Terzavia

Specchio delle mie brame, chi era il più bello del reame? Il più bello, il più bravo, il più fico, il più in, il più out era Tony Blair di cui ci siamo ormai dimenticati ma che tuttora rappresenta un modello di primo ministro per il premier italiano Matteo Renzi e per tanti altri premier al di qua e al di là dell’oceano. Non aveva il culone sedentario di Bill Clinton o di Angela Merkel, non aveva il faccione scoraggiante di Romano Prodi, non aveva il pancione straripante di Helmut Kohl, non aveva l’aria furba e arrapata di Silvio Berlusconi, non aveva il naso pinocchiesco di François Hollande, non aveva l’aria esterrefatta di Putin. Era perfetto.

Quando recitava i salmi sulla bara della principessa Diana, il suo viso diventava fané senza bisogno di mettere un filtro alla telecamera. Quando ballava col gonnellino scozzese era più bello di un transessuale in vacanza. Quando passeggiava con moglie e figli, tutte le mogli e tutti i figli della Gran Bretagna avrebbero voluto un marito e un padre così.

La vecchia Inghilterra ci ha abituati a sorprese di questo genere. Quando sembrava che Napoleone l’avesse messa definitivamente in ginocchio, si inventò un ragazzino micidiale come William Pitt, che in pochi mesi liquidò l’imperatore e restituì la Francia al primato dei formaggi.

Quando sembrava che Lord Brummel fosse riuscito ad abolire per sempre i colori rinascimentali incartando i baronetti dentro abiti funerei color «fumo di Londra»; quando sembrava che la regina Vittoria fosse riuscita ad ammosciare ogni guizzo di erotismo anglosassone, pudicamente coprendo i seni delle donne e persino le gambe dei tavoli, ecco insorgere il circolo di Bloomsbury, con la spregiudicata omosessualità delle varie Virginia Woolf e Maynard Keynes e Forster e Strachey.

Quando sembrava che Elisabetta fosse riuscita a trasformare tutte le donne inglesi in resistibili zitelle, ingolfandole con cappellini e gonnelloni e scarpacce, eccoti spuntare a Carnaby Street le mitiche Twiggy e Mary Quant con le loro minigonne a prova di pudenda.

E poi, quando la ferrosa Margaret Thatcher credeva di aver seppellito per sempre la gioia di vivere dei suoi connazionali sotto un cumulo di liberi mercati e di privatizzazioni, eccoti spuntare lui: il più bello, il più bravo, il più fico, il più in, il più out: Tony Blair.

Non siamo più nel Settecento o nell’Ottocento, quando occorrevano colossi del pensiero per costruire un «ismo». Oggi non è più necessario un Diderot per creare l’Illuminismo, né un Marx per creare il marxismo, né un’Idea per creare l’Idealismo. Bastano uomini e concetti molto più modesti. A conferirgli una statura da leader ci penseranno i mass media e la voglia di idoli, sempre più diffusa tra la gente medio-confusa.

Se è bastata una principessa borghese come Diana per fare il «dianismo», un Tony Blair basta e avanza per fare il «blairismo». Prima o poi, non potremo non dirci nuovamente «blairisti». Né, tutto sommato, deve dispiacerci perché, ridimensionato Gorbačëv e sparito Mitterand, rimasero solo due cavalli in corsa per conquistare l’audience e per «fare tendenza»: il «santo subito» Giovanni Paolo II e il nostro Tony Blair.

Bisogna riconoscere che san Giovanni Paolo ce la mise tutta nel suo rash finale per conquistare i giovani nell’aldiquà e il paradiso nell’aldilà. Chiese perdono a Galileo, chiese perdono alle donne, baciò i lebbrosi di suor Teresa di Calcutta, nominò «dottore della Chiesa» l’esile santa Teresina, cantò a Napoli ’O sole mio con Mario Merola e a Bologna Blowin’ in the Wind con Bob Dylan. Se Dio è dappertutto, lui ci era già stato.

Ma contro di lui militavano due handicap: era troppo integralista per non destare il sospetto di astuzia populista quando scopriva tardivamente le novità di questo mondo; era troppo anticomunista per avallare una sua posizione intermedia tra il socialismo che odiava e il capitalismo che preferiva.

Dal 1891, anno della Rerum Novarum di Leone XIII, al 1991, anno della Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, la Chiesa non ha mai desistito dal tentativo di tracciare e occupare una terza via tra capitalismo e socialismo, condannando l’uno e l’altro. Se però gli strali di Leone XIII si distribuivano quasi equamente contro le due ideologie, Giovanni Paolo II è stato implacabile contro il comunismo e sfumato contro il capitalismo. Nella Centesimus Annus comincia col dare una botta al cerchio e una alla botte: «Non è possibile comprendere l’uomo partendo unilateralmente dal settore dell’economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all’appartenenza di classe». Ma poi non sa trattenersi dal dare il colpo di grazia al comunismo: «Lotta di classe in senso marxista e militarismo hanno le stesse radici: l’ateismo e il disprezzo della persona umana, che fan prevalere il principio della forza su quello della ragione e del diritto». Al capitalismo è invece riservato un trattamento di favore, affidato ai distinguo: «Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva… Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa».

Ma anche il santo Wojtyla non sa resistere alla tentazione di monopolizzare una terza via e la escogita con alcuni successivi passaggi. Anzitutto rivendica alla Chiesa il merito esclusivo di offrire ai lavoratori una «visione della dignità della persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo incarnato». Tradotta in parole meno esoteriche, questa «visione» consiste nel riconoscere «la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell’azienda, di modo che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso, “lavorare in proprio” esercitando la loro intelligenza e libertà».

Poi Wojtyla, riconoscendo la positività del mercato e dell’impresa indirizzati verso il bene comune, chiede allo Stato di garantire ai cittadini la possibilità di svolgere il lavoro dignitosamente, in modo da svuotare «il comunismo del potenziale rivoluzionario costituito da moltitudini sfruttate e oppresse». Regolando i rapporti economici, esso Stato deve creare «le condizioni prime di un’economia libera, che presuppone una certa eguaglianza tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente dell’altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù». Dunque non occorre che l’eguaglianza tra le parti sia piena: basta che la prevalenza di una delle due non arrivi alla strapotenza.

Nei confronti del conflitto, la terza via di san Giovanni Paolo consiste nel riconoscere il diritto a contestare il patrimonio dei valori tramandati e acquisiti «discernendo ciò che nella tradizione è valido da falsità ed errori o da forme invecchiate, che possono esser sostituite da altre più adeguate ai tempi». Più articolato è il giudizio nei confronti della lotta di classe: «Il Papa, beninteso, non intende condannare ogni e qualsiasi forma di conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza. L’enciclica Laborem Exercens, del resto, ha riconosciuto chiaramente il ruolo positivo del conflitto quando esso si configuri come lotta per la giustizia sociale, e già la Quadragesimo Anno scriveva: “La lotta di classe, quando si astenga dagli atti di violenza e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia”. Ciò che viene condannato nella lotta di classe è l’idea di un conflitto non limitato da considerazioni di carattere etico o giuridico, che si rifiuta di rispettare la dignità della persona nell’altro (e, di conseguenza, in se stesso), che esclude, perciò, un ragionevole accomodamento e persegue non già il bene generale della società, bensì un interesse di parte che si sostituisce al bene comune e vuol distruggere ciò che gli si oppone».

Ciò che la Chiesa ha tentato di fare con la religione, Tony Blair (istruito dal suo mentore, il sociologo Anthony Giddens) ha cercato di rifare con la politica prendendo in prestito l’idea di «via di mezzo» dal suo predecessore Harold Macmillan, primo ministro britannico dal 1957 al 1963, che a questa idea ispirò il suo governo e dedicò un saggio pubblicato nel 1938. Cavalcando questa ideologia che, per non dirsi laburista, si autodefiniva new-labour, il nostro Blair ha assecondato le privatizzazioni in Gran Bretagna e ha condiviso, come principale alleato degli Stati Uniti e amico personale di George W. Bush, le stravaganti e sfortunate operazioni di peacekeeping in Iraq.

Inventata dai movimenti socialdemocratici timorosi di imparentarsi con il comunismo e dai movimenti liberali timorosi di scantonare nel fascismo, la terza via nasce con l’intenzione equilibrista di realizzare un assetto socioeconomico intermedio tra liberalismo e socialismo, senza però essere centrismo, e appropriandosi dell’interventismo keynesiano. Secondo questa ideologia basata sul principio del tertium datur, ormai mutate le condizioni in cui maturarono le idee comuniste di Marx ed Engels e altrettanto mutate anche le condizioni in cui maturarono le idee socialiste di Owen e di Bernstein, a questo punto il capitalismo non va più abolito ma va addolcito e blandito. Si perviene così a quel new capitalism che Tony Blair ventilò in un suo speech immeritatamente famoso, tenuto alla «New World, New Capitalism» Conference organizzata nel 2009 dal presidente Sarkozy e dall’economista Éric Besson.

Cosa diceva Blair in quello speech? Iniziava dicendoci che la crisi economica appena esplosa era la maggiore, la più delicata e complessa dei suoi tempi ma terminava assicurando che la stessa crisi, vitale in se stessa, era una chance, un’opportunità, una lezione per il progresso umano e per il futuro di tutti. Se aveste chiesto agli esperti dove stavamo andando a finire, la risposta più frequente sarebbe stata unprecedented; ma se aveste posto a Tony domande cruciali su quale sorte attendesse il sistema della libera impresa e che tipo di capitalismo volessimo per il nostro futuro, dal momento che nel futuro del suo socialismo non si intravede altro che capitalismo, qualcosa avrebbe saputo rispondere.

Nell’incertezza dominante, Blair ci ancorava a quattro certezze, ancora valide oggigiorno: 1) l’origine di questa crisi è di natura finanziaria. Quando i consumatori non spendono, gli imprenditori non investono e le banche non concedono prestiti; 2) l’impatto sull’economia reale comporta la necessità che si stimoli la domanda. Dovendo scegliere, occorre privilegiare gli investimenti nelle energie rinnovabili, nella scienza, nella tecnologia, nell’educazione e nell’innovazione; 3) occorre offrire supporti alle vittime della crisi, prima di tutto ai disoccupati, ma purtroppo il welfare tradizionale non è attrezzato per affrontare la natura e la grandezza di questo tsunami; 4) urge un coordinamento dei rapporti di potere e un common understanding tra Europa, Stati Uniti, Medio Oriente e Cina. Purtroppo stiamo governando il mondo del XXI secolo con le istituzioni del XX secolo. Basti pensare che in quel cosiddetto economic club of the world del G7 erano presenti quattro nazioni europee ma non c’era la Cina, non c’era l’India, non c’era il Brasile, non c’era neppure una nazione del Medio Oriente e dell’Africa.

L’attuale crisi ci insegna che oggi non esiste nel mondo un governo nazionale così potente da esercitare una governance globale. D’altra parte, quando ci chiediamo se la globalizzazione sia un bene o un male, supponiamo che essa sia stata creata dai governi e che i governi possano modificarla. Invece la globalizzazione è opera dei popoli: non è un semplice fatto economico ma riguarda internet, il suo potere comunicativo, la sua capacità di abbattere le frontiere. Riguarda i viaggi di massa, le migrazioni, i media moderni. È in parte un’attitudine della mente. È ciò che i giovani hanno scelto di essere.

Perciò la globalizzazione «needs values to be equitable».

A tale scopo occorre recuperare la fiducia nel sistema finanziario. Occorre che il sistema persegua valori diversi dalla massimizzazione dello short-term profit, andando al di là della mera speculazione e della furbizia negli affari.

Dunque il new capitalism non è un ritorno al passato. Il cambiamento che Tony Blair cercava non riguarda la sostituzione del «free enterprise system or the market» ma la necessità di sostenerlo in modo stabile e duraturo.

La soluzione blairiana della terza via si affidava all’interventismo economico keynesiano e lo contrapponeva alla mitica mano invisibile del neoliberismo che difende a oltranza il libero mercato e la riduzione del peso dello Stato nella vita pubblica fino al punto di «affamare la bestia», come amava dire Reagan.

Secondo la concezione di Blair, la terza via, preso atto che il socialismo moderno ha superato la fase marxiana della lotta per l’abolizione del capitalismo, deve farsi alfiere della giustizia e della coesione sociale, dell’eguaglianza di tutti i cittadini e delle pari opportunità. Giddens vi aggiungeva la rimozione degli elementi ingiusti del capitalismo grazie all’incentivazione di politiche come il welfare.

Per assicurarsi una posizione intermedia tra capitalismo liberale e socialismo democratico, la terza via offre le sue opzioni. Nell’economia rifiuta il concetto di decrescita, è favorevole al mondo imprenditoriale, punta al pareggio di bilancio, alla collaborazione pubblico-privato ma anche al sistema sanitario nazionale, privilegia gli investimenti nella ricerca e nella formazione, incoraggia lo sviluppo tecnologico e la salvaguardia ambientale. Nella società esige la giustizia sociale garantita dallo Stato e la protezione del capitale sociale; punta all’egualitarismo raggiunto attraverso le pari opportunità, la ridistribuzione delle conoscenze, delle capacità e dei mezzi di produzione (ma non delle ricchezze) tra le classi sociali. Dal cittadino esige la responsabilità morale. Nella politica adotta il decentramento del potere governativo, il riformismo, il gradualismo, il pluralismo della democrazia liberale.

Ecco come Tony Blair, parlando al Think Tank Progress del 2015, e mettendo in guardia il Labour Party da un possibile slittamento a sinistra, descriveva gli espedienti con cui la Realpolitik della terza via avrebbe menato dritto al successo elettorale: «Si vince al centro, si vince quando ci si rivolge a una fascia d’opinione trasversale, si vince quando si sostengono le imprese quanto i sindacati. Non si vince da una tradizionale posizione di sinistra. La scelta riguarda i princìpi, riguarda cosa significa sostenere i nostri valori nel mondo moderno… Oggi viviamo in una società che nel complesso crede al successo determinato dal merito e dal cambiamento. Abbiamo vinto le elezioni quando avevamo riformato i servizi pubblici e non ci siamo limitati a investire in essi, quando abbiamo capito che sono le imprese a creare posti di lavoro e non il governo. Abbiamo vinto quando noi siamo stati gli autori del cambiamento e non piccoli conservatori della sinistra».

Tony Blair, che ha lasciato la politica attiva nel 2007, sosteneva tutto questo a fronte alta, da protagonista che, grazie a queste sue convinzioni, aveva vinto per due volte la partita elettorale. E se ne faceva un vanto senza dare quell’impressione di furbetto opportunista che invece Berlusconi non è mai riuscito a dissimulare parlando del suo amore per l’Italia. Sia che ricevesse le Spice Girls al numero 10 di Downing Street, sia che scherzasse con gli Oasis, sia che discutesse con Danny Boyle, sia che ammirasse l’architettura di Norman Foster, si capiva che Tony Blair faceva sul serio, che giocava in casa con gente della sua stessa razza, che aveva visto Trainspotting, che gli piacevano gli oggetti disegnati da Tomato e che non disdegnava l’underground dei Prodigy.

Un uomo di sinistra senza la faccia lugubre degli intellettuali impegnati; un labourista senza la paura di apparire destrorso; un inglese che voleva ridare egemonia alla propria patria senza preoccuparsi di ostentare valori universali. È quello che ci voleva in Inghilterra per chiamare a raccolta uomini d’affari e rockstar, designer e registi, stilisti e architetti. Quanto questo abbia davvero giovato all’Inghilterra e quanto sia riuscito a ridurre le distanze sociali, è un discorso a parte. L’importante, per Blair, era che giovasse a Blair.

Blair è stato il primo capo di governo ad accorgersi che il suo Paese era diventato postindustriale e a indicare questa trasformazione come un’opportunità di portata storica: «Le entrate dall’estero della musica rock sono superiori a quelle dell’industria metallurgica. I nostri prodotti innovativi stanno conquistando nuovi mercati. Nove auto di Formula 1 su dieci sono disegnate e costruite in Inghilterra. Il personal organizer Psion, i giochi elettronici Bullfrog, le pile Duracell, gli aspirapolvere di James Dyson, gli arti artificiali di Blatchfords illustrano la varietà della produzione britannica».

Fino all’altro ieri la grandezza dell’Inghilterra era fondata sulle guardie della regina, sulla puntualità del Big Ben, sulle bombette dei broker, sulla severità di Eaton, sulle filande di Manchester, sulle acciaierie dello Yorkshire, sui velieri in tutti gli oceani. Solo uno bello, bravo, fico, in e out come Tony Blair poteva rifondarla sui giochi elettronici, sugli arti artificiali e sugli aspirapolvere. Come non essere incondizionatamente blairisti? Lo hanno capito anche Dilma Rousseff in Brasile, Matteo Renzi in Italia, François Hollande in Francia, Shinzo Abe in Giappone e prima o poi lo capiranno i Putin in Russia, gli Xi Jinping e i Li Keqiang in Cina. Svanito il sogno di percorrere compiutamente e salvificamente la prima e la seconda via, per andare allo sfascio non resta che la terza.

Una semplice rivoluzione
titlepage.xhtml
index_split_000.html
index_split_001.html
index_split_002.html
index_split_003.html
index_split_004.html
index_split_005.html
index_split_006.html
index_split_007.html
index_split_008.html
index_split_009.html
index_split_010.html
index_split_011.html
index_split_012.html
index_split_013.html
index_split_014.html
index_split_015.html
index_split_016.html
index_split_017.html
index_split_018.html
index_split_019.html
index_split_020.html
index_split_021.html
index_split_022.html
index_split_023.html
index_split_024.html
index_split_025.html
index_split_026.html
index_split_027.html
index_split_028.html
index_split_029.html
index_split_030.html
index_split_031.html
index_split_032.html
index_split_033.html
index_split_034.html
index_split_035.html
index_split_036.html
index_split_037.html
index_split_038.html
index_split_039.html
index_split_040.html
index_split_041.html
index_split_042.html
index_split_043.html
index_split_044.html
index_split_045.html
index_split_046.html
index_split_047.html
index_split_048.html
index_split_049.html
index_split_050.html
index_split_051.html
index_split_052.html
index_split_053.html
index_split_054.html
index_split_055.html
index_split_056.html
index_split_057.html
index_split_058.html
index_split_059.html
index_split_060.html
index_split_061.html
index_split_062.html
index_split_063.html
index_split_064.html
index_split_065.html
index_split_066.html
index_split_067.html
index_split_068.html
index_split_069.html
index_split_070.html
index_split_071.html
index_split_072.html
index_split_073.html
index_split_074.html
index_split_075.html
index_split_076.html
index_split_077.html
index_split_078.html
index_split_079.html
index_split_080.html
index_split_081.html
index_split_082.html
index_split_083.html
index_split_084.html
index_split_085.html
index_split_086.html
index_split_087.html
index_split_088.html
index_split_089.html
index_split_090.html