Ozio
Nel 1880, mentre era costretto nella prigione di Sainte-Pélagie, Paul Lafargue, genero di Marx, scrisse Il diritto alla pigrizia, un pamphlet destinato a diventare celebre. Ma, tre anni prima, Lafargue aveva pubblicato un altro pamphlet, intitolato La religione del capitale, in cui immaginava un esilarante catechismo compilato dai rappresentanti internazionali della borghesia in congresso a Londra. Alla domanda su quali fossero i doveri fondamentali, il salariato doveva rispondere: «La mia religione mi ordina di lavorare dall’infanzia alla morte, di lavorare alla luce del sole e a quella del gas, di lavorare giorno e notte, di lavorare sulla superficie della Terra, sottoterra e sul mare, di lavorare sempre e dovunque, di inculcare nei miei figli i sacri principi del lavoro».
In omaggio a Lafargue, sullo screensaver del mio computer compare un proverbio spagnolo che sintetizza il concetto di ozio: «Hombre que trabaja pierde tiempo precioso».
Fino all’inizio dell’Ottocento le attività intellettuali erano considerate in blocco come otia: un invidiabile privilegio riservato agli aristocratici e agli intellettuali. Come ci racconta il grande grecista Robert Flacelière nel suo saggio La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, a quei tempi i giorni festivi erano quasi più numerosi di quelli feriali: durante l’anno si succedevano le feste Saturnali e Synoikia, le grandi Panatenee, i misteri eleusini, le feste in onore di Apollo, i riti della semina, le Tesmoforie, le Apaturie (o festa delle fratrie), la festa degli Halòa, le Falloforie in onore di Dioniso, le feste Gamelie e le Lenee, le Antesterie, le Cloia, le Diasie, i riti propiziatori in onore di Atena, le Grandi Dionisie, la festa dei Munychia, le Targelie, le Scirophorie, le Dipolie e le Arretoforie. La maggior parte delle celebrazioni comprendeva agoni ginnici, concorsi lirici, musicali, drammatici e di bellezza. Nelle sole Grandi Dionisie, tutti gli ateniesi assistevano ai ditirambi e ad almeno quindici opere teatrali ascoltando, in quattro giorni, circa 20.000 versi recitati e cantati. Non si trattava, dunque, dell’affaccendamento stressato cui sono costretti oggigiorno gli impiegati dei ministeri e i manager dei centri direzionali: si trattava di una riflessione gioiosa e corale dal cui humus è scaturita una delle più grandi civiltà di tutti i tempi. Si trattava di ozio elevato ad arte.
Per almeno cinque secoli, a partire dal II a.C., la maggior parte dei cittadini romani, a Roma e in tutto il mondo allora romanizzato, usciva ogni mattina dalla propria casa, andava alle terme e vi svolgeva la maggior parte delle proprie attività mescolando la cura del corpo, il divertimento, lo studio e gli affari, fino all’ora del tramonto. Per almeno cinque secoli i Romani identificarono nelle terme il proprio modello di vita e di civiltà, diffondendolo in tutto il mondo come massima forma e garanzia di romanizzazione.
Non molto diversa da Atene e da Roma doveva essere la vita sociale nella Firenze medicea e nella Vienna Jugendstil. Se è vero che Otto Wagner e Hoffmann, Freud e Musil, Klimt e Mahler lavoravano almeno dodici ore al giorno, è anche vero che una parte cospicua di queste dodici ore trascorreva nei meravigliosi caffè liberty, in quelle fecondissime conversazioni interdisciplinari che uno studente della London School of Economics o un manager sfornato da Harvard scambierebbero per chiacchiere oziose di sfaccendati.
Con l’avvento della società industriale, lo stacanovismo divenne una virtù e il concetto di ozio ingenerò sensi di colpa. All’operaio è lecito riposare quel tanto necessario per recuperare le forze fisiche stremate dalla fatica. Se le sue ore di riposo eccedessero questo recupero, egli rientrerebbe nella categoria aborrita degli oziosi contro i quali gli operosi nutrono un sordo rancore attribuendo alla parola «ozio» significati prevalentemente spregiativi. «L’idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i ricchi» dice Bertrand Russell. E se cercate in qualunque vocabolario i sinonimi della parola «ozio» ne troverete almeno una quarantina con accezioni negative: da fannullaggine a scapestratezza, da negligenza ad accidia. L’accidia è addirittura uno dei sette peccati capitali.
Ma ora che, nella società postindustriale, la longevità e le tecnologie moltiplicano il tempo libero mentre la scolarizzazione assicura maggiori livelli culturali a una fascia sempre più ampia di cittadini, è arrivato il momento di restituire all’ozio tutta la sua preziosa dignità. Se l’entertainment è commerciale, superficiale e sterile, se il divertimento è spassionato, genuino e gradevole, l’ozio è vitale, complesso e fecondo. L’ozio è un’arte. Un’arte che oggi, grazie alle condizioni oggettive, la maggior parte della popolazione attiva potrebbe ricominciare a coltivare se non ne fosse dissuasa da quattro cervellotici capi di imputazione sollevati dagli operosi. 1) L’ozioso è incline ad abbandonarsi all’alcol o alla droga, a scatenarsi in atti di violenza, stupri e vandalismi. 2) L’ozio sgretola le comunità attraverso la diffusione di un individualismo anarcoide e narcisista per cui ciascuno finisce col fare soltanto il proprio comodo infischiandosene delle esigenze sociali e dei sacri princìpi della solidarietà umana. 3) Agli oziosi e ai sindacati che li proteggono sono addebitabili le crisi economiche, il passivo delle bilance dei pagamenti, i fallimenti delle famiglie e delle imprese, lo sbando dei servizi pubblici, i crolli di Borsa. 4) La diffusione dell’ozio crea le condizioni di una guerra tra sfaccendati e laboriosi, con conseguente possibile instaurazione di regimi autoritari.
Come si vede, per quanto cavillosa, ansiosa e ansiogena possa essere la ricerca di conseguenze negative derivabili da un’eventuale diffusione dell’ozio, nulla di catastrofico si riesce a imputargli che non sia stato già causato, abbondantemente e frequentemente, dalla laboriosità.
Contro i detrattori dell’ozio non vi sono che le armi della saggezza e dell’ironia. Norman Douglas, che non difettava né dell’una né dell’altra, insinuava che il cattivo uso dell’ozio provocasse i danni più disparati, dal mal di denti alla calvizie.
In omaggio all’assonanza e al conformismo, si continua a ripetere che l’ozio è il padre di tutti i vizi. In realtà, è stata proprio la classe oziosa, come scrive Bertrand Russell «che coltivò le arti e scoprì le scienze, che scrisse libri, inventò sistemi filosofici e raffinò i rapporti sociali. Persino la campagna per la liberazione degli oppressi partì generalmente dall’alto. Senza una classe oziosa, l’umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie». Sappiamo per certo che un’epoca di grande attivismo come quella della società industriale ha provocato guerre e brutture d’ogni genere. Ciò legittima l’ipotesi che una civiltà dell’ozio possa generare più cortese solidarietà, più serena introspezione e più gioiosa convivialità.
Ma l’utilità dell’ozio può essere colta pienamente solo in connessione con la creatività, cioè con l’attività umana centrale nella società postindustriale. Secondo Max Weber, l’operaio che lavorava nella «inumana gabbia» della fabbrica consumava le sue dieci ore di lavoro quotidiano in attesa del suono della sirena che finalmente lo restituiva alla famiglia e al tempo libero. E Marx dice che gli operai sfinivano il loro corpo, distruggevano il loro spirito e si sentivano talmente estranei che, non appena veniva meno la costrizione, essi fuggivano il lavoro come la peste.
Allora oziare significava soprattutto riposare per recuperare le forze tenendo fermo e inutilizzato il corpo, cioè l’impianto più costoso di cui disponevano i datori di lavoro. Di conseguenza, oziare al di fuori dei tempi e dei luoghi consentiti, rappresentava un attentato al capitale: cioè alla società e alla religione.
Oggi, però, tanto il lavoro quanto il tempo libero implicano soprattutto un impegno di natura intellettuale, mettono in gioco il cervello, richiedono flessibilità e inventiva. Il datore di lavoro non compra più la forza bruta ma esige pensiero e creatività. Ecco dunque rispuntare l’ozio come fattore centrale della moderna economia. In un mercato postindustriale che consuma idee con la stessa voracità con cui il mercato industriale ingurgitava prodotti, e che pretende una creatività inesauribile, la capacità ideativa può essere incrementata solo attraverso una rivalutazione dell’ozio, che permette di rigenerare la mente dei creativi così come l’inerzia rigenerava il corpo degli operai.
Nell’attività creativa, che non ha limiti di tempo e di spazio, impegnando il «lavoratore» ventiquattro ore su ventiquattro, l’ozio rappresenta quella sorta di dormiveglia dello spirito durante il quale le intuizioni lievitano dall’inconscio e vanno a condensarsi in idee nuove. È l’ozio, dunque, che permette il necessario distacco dai problemi che ci assillano e consente l’immersione in quella sorta di limbo della mente dove fluttua il plancton della nostra creatività.
Che io sappia, chi ha rimarcato con più vigore questo merito dell’ozio è Hermann Hesse in un articolo del 1904 (L’arte dell’ozio, che anni dopo, nel 1973, aprirà, dandole anche il titolo, la sua raccolta di riflessioni sul tema) in cui denunzia che l’attività industriale, inculcando fin dall’infanzia l’ideale di uno sforzo coatto e ansioso, ha screditato e distrutto l’arte di oziare, cioè il presupposto indispensabile per il lavoro intellettuale. Perciò Hesse contrappone la fretta della nostra fantasia sovraffaticata al fascino potente dell’indolenza orientale, «vale a dire l’ozio sviluppato, padroneggiato e assaporato fino a diventare arte». Hesse dice che, per «tutti coloro che provano il bisogno e la necessità di sentirsi vivere e crescere, di essere coscienti dei fondamenti delle proprie energie, e di costruire se stessi secondo leggi congenite», per tutti coloro che nel 1904 potevano essere identificati solo con i pochi artisti ma che oggi sono i milioni di lavoratori della mente, «la personalità non è un lusso, bensì condizione esistenziale, aria vitale, capitale irrinunciabile». Per questi lavoratori la pausa non è uno spreco di tempo ma la condizione essenziale per gustare e alimentare se stessi nell’atto di costruire, comporre e creare, «per chiarirsi nuove conoscenze e portare a maturazione il lavoro inconscio, in parte per riavvicinarsi ogni volta, con disinteressato fervore, al mondo naturale, diventando nuovamente bambini, sentendosi di nuovo amici e fratelli della terra, della pianta, della roccia e della nube».
Come si vede, siamo lontani mille miglia dall’ideale di lavoratore, di manager e di professional tuttora coltivato nelle business school, eppure è questa la sfida che attende le organizzazioni: formare e valorizzare i creativi salvandoli dalla sciagura dello stress e dagli opposti pericoli di «un lavoro intempestivo e svogliato» o di «un vuoto cogitabondo e scoraggiante».
Con il diritto al lavoro l’uomo realizzò la sua condizione industriale, con il diritto all’ozio l’uomo realizzerà la sua condizione postindustriale. Quel diritto all’ozio, che restava utopistico per gli operai della società industriale, è finalmente realistico per i lavoratori intellettuali della società postindustriale, purché iniziati alla cultura e all’arte dell’ozio. Occorre che essi ne prendano coscienza, combattano l’oscurantismo dei burocrati ammuffiti e degli iperattivi alienati, convincendosi che la contrapposizione tra lavoro e ozio non ha più alcun senso.
Anche il lavoro creativo aliena, anche il creativo non vive in sé ma nelle sue idee, che sono la sua opera d’arte. Ma tra l’opera d’arte e il suo creatore esiste una simbiosi ben più salda di quella che labilmente legava l’operaio e l’impiegato al loro prodotto fatto in serie. Mentre l’alienazione del lavoratore esecutivo svuota, l’alienazione del lavoratore creativo riempie, colma, deborda. L’opera esecutiva appartiene all’azienda; l’opera creativa, anche quando è venduta all’azienda, appartiene per sempre al suo autore. Il lavoratore esecutivo marchia il pezzo affinché gliene possano essere imputati gli eventuali difetti; il lavoratore creativo griffa l’opera affinché gliene possano essere tributati i meriti, per sempre.
Ciò di cui la civiltà dell’ozio non può fare a meno è la propria, ininterrotta crescita culturale. Come concluderebbe Russell, «una popolazione che lavori poco, per essere felice deve essere istruita, e l’istruzione deve tener conto delle gioie dello spirito, oltre che dell’utilità diretta del sapere scientifico».