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Un paio di anni fa una banca mi chiese un testo sulla felicità, destinato a essere pubblicato come strenna natalizia. Il testo sarebbe stato illustrato da un fotografo a mia scelta, libero come me di spaziare a suo piacimento sul medesimo tema. Indicai il mio amico Oliviero Toscani, che accettò la sfida, e gli posi una sola condizione: che le foto fossero astratte e colorate perché, a mio avviso, colore e astrattezza sono la duplice essenza della felicità.
Passarono alcune settimane e Oliviero mi mandò un servizio fotografico degno della sua genialità: bello, intrigante, coloratissimo. Così astratto che non riuscivo a capire quali fossero gli oggetti da lui fotografati. Mi tenne un poco sulle spine e poi mi rivelò che si era seduto davanti al televisore acceso, aveva fotografato a casaccio le immagini che scorrevano sullo schermo e poi ne aveva stampato a forte ingrandimento alcuni particolari cromaticamente seducenti. La televisione, a suo avviso, è il giocattolo che distribuisce maggiore felicità ai telespettatori di tutto il mondo. Dunque, merita di essere assunta come metafora stessa della moderna felicità.
Effettivamente, ognuno di noi è debitore alla televisione di innumerevoli momenti felici: quando ridiamo guardando un comico intelligente; quando attendiamo con trepidazione un servizio del telegiornale; quando la nostra squadra del cuore segna un gol inatteso. A partire dagli anni Cinquanta, questo mobile domestico si è intrufolato nelle nostre case e ci ha accompagnato quotidianamente, cambiando la sua forma, il suo contenuto, le nostre idee e i nostri comportamenti.
Dalla sua comparsa, nel secondo dopoguerra, fino alla fine degli anni Settanta, il televisore era un cubo ingombrante di molto legno e poco schermo e trasmetteva in rigoroso bianco e nero. In quegli anni le immagini televisive ci stupivano con la loro magia e ci colonizzavano con la loro novità. In un primo tempo si determinò un devide tra i pochi fortunati che possedevano un televisore e i molti esclusi che dovevano accontentarsi di fugaci visioni come invitati in case altrui, in occasione delle trasmissioni più imperdibili.
Ma questa fase elitaria durò poco. La televisione si diffuse rapidamente come un contagio virale e rapidamente sostituì la scuola e il maestro, la parrocchia e il prete, il cinema e la radio. Unificò il linguaggio ingoiando i dialetti; impose la medesima sintassi in tutte le regioni; dettò nuovi canoni estetici al nostro corpo e alla nostra casa; diffuse un’etica più tollerante verso la sessualità; smussò le differenze tra città e paesi, tra ricchi e poveri, facendo della casalinga il parametro di riferimento per tutta l’emergente classe media. Ora il devide non era più tra i pochi possessori della costosa scatola magica e i molti invidiosi che ne erano privi, ma tra la massa dei possessori e la supponente minoranza di intellettuali che ostentava l’intenzionale rifiuto della televisione intesa come diabolico veicolo di messaggi manipolatori. «L’intoxe vient à domicile» diranno gli studenti in rivolta del Maggio francese.
Negli anni Ottanta e Novanta il mobile che avvolgeva lo schermo delle nostre brame divenne più essenziale, quasi scomparve, e lo schermo si dilatò, le immagini si colorarono. I programmi televisivi, dopo avere stravinto su quelli cinematografici, presero il posto dello psicologo e dell’addetto al marketing. Una volta unificato il linguaggio, passarono a spianare i bisogni e a orientare i consumi. L’ingenuo Carosello di piccoli racconti visivi, ognuno dei quali accompagnava con garbo il telespettatore all’acquisto di un prodotto, fu sostituito dallo straripante martellamento degli spot pubblicitari rapidi, spregiudicati, violenti, ammiccanti, che fecero degli acquisti la prima preoccupazione dei telespettatori, riempiendo le loro teste di idee insensate, le loro case di oggetti futili, i loro frigoriferi di cibi superflui. L’intrattenimento spiazzò ogni altro genere e, da allora in poi, divenne il vettore privilegiato per modificare i gusti, creare i miti, incoraggiare i riti, influenzare le opinioni, vincere le elezioni. A questo punto il devide separò i giovani, più propensi alla discoteca con i coetanei che alla televisione con i «vecchi», da questi ultimi che, più parsimoniosi e più impauriti dalla violenza delle strade, preferivano restarsene a casa davanti al rassicurante teleschermo. Il quale, intanto, aumentava a vista d’occhio le sue offerte di programmi, consentendo a ciascun telespettatore di costruirsi il proprio palinsesto.
Entrata trionfalmente nel XXI secolo, la televisione ha mutato ancora una volta scheletro e pelle, ha moltiplicato le sue forme e i suoi contenuti. È diventata sottile, vasta e curva come uno schermo cinematografico, o piccola e duttile come un iPad. Si è insinuata in tutte le stanze della casa, nelle vetrine dei negozi, nelle cucine dei ristoranti, nelle stazioni e negli aeroporti, nelle automobili, negli aerei, nei computer e nei cellulari. Dopo avere sostituito l’insegnante, il prete e lo psicologo, la televisione ha preso il posto del tribunale e del Parlamento. Oggi decide chi è colpevole e chi è innocente; quali leggi promulgare e quali abrogare; quali alleanze politiche stringere e quali sciogliere. Dopo avere unificato il linguaggio e il consumo, ora l’obiettivo è quello di orientare le scelte politiche, catturare il consenso sociale, manipolare la sfera razionale e soprattutto quella emotiva dei cittadini. La fiction melensa ha sostituito lo sceneggiato letterario e la telenovela di gran classe; il quiz, il reality e il talk show hanno trionfato su ogni altro genere, rendendoci più rozzi, superficiali e tristi attraverso la degradazione del gusto estetico, lo sdoganamento della rissa, la trivialità del linguaggio e dei comportamenti.
Ora la televisione, incalzata da internet, da YouTube, da Facebook, chiede in prestito all’informatica e al web gli strumenti per diventare sempre più miniaturizzata, interattiva, personalizzata, variegata fino a inondare i destinatari con un’overdose di messaggi che neppure i ricettori più colti e più saggi riescono ormai a decodificare, selezionare e metabolizzare senza farsene sopraffare.
Sposata con il cellulare e capace di comunicare a due vie, anche da punto a punto, ora quella che un tempo era televisione consente a ognuno di trasformarsi in regista multimediale per comporre in WhatsApp un mix di parole scritte, parole parlate, foto, musica e filmati, capace di arrivare dovunque in tempo reale. A questo punto, dopo avere unificato il linguaggio, i consumi e i consensi, dopo avere trasformato il popolo in massa e la massa in atomi, la televisione è scomparsa in un ibrido che contiene e miscela ogni altro medium, sfidandoci con la promessa di ulteriori imprevedibili metamorfosi. Resta da vedere se la nostra identità individuale sarà capace di sopravvivere a tanta tempesta di informazioni e sensazioni che si addensa sopra e dentro le nostre teste.
L’ulteriore devide provocato da questo mix di cui il televisore tuttora fa parte non è più tra i pochi fortunati che lo posseggono e i molti che non hanno la possibilità finanziaria di acquistarlo, non è più tra gli integrati consumisti e gli apocalittici snob, ma è tra gli analogici rimasti fedeli alla penna stilografica e i digitali ormai compiutamente addomesticati al computer e al network con le loro infinite metamorfosi ambigue e sorprendenti.