Rieducazione

Oggi il pianeta è abitato da sette miliardi di persone; fra dieci anni saranno otto. Cresce dunque, naturalmente, la massa dei lavoratori potenziali, ingrossata da giovani, donne, handicappati, anziani in buona salute, abitanti del Terzo Mondo, che premono per entrare nel mercato del lavoro. Intanto, i posti di lavoro aumentano molto più lentamente per l’effetto congiunto del progresso tecnologico e organizzativo, della globalizzazione, delle fusioni, delle privatizzazioni.

La ricchezza del pianeta cresce ogni anno di tre o quattro punti percentuali, ma questa crescita dipende sempre meno dai lavoratori ben pagati del Primo Mondo e sempre più dai robot e dai lavoratori sottopagati del Terzo Mondo. I cittadini del Primo Mondo, abituati a pensare che il lavoro sia l’essenza della vita, non si accorgono (o non ammettono) che la loro vita dipende sempre meno dal proprio lavoro esecutivo e trovano increscioso riprogettarla basandola soprattutto sulla creatività e sul tempo libero.

Per uscire da questo cul de sac in cui si sono cacciati tutti i Paesi industrializzati, occorre prendere atto che esso è di ordine globale (non solo locale) e di ordine culturale (non solo economico). Occorre quindi risolvere almeno tre problemi molto complicati, che richiedono altrettante inversioni di marcia nella nostra organizzazione socioeconomica.

Primo problema: come distribuire la ricchezza (che aumenta) prescindendo dal parametro del lavoro (che diminuisce).

Nella società industriale la ricchezza è stata distribuita soprattutto in base alla quantità e alla qualità del lavoro produttivo svolto da ciascun lavoratore. «Chi non lavora non mangerà» cantano all’unisono un’epistola di san Paolo e l’inno Bandiera Rossa del Partito comunista. Se non lavori, non mangi tu e non mangia la tua famiglia, che dal tuo lavoro dipende. Né mangiano il tuo padrone e i figli del tuo padrone. Per consumare, devi prima produrre. Tu potrai disporre solo di una parte della ricchezza che produci. Ma, se non produci, non avrai neppure quella parte.

Una volta abituati a distribuire la ricchezza in base al lavoro produttivo e una volta organizzata su questo criterio tutta la complicata macchina dell’economia di mercato, una variante dello stesso criterio è stata estesa anche ai lavoratori improduttivi: impiegati, manager, professionisti e dirigenti, tutti pagati a tempo o a risultato.

Dopo di che, fedeli persistenti al parametro «lavoro», si è arrivati a dire: tu riceverai una retribuzione purché tu svolga un’attività convenzionalmente considerata lavoro – come fare buchi nella sabbia – anche se questo tuo lavoro non produce nulla e non serve a nulla; persino se questo tuo lavoro è nocivo per te stesso e per la società. L’importante è che tu faccia qualcosa che le statistiche ufficiali possano classificare come «lavoro» e che l’economia corrente possa considerare come titolo legale per essere retribuiti.

In base a queste convenzioni, una donna che educa i suoi figli in casa non è retribuita mentre a una donna che educa i figli altrui in un asilo spetta lo stipendio. Se due donne badano ciascuno al proprio figlio, sono considerate casalinghe e non vengono pagate; se ciascuna di esse bada al figlio dell’altra, è considerata babysitter e va retribuita. In molti Paesi i grandi alberghi e gli uffici pubblici impiegano come liftboy dei ragazzi che vanno su e giù tutto il giorno dentro gli ascensori solo per spingere i bottoni corrispondenti ai piani dove i clienti sono diretti. Il loro lavoro è completamente inutile, non produce nessuna ricchezza, serve solo per individuare, tra milioni di ragazzi, quelli ai quali dare un salario in cambio di una prestazione inutile, stupida e senza speranza. Anzi, nociva, perché li sottrae alla scuola. Anche molti corsi di formazione fasulla, inflitti ai disoccupati, rientrano in questa fattispecie.

Nell’ambito stesso del lavoro, le gratificazioni sono distribuite in modo capriccioso. Vi sono lavori utili e piacevoli come quello dell’imprenditore o del professore; vi sono lavori utili ma sgradevoli o pericolosi o ripugnanti come quello del minatore o del becchino; vi sono lavori inutili ma gradevoli come quello di una valletta televisiva; vi sono lavori inutili e sgradevoli come appunto quello del liftboy. Secondo giustizia, un becchino o un minatore dovrebbero essere pagati molto più di uno showman o di un’indossatrice, ma la giustizia non ha nulla a che fare con il mondo del lavoro. Un ventenne che lavora otto ore al giorno in banca percepisce lo stipendio. Un suo coetaneo che studia otto ore all’università non solo non percepisce nulla ma deve pagare delle tasse.

Oggi che la ricchezza cresce ma è sempre più prodotta dalle macchine e sempre meno dall’uomo, diventa sempre più difficile ridistribuirla in base alla quantità di lavoro umano richiesto per crearla. Se, per ipotesi, tutta la produzione operaia fosse realizzata in Cina e tutta la produzione impiegatizia fosse realizzata in India, in base a quali criteri sarebbero retribuiti gli ex operai e gli ex impiegati di tutto il resto del mondo? E se questi ex operai ed ex impiegati non fossero retribuiti, chi comprerebbe i prodotti cinesi e i servizi indiani? Occorre dunque trovare criteri nuovi, capaci di coniugare i meriti con i bisogni.

Secondo problema: come rieducare milioni di cittadini del Primo Mondo, abituati a centrare tutta la propria vita sul lavoro, in modo che imparino a riprogettarla centrandola anche sul non-lavoro.

Il problema ingiusto e terribile della disoccupazione può essere vinto solo adottando tutte insieme le soluzioni disponibili, creando nuovi posti di lavoro solo se realmente utili, riducendo drasticamente l’orario quando si tratta di mansioni esecutive e destrutturando il lavoro nel tempo e nello spazio ogni volta che la sua natura lo consente.

Ma il problema della disoccupazione non può farci trascurare il problema del tempo libero dal momento che, nella prospettiva di vita di un ventenne, le ore che egli dedicherà al lavoro saranno appena un terzo delle ore che dedicherà al tempo libero. Cosa farà nel tempo di lavoro lo decideranno i suoi genitori, i suoi coetanei, i suoi insegnanti, i suoi capi, egli stesso e la sua fortuna. Ma cosa farà nel tempo libero? chi lo deciderà? la Walt Disney? Hollywood? la Cnn? il parroco? Murdoch? la Sega? i tour operator? farà cose utili o inutili? si divertirà o si annoierà? sarà solidale, competitivo, aggressivo, violento?

Prima dell’era industriale pochi lavoravano e per poco tempo. La loro socializzazione avveniva in casa, in piazza, nella bottega, nei campi, nella parrocchia, nella bettola, nella scuola. Pretendere oggi che il lavoro sia la fonte principale di socializzazione e di identità significa negare socializzazione e identità ai cinque settimi della popolazione mondiale: ai bambini, agli studenti, alle casalinghe, agli anziani, ai nomadi, ai disoccupati, a tutti coloro che, nel Terzo Mondo, non hanno alcuna dimestichezza con la categoria del lavoro così come viene inteso nel Primo Mondo. E significa nascondere che nel lavoro assai spesso non si trova identità e socializzazione ma abbrutimento, emarginazione, conflittualità, isolamento. Per averne una prova basta rileggere diecine di ricerche condotte negli ultimi duecento anni sulla condizione operaia e su quella impiegatizia.

Oggi la maggioranza dei lavoratori investe nella carriera tutte le proprie energie, trascorre in ufficio gran parte della giornata, perde il gusto della vita familiare e dello svago, durante i giorni festivi soffre di emicrania se non porta con sé qualche pratica da sbrigare, che lo mantenga immerso nella stessa tensione dei giorni feriali.

Occorre dunque porre mano a una grande opera di educazione dei giovani e di rieducazione degli adulti affinché apprendano come conferire senso e valore al tempo libero arricchendolo di introspezione, creatività e convivialità.

Terzo problema: come rieducare miliardi di cittadini del Terzo Mondo, abituati a centrare tutta la propria vita sul non-lavoro, in modo che imparino a centrarla anche sul lavoro.

In India, in Cina, in Africa, in America Latina milioni di persone non hanno mai lavorato e non hanno mai elevato le proprie esigenze al di sopra della soglia della sussistenza. A essi vanno aggiungendosi, nel Primo Mondo, sempre più numerosi Neet.

Queste masse di cittadini hanno il diritto di coltivare bisogni più propriamente umani come la sicurezza, la longevità, la liberazione dal dolore fisico, la conoscenza razionale, il benessere, l’autorealizzazione. Una volta evocate le forze di questi nuovi bisogni, occorre soddisfarli creando ricchezza. Ciò comporta l’educazione al lavoro scientificamente organizzato e tecnologicamente potenziato, la costruzione di fabbriche e di uffici efficienti, l’erogazione di servizi moderni. E il tutto va realizzato duplicando nel Terzo Mondo i vantaggi dell’industrializzazione già sperimentata nei Paesi ricchi, senza però ripeterne gli errori. Va cioè ottenuto, dovunque possibile, con un salto diretto dallo stato preindustriale a quello postindustriale.

Quando sarà compiuta questa imponente rivoluzione culturale, quando anche nel Terzo Mondo i bisogni saranno cresciuti e la popolazione avrà appreso l’arte di creare la ricchezza necessaria per soddisfarli, termineranno le grandi fughe migratorie dalle aree depresse a quelle sviluppate e il nostro attuale problema di ridistribuire il lavoro e il denaro, il sapere e il potere, riproposto su scala planetaria, risulterà più risolvibile. A quel punto, però, l’impronta ecologica sarà esorbitante e ai nostri nipoti toccherà trasmigrare su altri pianeti.

Una semplice rivoluzione
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