Creatività

L’uomo è stupido ma, per fortuna, non è solo stupido. Se la stupidità, come sostiene Manfred Max-Neef, è esclusiva degli esseri umani, tuttavia non è la sua unica caratteristica.

Nel 1938 Gustav Jung tenne a Harvard una conferenza sugli istinti umani e ne indicò cinque: la fame, la sessualità, la pulsione verso l’attività, la riflessione, la creatività. Venticinque anni dopo, nel 1963, Konrad Lorenz pubblicò un saggio – L’aggressività – in cui attribuì agli animali quattro soli istinti: la nutrizione, corrispondente più o meno all’istinto di fame che Jung aveva indicato per l’uomo; la procreazione, corrispondente alla sessualità umana; l’aggressione contro un nemico vincibile, corrispondente alla pulsione umana verso l’attività; la fuga davanti a un pericolo esorbitante, corrispondente nell’uomo alla riflessione. Nessun istinto animale, dunque, corrisponde a ciò che nell’uomo è la creatività. In altre parole, l’uomo è l’unico animale creativo e la creatività, più ancora della stupidità, è la cifra distintiva della nostra specie.

Se la creatività è un istinto che connota il fatto di essere umani, dunque ogni uomo è portato istintivamente a creare, scoprire, modificare se stesso, il proprio gruppo, il proprio ambiente. Ma, nel corso della storia umana, questa attività di scoperta e invenzione non è rimasta uguale a se stessa. Oltre a inventare cose nuove, l’uomo ha inventato anche modi nuovi di inventare; ha creato e ricreato incessantemente la creatività. Inventare le pietre scheggiate, il coltello, l’asse della ruota è tutt’altra cosa che inventare il linguaggio, i simboli, l’arte, l’aldilà, l’automobile, gli antibiotici, il computer. D’altra parte, il modo di costruire una casa, un ponte, una cattedrale è mutato col mutare dell’esperienza, dell’istruzione, del gusto, dei materiali, degli strumenti di calcolo, di assiematura e di trasporto.

Nel corso della storia si sono alternate fasi di intensa creatività scientifica e tecnica con fasi di intensa creatività estetica, letteraria, filosofica, artistica. Dopo millenni preistorici di lentissimo progresso tecnico-scientifico, quasi all’improvviso, e in un arco temporale relativamente breve, la Mesopotamia inventò la scrittura e la ruota, l’astronomia e la scuola, la città e lo Stato, l’economia e la moneta. Poi il progresso tecnico-scientifico entrò in una lunga fase carsica durante la quale, prima in Grecia e poi a Roma, la filosofia e la poesia, l’architettura, l’arte, il teatro, la storiografia produssero capolavori tutt’oggi insuperati. Più tardi, a partire dal XII secolo d.C., e con crescente intensità dopo il Seicento, riprese vigore quel progresso tecnologico che determinò la nascita dell’era industriale e che, più recentemente, divenuto torrenziale, ha determinato l’approdo alla società postindustriale in cui tuttora viviamo.

D’altra parte, nel corso della storia la creatività individuale si è intrecciata con quella collettiva. Probabilmente individuale è stata la decorazione delle grotte di Lascaux e di Altamira. Di certo individuale è stata la creazione poetica di Saffo e di Pindaro, quella pittorica di Michelangelo, quella scientifica di Newton. Collettiva, invece, è stata la progressiva elaborazione dei poemi omerici, la creazione delle cattedrali nel Medioevo e, più vicine a noi, le scoperte dovute al gruppo di Enrico Fermi a Roma o di Max Perutz presso il Cavendish di Cambridge, le invenzioni artistiche della Wiener Werkstätte e quelle della Bauhaus.

L’analisi sociologica della creatività non ha ancora spiegato un fenomeno ricorrente nel corso della storia: l’addensamento di creatività straordinaria in alcuni periodi e in alcune aree del pianeta. Ho già citato la Mesopotamia, ma si pensi anche all’Atene di Pericle, alla Roma di Adriano, alla Firenze dei Medici, alla Vienna di Klimt e di Mahler, alla New York di Andy Warhol, di Keith Haring e di Jean-Michel Basquiat.

L’Atene in cui vissero Socrate, Platone, Aristotele e diecine di altri geni di pari statura contava appena 40.000 cittadini liberi; dopo la peste del 1348 la Firenze rinascimentale in cui lavorarono Michelangelo e Leonardo, Brunelleschi e Donatello non superava i 20.000 abitanti. Come è possibile che agglomerati così esigui, in epoche tecnologicamente così acerbe, abbiano prodotto innovazioni molto più profonde di quelle che raggiungono le aziende attuali con migliaia e migliaia di collaboratori, e per di più sostenute da capitali ingenti e computer onnipotenti?

Ma, prima ancora di questo mistero, occorre chiarirne un altro: cosa è la creatività?

Silvano Arieti, che ha scritto il saggio finora più convincente sulla genesi dell’atto creativo individuale – Creatività. La sintesi magica – sostiene che il processo creativo, al contrario dei suoi prodotti, «è privo di novità e sublimità; per buona parte esso consiste di meccanismi mentali antichi, superati e primitivi, generalmente confinati in quei recessi della psiche che sono sotto il dominio di ciò che Freud chiamò il processo primario». Più in particolare, secondo Arieti, il processo creativo consiste in una sintesi tra il pensiero primario e il pensiero secondario, tra livello cosciente e livello inconscio. «Il processo primario, per Freud, è un modo di funzionamento della psiche, specialmente della sua parte inconscia. Esso prevale nei sogni e in alcune malattie mentali, specialmente nelle psicosi. Il processo primario funziona in modo molto diverso da quello secondario, che è il modo di funzionamento della mente quando è sveglia e si serve della logica comune. I meccanismi del processo secondario ricompaiono anche nel processo creativo, in strane e complesse combinazioni con i meccanismi del processo primario e in sintesi che, sebbene imprevedibili, sono tuttavia suscettibili di interpretazione psicologica. È dall’accoppiamento appropriato con i meccanismi del processo secondario che queste forme primitive di cognizione, generalmente limitate a strati anormali o a processi inconsci, diventano forze innovatrici.»

Dai miei studi sui gruppi creativi del passato, sintetizzati nel volume L’emozione e la regola, e da quelli attuali, ricavo la necessità di arricchire il processo creativo descritto da Arieti come sintesi di pensiero primario e secondario, attraverso l’assunzione di una ulteriore variabile. Esso, a mio avviso, non è sintesi soltanto di conscio (secondario) e inconscio (primario), ma anche di sfera razionale e sfera emotiva. Incrociando in una tabella a doppia entrata l’asse conscio-inconscio con l’asse razionale-emotivo si ottengono quattro aree. In questa sede mi basta prenderne in considerazione solo due: quella determinata dalla sfera emotiva e dall’inconscio corrisponde al regno della fantasia; quella determinata dalla sfera razionale e dal livello cosciente corrisponde al regno della concretezza.

La creatività, a differenza di quanto generalmente si crede, non s’identifica con la sola fantasia, ma consiste in una sintesi di fantasia e di concretezza. Michelangelo non è stato un sommo artista solo per il fatto di avere ideato, già settantenne, la cupola di San Pietro; è stato un grande genio perché, oltre ad averla ideata, è riuscito a imporre il suo progetto all’attenzione del papa, a farsi approvare e finanziare un’opera così spregiudicata, a reclutare e dirigere una massa enorme di muratori, scalpellini, falegnami, artigiani d’ogni tipo, a tener duro per altri vent’anni, fino al giorno della morte, in un’impresa iperbolica di cui sapeva che non avrebbe visto il completamento.

Creativo, dunque, è colui che, in un determinato campo, è in grado di esprimere e realizzare nuove idee. Genio è colui che riesce a esprimere e realizzare idee di altissimo livello essendo dotato di una smisurata fantasia e di una concretezza altrettanto straordinaria.

Come vedremo nel capitolo ad essi dedicato, i geni sono rari perché nella maggior parte delle persone prevale o la fantasia o la concretezza. La loro singolarità gli ha conferito un alone di mistero, di rispetto e d’invidia. La cultura romantica li ha descritti come folli, melanconici, strampalati, pazzi, saturnini. Ma la maggior parte dei geni non sono nevrotici o maniaco-depressivi, non sono eccentrici, squinternati o matti. La maggior parte dei geni è fatta di persone che si comportano normalmente, civilmente, educatamente.

Quando vedete foto di geni in pose eccentriche, come nel caso di Einstein con la lingua di fuori, o si tratta di scatti realizzati furtivamente da fotografi a caccia di gossip, o si tratta di gesti consapevoli con cui i geni hanno voluto gabbare intenzionalmente la spregiudicatezza dei mezzi di comunicazione e l’ingenuità del pubblico. In linea di massima il vero genio è una persona normale sotto tutti gli aspetti, tranne quello per il quale è geniale.

Molti psicologi, nell’intento di stilare i tratti della personalità che connoterebbero i soggetti creativi, sono pervenuti a liste sterminate e dunque improbabili. Ma alcuni di questi tratti tornano in più liste: la curiosità, il desiderio di novità, la compresenza di talenti multipli nella medesima personalità creativa, la provenienza da famiglie e ambienti dinamici e vari, la noncuranza nei confronti delle opinioni altrui, la passione e la tenacia, la buona opinione di sé, l’energia vitale.

I creativi soffrono di rammarico per l’imperfezione delle loro creazioni precedenti ma sanno spesso trasformarlo in stimolo per una successiva opera migliore. Infine, i creativi presentano spesso ciò che io chiamo «sindrome di Galois». Com’è noto, Évariste Galois è stato un grande matematico morto in duello a soli vent’anni nel 1832. Appena sedicenne, elaborò alcune teorie concernenti l’algebra astratta e i gruppi ma non le descrisse mai in modo sistematico. Sfidato a duello e temendo di non sopravvivere, passò tutta la notte precedente a sistemare i suoi lavori matematici, non senza annotare che la mancanza di tempo gli impediva di farlo con la dovuta precisione. Sarà poi Joseph Liouville che sistemerà il manoscritto e lo pubblicherà dieci anni dopo annunziando al mondo che Galois aveva determinato le condizioni necessarie per risolvere algebricamente un’equazione.

Ebbene, a quasi tutti i creativi che si sono impegnati a consegnare un’opera entro una determinata scadenza, capita di rinviarne sine die la realizzazione e, solo quando vi sono costretti dall’urgenza, essi riescono con un colpo d’ala a recuperare il tempo perduto e a esprimersi al meglio, creativamente.

Spesso i contratti stipulati tra committente e artista sono zeppi di clausole con cui si fissa la dimensione dell’opera, il luogo cui è destinata, l’età e l’identità delle persone o dei santi o delle allegorie rappresentate, il colore delle vesti, il paesaggio nello sfondo. E più sono i vincoli, più l’artista si sente spronato a dimostrare le sue capacità geniali nonostante gli ostacoli.

Giulio II e i suoi eredi cambiarono più volte il luogo e la forma della sepoltura commissionata a Michelangelo, e Michelangelo, a sua volta, rinviò per anni l’esecuzione dell’opera pattuita e già pagata. Ma quando, infine, si mise al lavoro, ne venne fuori il Mosè.

Una semplice rivoluzione
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