Bellezza

Cos’è la bellezza? Per molti secoli è stata armonia, come i bronzi di Riace, o la Gioconda di Leonardo, o le ville di Palladio. Poi è stata stupore, come Les demoiselles d’Avignon di Picasso, l’Ulisse di Joyce, la Sagra della primavera di Stravinskij, il Beaubourg di Renzo Piano, Gianfranco Franchini e Richard Rogers.

E oggi, cosa è oggi la bellezza? Oggi è senso. Noi cittadini della società postindustriale diciamo che una cosa è bella se, tra le migliaia di cose che ci circondano, proprio quella riesce a staccarsi da ogni altra e acquistare per noi un significato, un senso tutto particolare.

Mentre i nostri antenati avevano carenza di tutto e quindi ogni cosa assumeva ai loro occhi un’importanza specifica, la nostra esperienza è ridondante di cose, di suoni, di immagini che, proprio a causa del loro eccesso, perdono significato, si inflazionano, cadono nell’indifferenza. Conferire bellezza a una cosa significa riscattarla dall’indifferenza. Così, ad esempio, riesce a fare Andy Warhol quando sceglie un oggetto di uso quotidiano – una bottiglia di Coca-Cola o una lattina di Campbell –, lo riproduce a grandezza cubitale e lo recupera esteticamente, imponendolo alla nostra smarrita attenzione anche attraverso un prezzo sproporzionato per cui non è il valore che fa il prezzo ma è il prezzo che fa il valore.

Ma non c’è solo un oggetto bello, una canzone bella, un film bello. C’è anche una vita bella. In che cosa consiste, oggi, la bellezza della vita? La vita dei nostri antenati (ad esempio la vita di mio nonno che faceva il medico in un paesino di provincia) era fatta di pochissime cose, che si ripetevano sempre uguali nel corso delle stagioni e degli anni. La nostra vita, invece, è zeppa di esperienze, di viaggi, di letture, di film, di incontri, di amori. Siamo così incalzati dagli impegni e dagli incontri che sogniamo vacanze in solitudine e riposo totale, dove la felicità consiste nel non vedere gente e non avere scadenze.

Io non credo che un mondo privo di eventi, piatto e immutabile ci compenserebbe dello stress accumulato nella nostra vita frenetica. Piuttosto ci annoierebbe. Io non credo che l’estetica della vita postmoderna consista nello sfoltire la nostra agenda. Piuttosto consiste nel conferire un senso e un significato a tutto ciò che facciamo. Consiste nella capacità di rimettere di continuo in gioco gli equilibri che la nostra pigrizia ci spinge a costruire e a rendere definitivi.

Una vita bella è una vita dove le passioni risorgono e si rinnovano sempre; dove il rischio non smette mai di attirare la nostra curiosità; dove tutti gli eventi, compreso il lavoro, assumono le modalità del gioco, con le sue regole e le sue poste, i suoi rischi e i suoi azzardi, le sue destrezze e i suoi colpi di fortuna, i suoi felici imprevisti e i suoi momenti di riflessione.

L’opposto del gioco (dove tutto è imprevedibile) è la burocrazia (dove tutto è proceduralizzato): come appunto la vita del funzionario o del manager che ogni giorno si sveglia alla stessa ora, arriva in ufficio alla stessa ora, incontra gli stessi colleghi che gli raccontano le stesse barzellette e gli sottopongono le stesse questioni di lavoro futili e scontate, senza mai volare alto, senza mai sognare una vita pienamente felice.

Spesso queste vite sembrano frenetiche perché tempestate dal telefono che squilla, dal capo che convoca, dal cliente che protesta. Ma, in effetti, non fanno che ripetere per anni e anni sempre le stesse liturgie che poi, alla fine di una cosiddetta carriera, consegnano il burocrate alla quiete semi-eterna della pensione e, infine, alla quiete eterna della morte. La vita trasformata in rito è una morte anticipata.

Non sono attratto da coloro che minacciano continuamente a se stessi e agli altri di «ritirarsi in campagna» per fare una vita tranquilla, senza traumi e senza speranza. Mi sembrano tutti disperati, tranne la mia vecchia zia Armida che ripeteva spesso al marito: «Quando uno di noi due muore, io mi ritiro in campagna».

Una semplice rivoluzione
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