Turismo
In quel prezioso pamphlet del 1935 intitolato Elogio dell’ozio, Bertrand Russell scrive: «Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa… La strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro… La tecnica moderna consente che il tempo libero, entro certi limiti, non sia una prerogativa di piccole classi privilegiate, ma possa essere equamente distribuito tra tutti i membri di una comunità. L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi».
Ogni sera, dopo una giornata di lavoro, gli schiavi moderni tornano a casa sfiniti, spompati, annoiati. La prima voglia che gli viene è di abbandonarsi davanti al televisore, in balìa del più cretino dei programmi disponibili. Se fossero a mente fresca, magari sceglierebbero qualcosa di più intelligente ma, ridotti in questo stato, non possono permettersi, pena un ictus, altro che ballerine innocue, presentatori scialbi, dibattiti insulsi.
Ciò che vale per una giornata, vale anche per un’annata. Essi arrivano alle ferie in condizione penosa: sfiniti, spompati, annoiati. La prima voglia che gli viene è di abbandonarsi in balìa di un tour operator che gli propone vacanze di tutto riposo, in un campo di villeggiamento dove ogni cosa è già predisposta, come se essi fossero dei minorenni ritardati.
Molte grandi imprese stentano ad accorgersi che la loro organizzazione fa acqua da tutte le parti e crea soltanto infelicità. Qualche guru americano comincia a metterle in guardia. Ad esempio quel furbone di Tom Peters, che per anni ha venduto alle imprese pillole di razionalità, gerarchia e procedure, poi nel suo libro Liberation Management, che migliaia di manager ostentano sulle proprie scrivanie, scrive: «Le nuove prospettive di sviluppo non vanno ricercate nella grande dimensione né nella piccola, ma piuttosto nel disarticolato, nel fluttuante, nella simbiosi col fruitore… Bisogna fondere e confondere le funzioni aziendali, abbattere i confini, creare gruppi di lavoro autogestiti».
Non si capisce perché queste istanze, valide per il lavoro, non dovrebbero essere valide a maggior ragione per il tempo libero. Anche le nostre vacanze dovrebbero essere disarticolate, fluttuanti, in simbiosi con i luoghi e la gente che ci accoglie. Almeno in ferie dovremmo abbattere confini e tabù, creare gruppi vitali, autogestire le nostre giornate, alimentare corpo e mente di novità, comprare di meno, imparare e donare di più.
Mi rendo conto che una sfilza di consigli così edificanti rischia di trasformarmi in un parroco di campagna. Ma se l’alienazione degli undici mesi di lavoro si prolunga anche durante il mese di riposo, la qualità della vita intera si riduce ai minimi termini.
Cosa significa «qualità della vita»? Significa consapevolezza del fatto che la nostra esistenza è unica e irripetibile: vale dunque la pena di viverla nel modo migliore possibile, senza fare male agli altri. Cosa significa «qualità delle vacanze»? Significa che questo breve spazio di libertà arriva una volta sola nell’arco di un anno: vale dunque la pena di goderselo intensamente, insieme a persone simpatiche e vitali, in un clima di entusiasmo fatto di rapporti caldi, personalizzati, intensamente emotivi, riempiendo il tempo con attività creative, senza paura delle novità, come in un grande gioco.
Giunti alla vigilia dell’estate, turbe d’impiegati e manager si trovano di fronte al bivio tra vacanze consapevoli o vacanze estraniate. Per «consapevoli» intendo quelle preferite da tutti coloro che amano scegliere mete turistiche capaci di soddisfare bisogni a tutto campo: un buon mare o una buona neve di mattina, riposo o mostre d’arte nel pomeriggio, concerti la sera, locali e occasioni rare, buona cucina, ospitalità cordiale ma non invadente, rispetto della privacy senza, però, l’angoscia della solitudine. Solo in parte questo turismo «consapevole», che interessa 100 milioni di persone nel mondo, coincide con il turismo costoso.
Man mano che ci si allontana da questo nocciolo duro e prezioso di turismo «consapevole», si cade nel turismo di massa, composto da 900 milioni di folle anonime e transumanti, addomesticate al mordi e fuggi, all’usa e getta, scaltramente sedotte da un’accorta combinazione di mega-attrattive effimere e di comunicazione furbesca. Queste masse viaggianti apprezzano il rumore, la calca, il fast food, il vistoso, il televisivo, il cinematografico, il gigantesco, il superficiale. Per esse una discoteca, un ristorante, una piazza sono tanto più attraenti quanto più alti sono i decibel che sfondano le orecchie e più vistosi i neon e i laser che accecano gli occhi.
La caratteristica delle loro vacanze consiste nel sorvolare le regioni e le cose alla massima velocità, senza mai afferrarle, penetrarle, comprenderle, goderle. Questi turisti sono lì, in mezzo a vestigia strepitose, ma non se ne avvedono e già pensano di correre altrove, estranei come sono agli altri e a se stessi. Per comodità, li chiameremo appunto «turisti estraniati»: vittime sacrificate sull’altare del consumismo da occhiuti organizzatori di vacanze altrui.
Tra i turisti consapevoli e i turisti estraniati non esiste compatibilità. Per una sorta di legge di Gresham, il turista cattivo scaccia quello buono e la comunità ospitante decade. Si instaura, infatti, un circolo vizioso che lega il devastante turismo estraniato all’albergatore o all’oste miope e rapace; così come un fecondo circolo virtuoso lega il turismo consapevole alle strutture che lo ospitano, chiamate a soddisfare le sue esigenti attese con un’accoglienza fatta di rispetto reciproco, buon gusto e buone maniere.
Più aumenta la popolazione transumante di turisti estraniati, più cresce l’incompatibilità non solo con i turisti consapevoli ma anche con il meglio della popolazione stanziale: chi risiede stabilmente in un centro storico o in un paese di rara bellezza desidera preservarne il silenzio, l’ordine, la pulizia; ed è disposto a impegnarsi, anche con azioni di lunga durata, per la valorizzazione accorta del suo patrimonio naturale e culturale. Chi invece arriva per poche ore nel medesimo centro, vuole trarne il maggior numero di sensazioni superficiali con il minimo costo di impegno e di denaro. Solo gli albergatori e i commercianti meno lungimiranti vedono di buon occhio questa turba di daytrippers disinteressata a quel prezioso mix di monumentalità, bellezze naturali ed etnicità che costituisce la materia prima più preziosa di ogni territorio con vocazione turistica.
Dunque ogni volta che la famiglia borghese prepara le proprie vacanze, sa di essere di fronte a un bivio tra scelte consapevoli e scelte estraniate. «Se arrivi a un bivio, imboccalo» raccomanderebbe il lapalissiano Lawrence Peter «Yogi» Berra.