Johannesburg
Nell’autunno del 1842 giunse a Londra il ventiduenne Friedrich Engels, rampollo di una ricca famiglia di industriali renani, che avevano una filiale a Manchester. Friedrich, colpito dalle misere condizioni in cui versava la classe operaia inglese, per comprenderne la portata e le cause condusse una scrupolosa ricerca sociologica durata 21 mesi, che fu pubblicata il 15 marzo 1845 con il titolo La situazione della classe operaia in Inghilterra, destinata a diventare un «classico» della letteratura sociologica. Cosa troverebbe e cosa farebbe oggi un redivivo Engels se girasse il mondo, se si fermasse in Paesi come gli Stati Uniti o il Brasile e se facesse una puntata in Italia? Nel mondo troverebbe che i 62 più ricchi della graduatoria elaborata dalla rivista «Forbes» (li abbiamo già incontrati e li incontreremo ancora nel nostro percorso) hanno una ricchezza pari a quella di 3 miliardi e mezzo di poveri, cioè mezza umanità vivente.
Troverebbe che il rapporto quantitativo tra ricchi e poveri evolve in modo perverso. Secondo il World Population Prospect 2000 dell’Onu, agli inizi del nostro secolo la popolazione mondiale era composta da un miliardo e 200 milioni di ricchi, contro 4 miliardi e 800 milioni di poveri. In altri termini, i poveri erano quattro volte più numerosi. Nel 2050 i ricchi saranno un miliardo e 190 milioni, cioè meno di oggi; mentre i poveri saranno 8 miliardi e 110 milioni: cioè sette volte più numerosi dei poveri attuali. Come si vede, si acuisce il divario che già nell’Ottocento denunziavano Marx da una parte e Leone XIII dall’altra. Diceva la Rerum Novarum nel 1891: «Un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile».
Cosa troverebbe Engels se concentrasse la sua attenzione sugli Stati Uniti? Negli anni Sessanta il presidente Lyndon Johnson dichiarò una war on poverty per aiutare i troppi americani che vivevano alla «periferia della speranza». Negli anni Ottanta il presidente Ronald Reagan confessò: «Abbiamo combattuto una guerra contro la povertà negli anni Sessanta e la povertà ha vinto». Oggi negli Stati Uniti, il Paese più ricco e potente del mondo, 30 milioni di cittadini vivono in stato di povertà e più di 20 milioni vivono in stato di estrema povertà.
In Brasile Engels troverebbe che il 10 per cento della popolazione bianca possiede il 75 per cento di tutta la ricchezza. Il 6 per cento dei brasiliani è miliardario e, nella classifica mondiale dei miliardari, il Brasile è al dodicesimo posto. Tra i 20 milioni di brasiliani più ricchi, 18 milioni sono bianchi; tra i 20 milioni di brasiliani più poveri, 15 milioni sono neri. La popolazione carceraria brasiliana, circa 550.000 prigionieri, è formata prevalentemente da giovani tra i 18 e i 34 anni, poveri, neri e con istruzione bassa.
E in Italia? Cosa troverebbe il giovane Engels in Italia? Troverebbe 5 milioni di poveri e 5 milioni di poverissimi. Troverebbe che i ricchi si sono arricchiti persino in tempi di crisi, mentre i poveri sprofondavano. Durante i primi sei anni della crisi, tra il 2008 e il 2013, la ricchezza detenuta dai poveri è diminuita ulteriormente dell’11 per cento mentre quella detenuta dai ricchi è aumentata ulteriormente del 70 per cento. Esaminiamo questo disastro in termini più puntuali. All’inizio della crisi, nel 2008, le dieci famiglie italiane più ricche avevano un patrimonio (immobili, denaro liquido e risparmi investiti) pari a quello di 9 milioni di italiani poveri; nel 2013, dopo sei anni di crisi, la loro ricchezza superava quella di 18 milioni di italiani poveri. Ancora più in dettaglio: nel 2008 le dieci famiglie più ricche possedevano 58 miliardi mentre i 18 milioni di cittadini meno ricchi possedevano, tutti insieme, 114 miliardi; nel 2013 le dieci famiglie più ricche possedevano 98 miliardi mentre i 18 milioni di cittadini meno ricchi possedevano, tutti insieme, 98 miliardi. Nel 1913 le dieci famiglie più ricche possedevano una ricchezza sei volte maggiore di quella posseduta dai 12 milioni di italiani più poveri.
Non meno scandalose sono le disuguaglianze all’interno delle aziende. Trenta anni fa, nelle banche americane, il rapporto tra la retribuzione di un lavoratore medio e quella di un Cio era di 1 a 40; oggi è di 1 a 400. Adriano Olivetti aveva stabilito che nella sua azienda lo stipendio del presidente non dovesse superare più di cinque volte il salario di un operaio. Nella Fiat, Valletta elevò il rapporto da cinque a venti. Nel 1910 Marchionne ha guadagnato 435 volte più di un operaio se si considera il solo stipendio e 1037 volte (38 milioni di euro all’anno) se si aggiungono le stock option. Nella Fininvest Berlusconi ha guadagnato 11.490 volte più di un dipendente.
Come ha giustamente osservato Luciano Gallino, «i redditi da lavoro hanno perso negli ultimi venticinque anni almeno 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale. Perdere un punto di Pil, significa che ogni anno 16 miliardi vanno ai secondi invece che ai primi. Questa ridistribuzione dei redditi dal basso verso l’alto ha impoverito i lavoratori, contribuito alla stagnazione della domanda interna, ed è uno dei maggiori fattori alla base della crisi economica in corso».
C’è da chiedersi come mai, in società democratiche come gli Stati Uniti, il Brasile, l’Italia, dove l’informazione rende pubbliche queste cifre, illustrate e commentate in diecine di trasmissioni televisive, le classi tartassate non si ribellino facendo leva sulla loro smaccata preponderanza numerica. Il fatto è che essere accomunati in una medesima situazione di povertà costituisce semplicemente ciò che Marx chiamava «classe in sé», cioè una situazione che inclina all’assuefazione, allo scoraggiamento, all’inerzia. Perché la condizione oggettiva di indigenza si trasformi in potente forza antagonista, occorre che la massa diseredata diventi «classe per sé» prendendo coscienza dello sfruttamento subìto, individuandone i colpevoli, organizzandosi intorno alle sue avanguardie e conducendo una lotta serrata nei confronti della controparte, senza perdere di mira il proprio riscatto e, con esso, quello di tutta l’umanità. Purtroppo, invece, oggi i poveri di ogni Paese – alienati dal consumismo e afflitti dall’ignoranza – sommano alla povertà l’assenza di un’organizzazione finalizzata alla loro dignità economica, alla loro formazione culturale e alla loro aggregazione politica, un’organizzazione capace di trasformarli nella forza coesa, indispensabile per riscattare se stessa e l’intera società malata.
In un saggio pubblicato nel 1999 sulla rivista «Pluriverso», constatavo che, a partire dagli anni Settanta, i ricchi hanno rovesciato la direzione della lotta di classe conducendone una senza quartiere contro i poveri. Warren Buffett (il più grande investitore e il quarantesimo uomo più ricco di tutti i tempi, con un patrimonio personale netto di 73 miliardi di dollari) ha dichiarato senza mezzi termini: «C’è la guerra di classe, d’accordo. Ma è la mia classe, siamo noi ricchi che stiamo facendo la guerra, e la stiamo vincendo».
Nell’articolo mi chiedevo se fosse ancora possibile evitare che la classe agiata cadesse in una sorta di «sindrome di Johannesburg» arroccandosi ulteriormente nei suoi privilegi anziché impegnarsi a ridurre la conflittualità sociale attraverso un’equa ridistribuzione della ricchezza e del potere. Le cifre che ho appena esposto dimostrano che non era possibile.
Numerose ricerche dimostrano che la parte ricca della popolazione americana, una volta superata la soglia della povertà, non identifica più la qualità della vita con l’incremento del reddito. In trent’anni il reddito è raddoppiato ma la percentuale di cittadini che si dicono soddisfatti è addirittura scesa di qualche punto. Dunque la ricchezza, soprattutto se mal prodotta e mal distribuita, invece di creare senso di benessere, provoca rammarico e il rammarico si traduce in astio dei ricchi contro i poveri di tutto il mondo, proprio come è avvenuto per anni in Sudafrica, dove l’esigua popolazione bianca ha tentato di ghettizzare la straripante massa nera.
L’Ottocento e il Novecento sono stati segnati dalla lotta di classe dei poveri contro i ricchi; il XXI secolo sarà segnato dalla lotta di classe dei ricchi contro i poveri, ma non è ancora detto che i ricchi, come proclama l’imprudente Warren Buffett, l’abbiano vinta una volta per tutte.
La situazione attuale, così drammaticamente e ingiustamente sperequata, dimostra che non si è evitata affatto la «sindrome di Johannesburg» per cui i ricchi hanno sempre più paura dei poveri e si arroccano in un isolamento sempre più ostile, che potrà ritorcersi contro di loro ed essergli fatale.
Parlando al Financial Times Business of Luxury Summit che si è tenuto a Monaco nel 2015, Johann Rupert (patrimonio personale netto di 7,7 miliardi di dollari, chairman del gruppo Richemont, massima holding del lusso che comprende Cartier, Montblanc, Piaget, Chloé, Vacheron Constantin e un’altra ventina di aziende miliardarie) ha confessato che la prospettiva che i poveri insorgano e il pensiero di un possibile sconvolgimento sociale lo terrorizzano fino a non fargli chiudere occhio. Durante un anno sabbatico, dedicato alla lettura e alla pesca, Rupert ha potuto riflettere sui cambiamenti che la tecnologia apporterà nel mondo del lavoro e sui dati Oxfam secondo cui l’1 per cento della popolazione mondiale possiede più ricchezza del restante 99. Ne ha dedotto che, quando il povero insorgerà, le classi medie non vorranno acquistare beni di lusso per paura di esporre la propria ricchezza. E si è detto: «La società come si sta preparando ad affrontare la disoccupazione strutturale e l’invidia, l’odio e la guerra sociale? Stiamo distruggendo la classe media in questa fase. È ingiusto. Ecco, questo è ciò che mi tiene sveglio la notte».
I ricchi reagiscono alla paura aggrappandosi al neoliberismo, riducendo gli aiuti umanitari, ostacolando i flussi migratori, eliminando il welfare, scatenando guerre militari, peggiorando la qualità dell’istruzione e degli altri servizi, aumentandone i prezzi, provocando crisi economiche che rendono più ricchi i già ricchi mentre allargano la fascia dei più poveri. In Italia, a causa della crisi, nel 2015 il numero dei morti è cresciuto dell’11 per cento rispetto al 2014. Negli ultimi cento anni un’impennata simile si era avuta solo nel periodo 1915-18 e nel 1943, in occasione delle due guerre mondiali.
La guerra molto sofisticata che i ricchi stanno conducendo contro i poveri adotta tattiche diverse a seconda delle fasce sociali e razziali dei «nemici». Contro i poveri del Terzo Mondo viene esercitata una pressione affinché si trasformino in un inerme esercito industriale di riserva e in un immenso mercato per tutta la mercanzia avariata e per tutti gli scarti del Primo Mondo. Contro le classi medie del Primo Mondo viene esercitata una manipolazione come si conviene con avversari scolarizzati, da trasformare in esecutori specializzati, motivati e docili sul lavoro, in consumatori voraci, colti e arrendevoli nel tempo libero, in cittadini comunque impauriti dall’insicurezza fisica e occupazionale.
Andando di questo passo, ben presto qualche milione di creativi basterà per produrre tutte le idee necessarie a sostenere il ritmo del progresso e per assicurare ai ricchi il massimo comfort. Questa ristretta élite, coadiuvata da pochi altri milioni di collaboratori di alto livello, servita da una tecnologia onnipotente e onnivora, si approprierà di tutto il potere economico e politico, potendo contare indisturbata sull’obbedienza di masse di esecutivi tanto più inermi quanto più scolarizzati. Già se ne scorgono le avvisaglie, soprattutto nelle aziende dove i «proletari» una volta erano gli operai ribelli e ora sono gli impiegati e il middle management, più inclini e educati alla rassegnazione.
Questo problema diventa tanto più insolubile quanto più declinano le ideologie religiose e laiche di tipo solidaristico, sostituite da visioni egoistiche basate sull’estrema competitività individuale e globale. Ai proletari sfruttati dell’Ottocento, Marx non proponeva (se non come estremo rimedio, come fase rivoluzionaria provvisoria e strumentale) di disarcionare gli sfruttatori e mettersi al loro posto: proponeva di assumersi il compito di un riscatto universale; proponeva di costruire una società nuova, senza più sfruttatori né sfruttati. Ai concorrenti del Duemila, l’utilitarismo liberale non propone di costruire una società nuova, più giusta e più felice: propone di battere gli avversari e di appropriarsi della loro fetta di mercato; propone di costruire il progresso disinteressandosi delle sue vittime.
Ciò predispone un immenso potenziale eversivo, nutrito di invidia sociale, di rancore e di vendetta. Per ora questo potenziale trova ascolto e accoglienza solo presso la Chiesa cattolica, incline a convogliarlo verso pacifici approdi di perdono, carità e misericordia. Ma quando questi argini dovessero diventare insufficienti, allora la conflittualità, annullata la passiva rassegnazione, tracimerebbe in lotta cruenta e in successivi conati di un nuovo sistema sociale che, proprio perché nato dalla violenza, sarebbe destinato a risolversi in ulteriore fallimento epocale. Un certo Stan O’Neal, Ceo di Merrill Lynch, ha detto che «non sempre essere spietati è una brutta cosa». Certamente si riferiva alla mancanza di pietà dei ricchi come lui verso i poveri, dei carnefici verso le vittime. Ma è molto probabile che, prima o poi, a rivoltarsi saranno le vittime e che il rancore accumulato in decenni di emarginazione, le renderà spietate come nella rivoluzione borghese del 1789 o come nella rivoluzione proletaria del 1917.