutto questo guazzano le banche, i politici, i media, le multinazionali, con effetti a cascata: prima sul piano militare, finanziario ed economico, poi sull’assetto sociopolitico, infine sui rapporti interpersonali e sui valori morali.
Nelle imprese la globalizzazione si manifesta attraverso una totale riorganizzazione planetaria che tiene conto del costo orario del lavoro. Nel settore manifatturiero un’ora di lavoro costa 58 dollari in Norvegia, 51 dollari in Belgio, 44 in Germania, 41 in Australia, 35 negli Stati Uniti, 33 in Italia, 12 in Brasile, 2 nelle Filippine e in Cina. Se, invece, ci riferiamo a un ingegnere o a un professional, il rapporto si capovolge: a Pechino o a Belo Horizonte costa molto più che a Roma o a New York. Ciò significa che, almeno per qualche tempo ancora, se i Paesi del Primo Mondo competono con i Paesi emergenti a colpi di lavoro manuale, perdono la partita; se competono a colpi di creatività e di progresso tecnologico, potrebbero vincerla.
Per ora, le multinazionali gestiscono la globalizzazione per aumentare i profitti e battere i sindacati. Già molti anni fa Barry Bluestone scriveva: «Le comunicazioni via satellite permettono alla direzione delle imprese di dirigere operazioni su scala mondiale a una velocità vicina a quella della luce, mentre gli enormi aerei da carico permettono lo spostamento fisico delle merci a una velocità vicina a quella del suono… La principale impresa produttrice di motori aerei del Connecticut compra esattamente le stesse turbine da due diversi produttori: uno si trova in un villaggio del Connecticut a 13 miglia di distanza, l’altro a Tel Aviv a 13.000 miglia. Le comunicazioni in telex permettono all’impresa appaltatrice di entrare immediatamente in contatto con il suo fornitore lontano e il jet da trasporto permette che questi pezzi costosissimi rispetto al peso siano trasportati allo stesso prezzo dei pezzi che provengono dall’impianto vicino. Qualsiasi interruzione nella produzione di un fornitore può, senza difficoltà, essere compensata semplicemente ordinando più componenti all’altro fornitore».
Grazie a questo dominio imperiale su cui – come sulle terre di Carlo V – non tramonta mai il sole, è possibile all’impresa permettersi condizioni di sfruttamento inimmaginabili nell’epoca industriale. La Fiat, ad esempio, ha inaugurato nei suoi stabilimenti alcuni metodi di lavoro che mai Taylor o Ford avrebbero osato proporre: turni di otto ore consecutive senza toccare cibo; fasi di lavorazione che durano pochi secondi e si ripetono migliaia di volte al giorno; tre sole pause giornaliere di dieci minuti per i propri bisogni corporali; controlli dei lavoratori attimo per attimo con un apparato elettronico che calcola la produttività di ciascun operaio attraverso i movimenti del suo bacino. Insomma, lavorare senza tregua come robot pur essendo umani.
Questo avviene indifferentemente a Torino, a Pomigliano, a Detroit o a Poznan perché il potere delle multinazionali prevarica ormai il potere degli Stati nazionali. Come hanno scritto André Gorz e Jacques Robin, «la delocalizzazione ha permesso alle società transnazionali di svincolarsi dalle leggi dello Stato-nazione, di svuotare quest’ultimo di significato per sottometterlo alle leggi dello Stato mondiale del capitale. Resistere voleva dire esporsi alle “sanzioni dei mercati” di quei mercati le cui leggi senza autori sottraggono le imprese al dominio delle politiche che si danno le società umane».
Accanto alla globalizzazione della produzione, si globalizzano il commercio e il consumo, anche perché il progresso tecnologico consente di ridurre gradualmente il costo dei trasporti. Per trasportare un pullover attraverso l’oceano bastano 2,5 centesimi di dollaro; per trasportare una lattina di birra basta un solo centesimo. Piuttosto che farlo lavorare sul posto, ai pescatori scozzesi conviene spedire il salmone in Cina, farlo sfilettare e farselo rimandare, con un viaggio di 40.000 chilometri.
Con lo spostamento delle merci si intreccia lo spostamento dei capitali. Si legga, come esempio, questo caso descritto da D. Morgan e che riguarda il settore agricolo: «Quando la compagnia Cargill vende del mais ad un industriale olandese, il grano è trasportato sul Mississippi, imbarcato a Baton Rouge e inviato a Rotterdam ma, sulla carta e per il fisco, la merce segue una strada molto più complicata. Cargill vende il mais a Tradax International di Panama (ricordiamo che Tradax è sempre una società Cargill). Tradax International di Panama assume temporaneamente Tradax di Ginevra come suo agente. Tradax di Ginevra potrà in seguito arrangiare la vendita con un commerciante di farine olandesi passando attraverso la sua filiale, ossia Tradax Olanda. Ogni profitto sarà riportato in conto di Tradax Panama, compagnia installata in quel paradiso fiscale e Tradax Ginevra riceverà degli onorari per aver servito da intermediaria tra Tradax Panama e Tradax Olanda».
In modo analogo, secondo quanto riferisce il «New York Times», tra il 2009 e il 2012, ricorrendo a «trame e trucchi» che il senato americano ha coraggiosamente bollato come manifestazioni di «inimmaginabile arroganza totale», la Apple di Steve Jobs è riuscita a sottrarre all’Internal Revenue Service ben 74 milioni di dollari. L’escamotage consisteva nel pagare le tasse non laddove si generano i profitti, ma «assegnando» quei profitti a una filiale estera, collocata in un Paese come l’Irlanda o l’Olanda, dove l’aliquota è irrisoria. Ad esempio, la Apple di Cuppertino ha spostato ben 30 milioni di fatturato alla Apple Operations International situata in Irlanda, dove ha pagato appena il 2 per cento di imposte sui profitti. Nello stesso periodo, un’altra filiale, sempre irlandese, la Apple Sales International, ha dichiarato un utile di 38 miliardi di dollari su cui ha pagato un’aliquota d’imposta pari appena allo 0,06 per cento. Attualmente Apple ha 181 miliardi di dollari imboscati nei paradisi offshore; Microsoft ne ha 108; Ibm 61,4; Cisco 52,7; Google 47,4.
Analoghi, tortuosi percorsi potrebbero essere ricostruiti per innumerevoli aziende se si seguisse il filo invisibile delle telefonate o dei messaggi informatici che, intersecando satelliti, cavi, provider, internet, piccole reti e grandi operatori, consentono a produttori, venditori e intermediari di accumulare rapidi profitti guadagnando sui differenziali delle varie tariffe.
Ma è nel mondo finanziario che la globalizzazione si manifesta in modo più astratto, veloce, globale. Già una ventina di anni fa «Der Spiegel» scrisse: «Una volta l’agenzia di stampa Reuter spediva dei piccioni viaggiatori con l’andamento delle azioni; oggi un sistema multimediale fornisce informazioni in tempo reale. Tutti gli andamenti azionari, i dati delle imprese, i grafici sono a disposizione nello stesso momento. Chi anticipa gli altri di un secondo può guadagnare o perdere milioni. E attraverso Internet anche i piccoli investitori si avvicinano sempre più alle borse virtuali del futuro. Nel casinò globale non si chiude mai, come a Las Vegas: al mattino si apre la Borsa di Tokyo, poi a Hong Kong e più tardi in Europa. Quando chiudono Francoforte e Londra va avanti New York e così via in un circolo che non conosce sosta. Le somme che vengono spostate ogni giorno sono quasi il doppio delle riserve monetarie di tutte le banche centrali».
Ma la forma più vistosa di globalizzazione resta quella del consumo, con l’effetto di omologare i gusti e i bisogni su tutto il pianeta, trasformato in un grande aeroporto con i suoi negozi duty free. Globalizzata è la vita intera: tutto il mondo ascolta le stesse canzoni, vede gli stessi film, usa le stesse T-shirt, racconta su Facebook le stesse barzellette. Il farmaco Aulin vende 11 milioni di flaconi ogni anno, la catena McDonald’s vende 15 milioni di hamburger ogni giorno, la Coca-Cola vende 32 milioni di bottiglie ogni ora. I prodotti globalizzati aspirano a diventare oggetti cult e, quando ci riescono, possono contare su un mercato perenne. È questo il caso di film come Blade Runner di Ridley Scott o Pulp fiction di Quentin Tarantino; il caso di auto come la Ferrari 250 GTO o la Jeep Willys; il caso di scarpe come le Church’s, le Nike o le Clarks o di farmaci come Maalox e Melatonina.
Essere svegliati la mattina da un giornale radio che offre notizie di tutto il mondo; farsi la doccia sotto un rubinetto tedesco e con un sapone francese; andare in ufficio con un’automobile disegnata in Italia ma che ingloba pezzi giapponesi e coreani; gareggiare sui mercati mondiali con capitali di joint venture; vendere merci e informazioni su tutte le piazze del pianeta; ascoltare un disco registrato negli studi di vari Paesi e mixato in altri ancora; sapere che un virus può fare il giro del mondo e infettarlo in pochi giorni; vivere in una città, lavorare in un’altra, fare le ferie in un’altra ancora, raggiungendo ognuna di esse in un batter d’occhio; parlarsi e vedersi con Skype attraverso gli oceani e i continenti: tutto questo provoca le vertigini dell’onnipotenza ma svela anche la nostra umana fragilità gettando i lavoratori, le aziende, gli uomini politici, gli Stati in una gara sempre più assillante, fra concorrenti sempre più numerosi e scaltri, con la probabilità crescente di perdere la posta in gioco.
Così dalla globalizzazione germina la schizofrenia, propria di tutte le rivoluzioni epocali: l’ebbrezza dell’ubiquità e dell’onnipotenza da una parte; l’impulso a cercare sicurezza nel localismo e nelle radici, dall’altra. Almeno per ora non siamo ancora capaci di essere cittadini del villaggio globale senza essere, compiutamente, cittadini di quel piccolo pezzo di Terra che è il nostro villaggio personale.