Solitudine
La frase di Primo Levi, che questa volta ci farà da guida, è sapientemente sospesa tra serenità e inquietudine: «Tutti scoprono più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche l’infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito».
Per avvicinarci il più possibile alla felicità, il mezzo più efficace è dentro di noi e consiste nella nostra capacità di riflettere, meditare, immaginare, sognare. Le culture orientali, centrate sul viaggio interiore, educano gli individui, fin da piccoli, a esplorare se stessi attraverso l’esercizio disciplinato dell’introspezione. E l’introspezione, a sua volta, è basata sulla solitudine e sul silenzio.
Tanto l’Oriente coltiva la meditazione quanto l’Occidente coltiva la distrazione. Fin dalla nascita, noi occidentali siamo immersi in una sarabanda di voci, forme, oggetti, suoni, rumori e colori prodotti da una turba irrequieta di nostri simili che ci vorticano intorno, alienandoci.
Uno dei più noti intellettuali tedeschi, Hans Magnus Enzensberger, dopo aver concluso che il lusso consiste nel possesso e nell’ostentazione di cose rare, ha constatato che, nella società occidentale, ormai sono rari solo il tempo, l’autonomia, lo spazio, il silenzio, la sicurezza e l’ambiente non inquinato.
Tempo, spazio e silenzio convergono nella solitudine: cioè nell’unica condizione che ci consente di riflettere e inoltrarci nel dolce mistero della serenità consapevole. Mirare senza fretta il lago-mare di Malawi che sconfina nell’orizzonte africano, costeggiare la Turchia in un caicco, sondare i fondali della Sardegna fra Capo Malfatano e Chia, accompagnarsi allo spirito di Lucio Dalla nelle insenature delle Tremiti sono altrettanti modi per gustare la solitudine in quest’epoca in cui – complice la tecnologia – è diventato quasi impossibile isolarsi.
La felicità è un fatto soggettivo e ciascuno ha i suoi luoghi di solitudine e di silenzio in cui raggiungerla. Abbiamo già visto che lo svizzero Jean-Jacques Rousseau confessava di averne provato la pienezza solo nella solitudine dell’isola di Saint-Pierre. A sua volta il tedesco Hermann Hesse cercava in Asia i segreti dell’ozio elevato ad arte attraverso la riflessione solitaria. E lo scozzese Norman Douglas trovava conforto, ispirazione e pienezza di vita solo nel silenzio delle isole dove Ulisse era sfuggito alla malia del canto delle sirene. Douglas, come si sa, è stato un grande, erudito vagabondo scandalosamente ozioso, che ha tenuto in massimo conto il ruolo giocato dai luoghi e dal genius loci nell’arte di meditare e creare. L’introspezione creativa non è parimenti possibile in una strada di Manhattan, in un fiordo della Norvegia, in una biblioteca di Oxford o in uno stadio di calcio. La terra delle sirene, cioè quell’area bellissima e misteriosa fatta d’acqua e di verde, tesa tra Sorrento e Capri con epicentro nell’arcipelago delle Sirenuse, dovette apparire a Douglas come il luogo in assoluto più consono alla saggezza e al lusso della pausa, del silenzio e della solitudine. Il suo libro La terra delle sirene (1911) è anche un resoconto del suo rapporto amoroso con questo paesaggio naturale e interiore. In esso Douglas ci ricorda che la serenità della mente e del corpo può produrre i suoi frutti solo se fecondata in luoghi adatti, fino a farne uno stile di vita. Cita in proposito i monaci che costruivano abbazie e chiese: «Una visione modernissima li spingeva a sistemarsi in cima a colline isolate, dove potevano piantare vigneti e meditare. E fu certamente questa la ragione per la quale essi avevano ispirazioni che la gente comune non avverte: il desiderio del poeta, che anela solitudine, rocce e nuvole… la gioia creativa dell’artista, che copre la tela nuda con scene palpitanti di vita, della divinità che fa scaturire l’acqua dal deserto… A Cassino, i benedettini costruivano edifici di forme nobilissime e meditavano».
L’ozio può essere elevato ad arte solo nella solitudine dei luoghi giusti, nel giusto isolamento, nel più disincantato distacco verso i giudizi del mondo. Il risultato di questo equilibrio sapiente di silenzio, intelligenza, riflessione e creatività è la beatitudine del corpo e dello spirito. È «il fiore dell’evoluzione umana».
Anche Socrate, pur amando la conversazione socievole, riesce a essere pienamente felice soltanto quando è solo. Platone ce lo descrive in un afoso pomeriggio d’estate, mentre si compiace del suo stato di grazia esclamando: «Per Giunone, che bel luogo è questo! Questo platano copre tanto spazio quanto è alto. E questo castagno come è grande e magnificamente ombroso! In piena fioritura com’è, il luogo non potrebbe essere più profumato. E il fascino senza pari di questa fonte che scorre sotto il platano, la frescura delle sue acque: basta il piede per dirmelo… E dimmi, per piacere, se questo venticello d’estate e l’aria buona che si respira qui non è desiderabile e straordinariamente piacevole. Chiara melodia d’estate che fa eco al coro delle cicale. Ma la più squisita raffinatezza è questo prato, con la naturale dolcezza del suo declivio che permette, quando ci si stende, di avere la testa perfettamente a proprio agio».
Per essere felice, al più grande filosofo di tutti i tempi basta la frescura di una fonte e di un albero, gustati in perfetta solitudine!
Quella solitudine che, quando è imposta, diventa tortura; quando è scelta intenzionalmente, diventa la più soave delle condizioni. «Al monologo con mia moglie» diceva Karl Kraus «preferisco il dialogo con me stesso!»