Simpatia

Lo stesso Adam Smith, che ha fornito al liberismo i fondamenti teorici per incardinare sul concetto trionfante di egoismo tutto il funzionamento del sistema economico, offre anche un’altra lettura del comportamento umano, spiegandolo in base all’idea di «simpatia». Nel 1759 egli pubblicò il saggio Teoria dei sentimenti morali e poi, per quasi quarant’anni, fino alla sua morte, ci tornò sopra rimaneggiandolo in ben sei successive edizioni.

Il saggio, di quasi 600 pagine, si apre con un capitolo dedicato appunto alla simpatia: «Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle forme altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza degli altri… non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo». La simpatia denota «il nostro sentimento di partecipazione per qualunque passione… Non c’è nulla che ci faccia più piacere che osservare in altre persone una partecipazione a tutte le emozioni del nostro cuore».

Gli altri capitoli della Teoria dei sentimenti morali sono dedicati alle virtù amabili e rispettabili, alle passioni sociali e a quelle egoistiche, all’origine dell’ambizione, al merito e al demerito, alla gratitudine e al risentimento, alla giustizia e alla beneficenza, all’approvazione e alla disapprovazione, alla consuetudine e alla moda, alla prudenza e alla felicità.

Sul concetto di simpatia Smith ritorna anche nella Ricchezza delle nazioni. Dopo avere constatato – come abbiamo visto in un capitolo precedente – che il macellaio, il fornaio, il birraio si guardano bene dal donare generosamente la loro merce a chi ha fame, d’altra parte riconosce che essi vendono la loro merce non solo per guadagnarci egoisticamente, ma anche per soddisfare i desideri del cliente e trarne apprezzamento, simpatia e socialità.

Il comportamento umano, a suo avviso, è troppo complesso per essere spiegato sulla base di rigide leggi naturali. Le nostre azioni sono determinate non solo dall’egoismo, dall’altruismo e dalla benevolenza, ma anche dalla simpatia, per cui tendiamo a metterci nei panni altrui e a immedesimarci negli altrui sentimenti: «La società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l’un l’altro».

D’altra parte, tutto ciò che la società produce è frutto di una divisione del lavoro che nasce spontaneamente da una naturale propensione umana «a trafficare, barattare e scambiare una cosa con l’altra» senza la quale «ogni uomo avrebbe dovuto procurarsi da solo tutti i mezzi di sussistenza e di comodo. Tutti avrebbero dovuto svolgere le stesse mansioni e lo stesso lavoro, e non si sarebbero avute quelle grandi differenze di attività che sole determinano le grandi differenze di talenti». Ma la divisione del lavoro, la specializzazione professionale dei singoli talenti, comporta la necessità della collaborazione. «L’abito di lana, che veste il lavoratore a giornata, per quanto grossolano e ruvido possa apparire, è il prodotto del lavoro congiunto di una grande moltitudine di operai. Il pastore, il selezionatore di lana, il pettinatore o cardatore, il tintore, il cardatore di grosso, il filatore, il tessitore, il follatore, l’apprettatore e molti altri debbono mettere insieme le loro differenti arti al fine di portare a termine anche solo questa produzione casalinga. Quanti mercanti e vetturali devono inoltre essere stati impiegati per trasportare i materiali da qualcuno di questi operai ad altri che spesso vivono in parti remotissime del paese! In particolare, quanto commercio e navigazione, quanti costruttori di navi, marinai, velai, cordai devono essere stati impiegati al fine di mettere insieme le differenti sostanze usate dal tintore, spesso provenienti dagli angoli più remoti della terra». Smith procede per un’altra pagina intera a evocare le forbici, i minatori che ne hanno estratto il ferro, il carbonaio che ha alimentato il fuoco del fabbro, e così via per concludere che «insomma, se esaminiamo tutte queste cose e consideriamo quale varietà di lavoro è impiegata in ognuna di esse, ci renderemo conto che, senza l’assistenza e la cooperazione di molte migliaia di persone, anche l’essere più meschino di un paese civile non potrebbe godere nemmeno del tenore di vita di cui comunemente gode, che noi erroneamente chiamiamo semplice e facile».

Mi sono fermato tanto sulle parole di Smith a favore della simpatia e della collaborazione perché si tratta del sociologo ed economista più utilizzato dai liberisti e neoliberisti per sostenere la validità della loro teoria basata sull’egoismo e sulla competitività come molle indiscutibili, prevalenti, naturali, quasi provvidenziali dell’agire umano.

Molto più vicino a noi, nel 1986, il sociologo Alfie Kohn del «New York Times» ha dedicato un saggio molto convincente al rapporto tra competizione e cooperazione, intitolato No Contest. The Case Against Competition, giudicato da Noam Chomsky «un’opera davvero imponente, impegnativa e profonda». Nell’intento di dimostrare why we lose in our race to win, perché noi perdiamo nella nostra corsa per vincere, Kohn smonta pezzo per pezzo i quattro miti su cui si fonda il concetto di competizione, coltivato soprattutto nei Paesi anglosassoni e nella cultura protestante. Secondo questi quattro miti, la competizione è una modalità consustanziale alla natura umana, intimamente aggressiva e ribelle; rappresenta una molla che ci spinge a dare il meglio di noi; è un’ottima fonte di divertimento; rafforza il carattere e la fiducia in noi stessi. Ai quattro miti rintuzzati da Kohn, un quinto alimenta un altro sociologo, Spiro Agnew, secondo il quale una società non competitiva finirebbe per essere un’esperienza fiacca, un mare stagnante, pieno di gente priva di obiettivi, che se ne sta in un bozzolo di false sicurezze e di mediocrità appagate.

Al contrario, Kohn dimostra con dovizia di argomenti che la cooperazione è parte integrante della natura umana almeno quanto la competizione e che la competizione è un comportamento non innato ma appreso. La stessa selezione naturale descritta da Darwin non richiede competizione ma la scoraggia, premiando soprattutto le specie che realizzano una migliore integrazione nel contesto ecologico, un maggiore mantenimento degli equilibri naturali, una più efficiente utilizzazione delle risorse disponibili, una più attenta cura e educazione dei piccoli, una più duratura assenza di lotte all’interno del gruppo.

Purtroppo la cooperazione salta all’occhio meno della competizione, la quale attira tanto più i media quanto più si manifesta in forme violente. Ma se la competitività fosse davvero naturale, le famiglie, le scuole, le aziende e soprattutto le business school non si affannerebbero tanto a inculcarla, istigarla e premiarla.

Il fatto è che il modello di vita più diffuso nel mondo è sempre stato il modello elaborato e imposto dal vincitore e le due ultime guerre mondiali – quella calda e quella fredda – sono state vinte dagli Stati Uniti. Come scrive Richard Hofstadter, professore alla Columbia University e due volte vincitore del premio Pulitzer, «la società americana si è riconosciuta nel concetto di selezione naturale portata avanti con le unghie e con i denti, e i gruppi dominanti sono riusciti a drammatizzare questa visione della competizione presentandola come una realtà positiva in se stessa. La rivalità affaristica più spietata e la politica priva di scrupoli sembrano essere giustificate dalla filosofia della sopravvivenza». A sua volta, David N. Campbell, nel suo On Being Number One: Competition in Education, ha osservato che «tutta questa lotta frenetica e irrazionale per battere gli altri è essenziale per quel genere di istituzioni che sono le nostre scuole, agenzie basate sul mercato, incaricate di selezionare il personale necessario al mondo degli affari».

In sintesi, «cercare di fare bene qualcosa e cercare di battere gli altri sono due cose diverse» e spesso la seconda torna a scapito della prima, come ci ricorda Alfie Kohn.

Diversamente dal capitalismo liberale, l’ideale comunista si fonda sul primato della convivialità, del dono disinteressato, della collaborazione organizzata. Purtroppo sappiamo quanti crimini sono stati commessi in nome di questo ideale e abbiamo visto come sia andata a finire dopo settant’anni di guerra fredda tra Est e Ovest. Però, quando cadde il muro di Berlino, il drammaturgo Václav Havel, allora presidente della Cecoslovacchia, profeticamente mi disse durante una conversazione radiofonica: «Ricordati che il comunismo ha perso, ma il capitalismo non ha vinto».

Nel 1930, come ormai sappiamo, Maynard Keynes profetizzò che i suoi nipoti avrebbero superato capitalismo e comunismo perché in pochi anni il progresso tecnologico avrebbe assicurato all’umanità beni esorbitanti rispetto ai suoi bisogni. Così, finalmente, «l’amore possessivo del denaro sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali».

Come abbiamo già calcolato, i nipoti di Keynes siamo noi, ma la sua profezia non si è ancora avverata, non per sua miopia ma per nostra scelleratezza. Chi ama e accumula smoderate ricchezze aggressivamente, lungi dall’essere consegnato allo psichiatra, è ammirato dalle masse e considerato un modello da imitare. Le disuguaglianze sono tanto più tollerate quanto più scandalose. Oggi 795 milioni di persone nel mondo non hanno abbastanza da mangiare; più di 3 milioni di bambini muoiono di fame ogni anno e 24.000 persone muoiono ogni giorno per sottonutrizione endemica.

Per fortuna, non tutti i beni e i bisogni sono «a somma zero». Se ti dono una moneta, io ne resto privo; se ti insegno una poesia, incremento il tuo sapere e il tuo piacere senza ridurre il mio. Dunque, il modo migliore per stemperare l’aggressività maligna in serenità cortese consiste nello spostare l’asse dei nostri desideri dalle conquiste di ordine quantitativo, come appunto il denaro, il potere e il possesso di beni materiali, alle conquiste di ordine qualitativo, come la pace e la ricerca interiore, la generosità, l’amicizia, la crescita intellettuale, il gioco, la bellezza, la convivialità: tutto ciò che Ágnes Heller chiama «comunismo». Per ottenere questa sublimazione, occorre il giusto stile, la giusta educazione, il garbo necessario e il luogo appropriato. Occorre cortesia e amore.

Per liberarci dell’aggressività, lungi dall’esserci utile il pensiero liberale e neoliberale, ci è prezioso quello di Marx quando parla della bellezza e della felicità come caratteri distintivi dell’uomo. «L’animale» egli dice «costruisce soltanto secondo la misura e i bisogni della specie cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie… L’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza». E, a proposito della felicità, dice: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, allora non proveremo una gioia meschina, limitata, egoistica, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».

Una semplice rivoluzione
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