Riposo
Il grande filosofo russo Alexandre Koyré, che conosceva come pochi altri la cultura della Grecia classica, diceva: «Non è dal lavoro che nasce la civiltà, ma dal tempo libero e dal gioco». Al contrario di quanto oggi si creda, durante molti secoli, soprattutto nell’era classica e nel Rinascimento, il lavoro non è mai stato al centro della vita sociale perché la scena era occupata dalla politica, dalla guerra, dalla filosofia, dalla religione, dalla ginnastica, dal teatro, dalle terme. Il lavoro non era una faccenda da uomini liberi ma da schiavi e da servi della gleba.
Il concetto onnivoro di lavoro così come lo conosciamo noi oggi è nato nell’Inghilterra dell’Ottocento, con le miniere e le filande, quando le regioni più dinamiche d’Europa capirono che non occorreva produrre in casa le materie prime come il cotone o il ferro, abbondanti nelle colonie e a basso prezzo, ma bastava avere i mezzi tecnici per trasformare la terra ferrosa in ghisa, la ghisa in ferro, il ferro in acciaio o per trasformare i fiocchi di cotone in filo, il filo in stoffa, la stoffa in abiti.
Come mai – ci si può chiedere – i Paesi produttori di materie prime non erano arrivati a pensarci? In realtà ci avevano pensato, ma gli era stato impedito dall’astuzia e dallo strapotere dei Paesi colonizzatori per cui le materie prime, prodotte in zone costrette alla monocoltura, invece di essere trasformate sul posto, venivano vendute sotto costo agli industriali dell’Europa e degli Stati Uniti, per poi tornare nei luoghi di origine sotto forma di costosi prodotti finiti. Un primo esempio è il cacao, che partiva per Londra, Parigi e Vienna, a basso prezzo, dalle terre umide del Carúpano in Venezuela o dal Recôncavo a sud di Bahia e vi ritornava sotto forma di cioccolatini tanto raffinati quanto costosi. Intanto, eserciti di peones e di schiavi gettavano la loro esistenza nelle piantagioni malsane, pagati con una manciata di carne secca o farina o fagioli, decimati dalla fame, dalla fatica, dallo scorbuto, dal tifo, dalla tubercolosi.
Un secondo esempio riguarda il cotone. Nel 1703 fu stipulato il trattato di Methuen tra Portogallo e Inghilterra per cui quest’ultima si impegnava a riservare un trattamento di favore ai vini portoghesi e, in cambio, il Portogallo apriva il mercato suo e delle sue colonie alle manifatture tessili britanniche. Alcuni anni dopo, nel 1785, la Corona portoghese, in base a un accordo con la Corona inglese, ordinò al Brasile di distruggere tutti i suoi telai e le sue filande. Così l’industria tessile della Gran Bretagna, che già occupava più di un milione di operai, rimase senza concorrenti e il cotone coltivato con fatiche disumane nei campi del Nordest brasiliano, imbarcato a São Luis de Maranhão, arrivava a Manchester e a New Lanark, dove veniva filato e tessuto con grandi profitti per gli industriali scozzesi, che vendevano le loro stoffe ad alto prezzo anche in Sudamerica. Con una globalizzazione già pienamente compiuta, la nascente borghesia inglese spremeva il proletariato locale, ed entrambi, sia pure in misura diversa, spremevano il proletariato brasiliano, con la complicità rapace ed ebete della burocrazia portoghese e dei proprietari terrieri brasiliani.
Il Brasile, che produceva zucchero e cotone, avrebbe potuto guadagnarci due volte se avesse raffinato sul posto l’uno, filato e tessuto sul posto l’altro. Ma ormai non aveva più telai e nel 1715 gli era stato anche proibito di raffinare lo zucchero. Sicché ci perdeva due volte: quando vendeva sotto costo le materie prime all’Inghilterra, e quando dall’Inghilterra le ricomprava a caro prezzo sotto forma di prodotti finiti. A metà Settecento in Inghilterra c’erano 120 raffinerie di zucchero e tre quarti del cotone filato nelle sue industrie tessili provenivano dalle colonie.
La nemesi storica compiuta a punizione di tanta cinica arroganza fu la condanna biblica dell’Occidente al lavoro. Mentre prima gli aristocratici non lavoravano e persino gli schiavi lavoravano poco, con l’avvento dell’industria lavorarono tutti e sodo: i proprietari per gestire le fabbriche, i proletari per produrre i prodotti, i commercianti per trasportarli e venderli. Milioni di contadini abbandonarono la campagna, dove erano padroni della loro giornata, e si riversarono negli opifici urbani insieme alla loro prole (onde il nome di «proletari»). Da allora in poi la vita dei cittadini divenne un infernale andirivieni tra fabbrica e mercato.
Nelle prime fabbriche gli orari e i ritmi erano così massacranti che, per consentire il recupero delle forze necessarie alla produzione, furono mantenuti i riposi festivi. Poi la lotta di classe conquistò ai lavoratori le prime riduzioni dell’orario giornaliero («Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorar» cantavano le mondine) e le prime ferie, destinate a crescere con il tempo non solo per motivi umanitari ma anche per alimentare il circolo vizioso del consumismo, visto che nei giorni festivi si spende più che nei giorni feriali. Poiché, per motivi tecnici, le catene di montaggio delle fabbriche erano costrette a fermarsi tutte insieme, i lavoratori dovevano fare il riposo giornaliero, quello settimanale e le ferie annuali simultaneamente, in un intervallo unico, prestabilito in base alle esigenze della produzione.
La situazione cominciò a cambiare in modo vistoso solo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la società postindustriale modificò il mix tra operai e lavoratori intellettuali, a favore dei secondi. Oggi, negli Stati Uniti come in Italia, quasi il 70 per cento della popolazione attiva non opera con le braccia ma con il cervello, non lavora alla catena di montaggio ma alla scrivania, svolge compiti che non richiedono la compresenza fisica di tutti i lavoratori nello stesso luogo e nello stesso tempo. Ciò consente di rendere sempre più destrutturati i periodi di riposo giornalieri, settimanali e annuali e affida al riposo non solo il compito di rigenerare le forze fisiche e mentali ma anche quello di arricchire la personalità del lavoratore sotto il profilo affettivo e culturale. Cessata la necessità della compresenza, diventa possibile a moltissimi lavoratori intellettuali e anche a molti operai di scaglionare riposo e ferie, programmare le proprie assenze dall’ufficio in base ai gusti, ai ritmi, alle disponibilità e alle esigenze proprie, della propria famiglia e della propria azienda. A loro volta, i mezzi di trasporto sempre più rapidi e meno costosi consentono di raggiungere agevolmente il mare o la montagna, il caldo o il freddo in qualsiasi periodo dell’anno. Di qui la progressiva destagionalizzazione del turismo, che permette di evitare la calca e i prezzi dell’alta stagione sostituendo un unico lungo blocco di vacanza con brevi periodi scaglionati durante tutto l’arco dell’anno. Questo scaglionamento torna vantaggioso sia all’economia che alla creatività. Oltretutto, limitare le ferie alla sola estate per il mare e al solo inverno per la montagna significava lasciare inutilizzate le strutture alberghiere per gran parte dell’anno e condannare il personale turistico alla disoccupazione stagionale.
D’altra parte, oggi la metà di tutti i lavoratori intellettuali – dal giornalista al professionista, dallo scienziato all’artista – svolge attività di tipo creativo in cui è quasi impossibile scindere la dimensione lavorativa da quella ludica. Più che di lavoro si tratta di ozio creativo. Questo tipo di attività, in cui converge lo studio, il lavoro e il gioco, è fondamentale per il progresso umano e ha bisogno di alimentarsi tutto l’anno con il riposo, lo svago, la riflessione, l’ispirazione. Senza tempo libero e senza gioco, non c’è creatività. Dunque, come ammoniva Koyré, non c’è civiltà.