Certezze

Cos’è nella cultura mondiale la figura del menagramo e nella cultura napoletana quella dello iettatore? È un personaggio – frequentemente reperibile in natura e contrapposto all’uomo positivo, ottimista – che vede nero ovunque posi lo sguardo; che oltre a prevedere sventure, è capace di determinarle; che persino si compiace della propria carica distruttiva.

Il numero e la presenza di iettatori non è stabile nel tempo: vi sono periodi in cui predomina l’ottimismo positivo (quelli dell’abbondanza, che la Bibbia chiama i tempi delle «sette vacche grasse») durante i quali i menagramo si rintanano, pronti però a sbucar fuori dalle loro tane di grigiore appena si profilano i periodi sfortunati (quelli della carestia, che la Bibbia chiama i tempi delle «sette vacche magre»).

Ora in Italia, in Europa, in gran parte del mondo, è tempo di iettatori. Secondo l’opinione corrente, l’economia va male; la sanità, le poste, le ferrovie fanno acqua da tutte le parti. Se un adolescente si ammazza in tempo di esami, subito i giornali denunziano una «improvvisa ondata di suicidi». I valori di una volta, i sentimenti di una volta, i rapporti di una volta, tutto «una volta» era meglio, più sano, più genuino, più coerente con Dio, con la Patria, con la Famiglia.

Oggi il pessimismo fa chic! La depressione viene persino ostentata come fu la tisi tra i romantici dell’Ottocento. I preti, gli economisti, gli ecologisti fanno a gara per formare una triste ghirlanda iettatoria. Già a suo tempo Anassagora raccomandava a Pericle di non bere perché il vino lo metteva di buon umore e lo faceva ridere: ridendo, non sarebbe stato preso sul serio e avrebbe fatto la fine dei Tebani, cioè avrebbe perso il potere. Molto più recentemente, gli italiani hanno scambiato Amedeo Nazzari per un grande attore solo perché faceva piangere e hanno scambiato Totò per un guitto solo perché faceva ridere. Poco prima che scoppiasse il golpe del ’64 in Brasile, il segretario di Stato americano auspicò che gli Stati Uniti incoraggiassero quel golpe perché il popolo brasiliano era pericoloso: era pericoloso perché rideva sempre e, come si sa, i popoli che ridono sono facile preda del comunismo.

Il pessimismo è d’obbligo soprattutto tra gli intellettuali: un intellettuale di razza deve essere pessimista, altrimenti non è credibile. Quasi tutti i libri usciti negli ultimi anni grondano profezie di sciagura. Un modestissimo libro di Charles Handy ha avuto successo soprattutto perché intitolato L’epoca della non-ragione. Due libri intitolati L’età dell’incertezza, uno di John Kenneth Galbraith e l’altro di Vera Slepoj, e un terzo, di Ilya Prigogine, La fine delle certezze, certamente debbono una dose della loro fortuna al risvolto minacciante sotteso a questi titoli. La certezza dell’incertezza è il cavallo di battaglia dei più pessimisti tra gli scienziati, i letterati, i giornalisti, i manager e i docenti di management.

Secondo questi moderni iettatori, tutto un tempo era certo, preciso, prevedibile, rassicurante. Sappiamo bene che migliaia di bambini morivano già prima di imparare a parlare; che migliaia di persone venivano falciate da improvvise epidemie; che milioni di cittadini vivevano nella più squallida miseria, senza la speranza di sopravvivere fino all’indomani; che il cibo, i diritti civili, l’istruzione, l’igiene erano negati alla stragrande maggioranza dei nostri antenati; che persino i principi piombavano nella disperazione appena venivano assaliti da un mal di denti o da un’appendicite. Ma i nostri intellettuali inclini al pessimismo attivo continuano a rimpiangere quei «bei tempi antichi».

Oggi la speranza di vita è più che raddoppiata; i giovani disoccupati stanno meglio dei genitori occupatissimi; il welfare è talmente esteso che in tutti i Paesi dell’Ocse stanno progettando di ridimensionarlo. Eppure i moderni menagramo gridano che tutto è incerto, che tutto va a rotoli, che siamo sull’orlo del baratro.

Provo, dunque, a elencare qualche certezza, sfidando l’impopolarità riservata agli ottimisti.

Non è forse certa la morte e, con essa, la fine di ogni rapporto con i cretini, gli scocciatori, i truffaldini, i furbi, gli invadenti, i pessimisti, i faccendieri, i gregari, gli impostori, i prepotenti?

Non è forse certa la crescente longevità e, con essa, la possibilità di belle letture, buona cucina, più introspezione nella solitudine, più gioia nella convivialità?

Non è forse certo l’amore e, con esso, la coinvolgente ambiguità del fascino, la trepidazione del corteggiamento, la pienezza dell’erotismo, la tenerezza o il furore degli addii?

Non è forse certa l’amicizia e, con essa, il piacere dei doni, il tepore dell’accoglienza, il candore delle confidenze, l’inattesa solidarietà?

Non è forse certa la bellezza e, con essa, l’emozione delle albe e dei tramonti, lo stupore dei paesaggi, la profondità degli sguardi, l’inesauribile opulenza della creatività?

Non è forse certa l’ubiquità consentita dalle nuove tecnologie e, con essa, l’avventura dei viaggi, la libertà del moderno nomadismo, la ricchezza delle informazioni, il villaggio globale, la cittadinanza universale?

Non sono forse certe le ore del giorno, le stagioni dell’anno, le età della vita e, con ciascuna di esse, la varietà dei gusti, l’avvicendarsi delle passioni, l’accumularsi dei ricordi?

Una semplice rivoluzione
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