Telelavoro
Per molti secoli, gli uomini hanno identificato il loro luogo di vita con il loro luogo di lavoro, la loro casa con la loro bottega. Il tempo scorreva in modo più equilibrato, la vita rionale era più intensa e l’arredo urbano era più curato, proprio perché i cittadini vivevano e lavoravano nel medesimo quartiere, considerandolo come il prolungamento della propria casa e tutt’uno con essa.
La bottega artigiana, che rappresentava il modello più diffuso di organizzazione del lavoro, era caratterizzata appunto dalla forte coesione dei suoi elementi costitutivi: l’abitazione e l’aziendina convivevano sotto lo stesso tetto, le mansioni domestiche e quelle professionali si intrecciavano e si confondevano tra loro. La bottega rinascimentale di Benvenuto Cellini, che di giorno ospitava sia l’attività creativa sia la vita domestica dell’artista, e che di sera si trasformava in un piccolo club interdisciplinare dove si discuteva di politica e di estetica, era pensata, costruita, arredata in modo da risultare perfettamente funzionale a questi suoi molteplici ruoli. Oggi che il lavoro intellettuale si confonde sempre più con lo studio e con il gioco, gli uffici tradizionali in cui si svolge risultano sempre meno capaci di accoglierlo mentre i siti web e i social network forniscono la piattaforma giusta per l’attività postindustriale che si fa sempre più flessibile, astratta, ubiqua e creativa, consentendo ai lavoratori di restare, allo stesso tempo, isolati e collegati, nomadi e stanziali dovunque si trovino.
Nella società industriale, con le sue fabbriche, il luogo di lavoro si è scisso dal luogo di vita extralavorativa e, spesso, tra i due si è interposta una distanza enorme, che richiede ore per andare quotidianamente dalla casa alla fabbrica o all’ufficio. Si sono così create le condizioni per cui milioni di pendolari perdono ore ogni giorno per spostarsi tra casa e lavoro e finiscono per sentirsi estranei sia ai quartieri in cui producono, sia ai quartieri in cui consumano. Intanto la catena di montaggio ha finito per rappresentare il simbolo dell’officina, dell’azienda, della città, dell’intera società industriale. Nella città, che Le Corbusier chiamerà «funzionale», ogni ruolo e ogni classe ha i propri luoghi deputati: la zona industriale per produrre, il quartiere commerciale per comprare e vendere, il quartiere burocratico per le faccende politico-amministrative, il quartiere dei loisirs per il tempo libero. Ciascun cittadino si sposta ogni giorno da una zona all’altra in base alle funzioni da svolgere di volta in volta. Con spreco enorme, una parte della città resta deserta nei giorni lavorativi e un’altra nei giorni festivi; i quartieri dormitorio sono vuoti di giorno mentre i quartieri industriali e direzionali lo sono di notte; le metropolitane e gli altri mezzi di trasporto si incaricano di smistare masse di lavoratori da una parte all’altra per fare fronte alla sincronizzazione richiesta dalla «catena di montaggio globale», che vuole tutti presenti sul lavoro alla stessa ora, tutti in ferie lo stesso giorno e così di seguito.
Per fortuna, con l’avvento postindustriale, la situazione è mutata radicalmente e presenta molteplici fattori che rendono sempre più possibile lavorare lontano dall’ufficio. Cellulare e internet, Skype e WhatsApp riescono ormai a realizzare l’antico sogno umano dell’ubiquità annullando i vincoli spaziotemporali. La materia prima del lavoro è ormai costituita dalle informazioni, suscettibili, per loro natura, del massimo smistamento in tempo reale. Le differenze culturali tra capi e dipendenti si attenuano sempre più consentendo il passaggio da forme gerarchiche a forme funzionali di leadership. L’organizzazione per obiettivi e l’autonomia professionale dei lavoratori permettono ai capi di controllare i risultati piuttosto che i processi. Ormai è generalizzata la dimestichezza con l’informatica.
D’altra parte, il caos urbano rende i cittadini sempre più insofferenti verso la vita metropolitana e verso gli spostamenti quotidiani che corrodono in misura ormai intollerabile il tempo libero, l’equilibrio economico, quello ecologico, quello familiare e quello psichico. Appare sempre più chiara l’inutilità di centralizzare il lavoro in un unico luogo; si diffonde l’aspirazione soggettiva verso una gestione autonoma, flessibile, personalizzata e decentrata dei propri compiti.
Insomma, ormai lo spostamento coatto e quotidiano di milioni di persone tra casa e ufficio non corrisponde più né a un’esigenza reale della produzione né a un bisogno effettivo dei singoli e delle loro famiglie, mentre procura gravi danni all’azienda, all’economia, all’ecologia e alla società.
Come in tutti i casi in cui l’azienda resta indietro rispetto alla società, anche in questo l’organizzazione informale ha sopravanzato quella formale e, se ufficialmente le imprese stentano a introdurre il telelavoro con norme e contratti, nella pratica quotidiana il telelavoro ha stravinto. Per strada, nei treni, nei ristoranti, negli aeroporti, sulle spiagge ci sono impiegati, professionisti e manager che ascoltano informazioni, recepiscono e trasmettono decisioni, comunicano consulenze, comprano e vendono merci, assumono e licenziano persone, intrattengono pubbliche relazioni, intrecciano lobby. Come il personaggio di Molière che parlava in prosa senza sapere di essere un prosatore, così tutti questi moderni lavoratori telelavorano senza accorgersi di essere dei telelavoratori.
Sul piano formale e contrattuale, invece, il telelavoro resta bandito dalla maggioranza delle aziende o viene rinviato alle calende greche, come ha fatto in Italia la Barilla, promettendolo entro il 2020. Le direzioni aziendali sono disposte a fare cose da pazzi pur di non fare cose da saggi: preferiscono persino ridurre i profitti per evitare innovazioni organizzative che allentino la presa fisica, tangibile, sui dipendenti. Ciò che viene temuto più della stessa concorrenza è che la cultura aziendale possa diluirsi nella cultura sociale, che lavoro e vita possano mescolarsi in una mistura creativa ed esuberante dove le produzioni di ricchezza, di sapere, di allegria e di senso si intreccino e si confondano superando, finalmente, la separazione alienante tra i diversi mondi vitali in cui transitiamo.
Ovviamente tutto questo costituisce la tomba della creatività che pure è indispensabile al successo delle imprese postindustriali e che, per dispiegarsi in tutta la sua potenza innovatrice, ha bisogno di libertà, di colore, di ironia, di gioco, di meditazione, di cordialità, di socialità.
Fin da domattina, invece, per milioni di lavoratori sarebbe tecnicamente possibile evitare spostamenti faticosi e snervanti, convivenze forzate con capi assillanti e colleghi indesiderati, per telelavorare in casa, in giardino o al bar, restando collegati con capi, colleghi, rappresentanti sindacali e clienti.
Ne guadagnerebbero una maggiore autonomia, una minore alienazione, un grande risparmio di energie fisiche, di carburante, di tempo, provocando un minore inquinamento dell’aria; la vita familiare si gioverebbe della maggiore compresenza dei vari componenti; la vita di quartiere tornerebbe intensa; il prezzo delle aree urbane e degli immobili diminuirebbe per l’impiego più razionale degli edifici; si potrebbero ridurre le spese per la manutenzione stradale; vi sarebbero meno incidenti; potrebbe essere migliorata la vita delle città, che sempre più si avviluppano in un traffico infernale di gente che si sposta senza senso e senza sosta. Potrebbero meglio accedere al lavoro gli handicappati, gli anziani, le casalinghe, gli abitanti di zone isolate e lontane.
È ovvio che una rivoluzione copernicana di questo genere comporterebbe anche degli inconvenienti soprattutto in fase iniziale. L’industrializzazione richiese più di un secolo per ottenere dai lavoratori l’abbandono delle abitudini rurali in cambio di quelle industriali e l’assuefazione al lavoro accentrato e sincronizzato: è comprensibile, dunque, che il ritorno al lavoro destrutturato richieda a sua volta tempi adeguati, ma più brevi di quanto le aziende paventino, per essere sperimentato, metabolizzato e apprezzato, riducendo gli inconvenienti che generalmente si attribuiscono al telelavoro.
Tali inconvenienti consisterebbero, per l’azienda, nella difficoltà di controllare il processo lavorativo dei singoli dipendenti decentrati, nella necessità di superare la resistenza dei capi, nella frammentazione dell’identità aziendale, nell’esigenza di formare preventivamente i telelavoratori.
Per i lavoratori gli inconvenienti consisterebbero in una sensazione di isolamento, nell’emarginazione dalle dinamiche, dalle carriere e dai giochi di potere aziendali, nella necessità di riciclare le abitudini personali e familiari, nel pericolo, soprattutto per le donne, di doppio lavoro e di eccessiva chiusura nel contesto familiare, nel pericolo di restare meno legati alla rete protettiva del sindacato. Per la collettività, consisterebbero nel pericolo di atomizzazione sociale e nell’incremento di un senso di precarietà diffusa.
Come si vede, i vantaggi del telelavoro sono certi, allettanti e ampiamente sperimentati mentre gli svantaggi sono improbabili e comunque superabili attraverso un’applicazione intelligente del metodo, sfrondata dai pregiudizi che lo precedono.
Ma, allora, come mai si parla da anni di telelavoro mentre la maggioranza delle aziende continua a ignorarlo almeno nella forma? Una ragione va forse ricercata nella circostanza che l’azienda, per sua natura, resta un sistema antropologico capace di fornire non solo un lavoro e una retribuzione ma anche un sostegno morale, un campo da gioco per il proprio agonismo competitivo, delle vittime da sacrificare alla propria aggressività, dei capi cui dedicare la propria devozione, una socialità – magari forzata, a volte malata e distorta quanto si voglia, ma pur sempre socialità –, un erotismo eccitato dai divieti, dalla competizione, dal perbenismo.
Ma, almeno per ora, l’ostacolo maggiore alla diffusione del telelavoro consiste nell’avversione dei capi nei confronti dell’allontanamento fisico dei lavoratori fuori dal loro raggio di relazione immediata. La chiamerei «sindrome di Clinton», immaginando un’analoga resistenza di questo presidente erotomane degli Stati Uniti se gli fosse stato proposto di mettere in telelavoro la sua stagista.
A questi motivi occorre aggiungere il masochismo generoso di cui abbiamo parlato, per il quale ogni giorno milioni di manager, quasi tutti maschi, restano volontariamente in ufficio oltre il dovuto scegliendo un overtime non retribuito nell’acquario aziendale al solo scopo di compiacere il capo tenendogli compagnia e sperando nella sua riconoscenza al momento dello scatto di stipendio. Sarebbe strano se questi stessi manager che restano in ufficio perché odiano la vita familiare, fossero propensi al telelavoro per se stessi e per i propri collaboratori.
Insomma, tutti si lamentano del traffico che essi stessi creano e intasano; tutti si lamentano dello stress che essi stessi alimentano ed esasperano; tutti maledicono il lavoro che essi stessi dilatano e incrudeliscono. Tutti si adoperano ad ammobiliare questo inferno, rendendolo sempre più infernale, ma poi, quando si presentano le condizioni per migliorare la propria vita, nessuno si impegna a riscattarla e a riscattarsi. Così, ogni giorno, invece di cogliere l’occasione salvifica offerta loro dal progresso tecnologico, milioni di persone se ne stanno incapsulate nelle automobili e negli uffici, per spendere tempo e salute negli ingorghi stradali e per logorare pazienza e intelligenza nel tran tran aziendale.
Già negli anni Trenta, quando c’era appena l’automazione meccanica, Bertrand Russell scrisse: «Abbiamo continuato a sprecare tanta energia quanta ne era necessaria prima dell’invenzione delle macchine; in ciò siamo stati idioti, ma non c’è ragione per continuare ad esserlo». Cosa direbbe oggi di fronte ai biblici spostamenti quotidiani tra casa e lavoro, quando il portatile, il cellulare e internet consentirebbero di evitare questo strazio?