Paradossi

Il problema dei disoccupati rischia di mettere in secondo piano il problema degli occupati. La vita di un disoccupato è orribile, perché nella nostra società tutto dipende dal lavoro: stipendio, contatti professionali, prestigio, e (se si è cristiani) persino il riscatto dal peccato originale e il lasciapassare per il paradiso, secondo il verdetto biblico: «Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; tu mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita». Dunque, se manca il lavoro, manca tutto.

Molto spesso, però, anche la vita del lavoratore occupato è ridotta a un inferno perché l’organizzazione manageriale delle aziende si preoccupa di moltiplicare la quantità dei prodotti, non la felicità dei produttori.

Contro questa organizzazione, si possono sollevare almeno una diecina di capi d’accusa, corrispondenti ad altrettanti paradossi.

In nome della competitività, essa attizza una stupida guerra di tutti contro tutti, che esalta l’istinto della violenza, devasta lo spirito solidale e la dolcezza dei rapporti umani.

In nome della praticità, essa fa scempio del senso estetico costringendo milioni di operai in reparti infernali e milioni di impiegati in ambienti anonimi, periferici, alienanti.

In nome dell’efficienza, essa estorce tempo ed equilibrio mentale ai propri dipendenti, costringendoli a inutili ore di straordinario e di stress per fare cose spesso banali, a scapito della vita familiare e di quella sociale.

In nome della socializzazione, essa costringe a sopportare superiori sadici e ottusi, colleghi masochisti e repellenti, riti e procedure aziendali che immolano la creatività al grande idolo della gerarchia.

In nome della sincronizzazione e del coordinamento, essa impone obbedienza acritica e assoggetta i bioritmi dei singoli lavoratori ai ritmi delle macchine e delle procedure, fino a ridurre tutta l’azienda, la città, la società a un’unica, onnivora catena di montaggio.

In nome dell’esternalizzazione, essa espelle dalle aziende le funzioni più creative e trattiene quelle più esecutive, pianificabili, controllabili, trasformando via via le imprese in altrettante sclerotiche burocrazie.

In nome della modernizzazione tecnologica, essa condanna le competenze professionali a una rapida obsolescenza e getta sul lastrico milioni di lavoratori.

In nome della globalizzazione, essa riduce gli organici, distrugge le industrie nazionali, impone culture estranee, mina l’autorità degli Stati nazionali.

In nome della flessibilità, essa vanifica i diritti acquisiti dai lavoratori e restituisce al datore di lavoro il potere assoluto sulla loro sorte.

In nome del libero mercato, essa distrugge la sicurezza sociale del welfare, privatizza e trasforma in affari anche le funzioni vitali dello Stato, dalla sanità all’istruzione, dai trasporti alla difesa.

In nome della meritocrazia, nomina il top management non in base alla competenza ma in base all’appartenenza a cordate di amici che proteggono e promuovono altri amici.

L’insieme di questi paradossi induce alla subordinazione e all’obbedienza passiva piuttosto che all’intraprendenza e alla creatività. E, esaurita una cordata, affida la felicità alla speranza di un miglioramento che dovrebbe arrivare con la cordata successiva. «Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti…» Ricordate il Manzoni? (Chissà perché, quando si cita Manzoni, si dice il Manzoni.) Dunque, nel famoso coro dell’Adelchi, il Manzoni parla di un subalterno popolo medievale che, all’improvviso arrivo di un nuovo esercito, «intende l’orecchio, solleva la testa» e «sogna la fine del duro servir», sogna una libertà che gli dovrebbe venire non dalla propria ribellione al vecchio padrone, ma dalla generosità dei nuovi conquistatori.

Così oggi, di tanto in tanto, dagli uffici, dai corridoi, dalle mense aziendali, un volgo disperso d’impiegati e manager, percosso da nuovo crescente rumor, intende l’orecchio, solleva la testa e assiste timoroso o speranzoso all’arrivo di nuovi boss. Succede quasi ogni giorno. Alla Fiat, alla Pirelli, alla Telecom, alla Apple, a Google, all’Ibm.

Una società è democratica quando il popolo sceglie i suoi governanti. Ma le imprese, per definizione, sono gerarchiche, piramidali, autoritarie: i loro capi non vengono eletti dal basso ma nominati dall’alto e, spesso, dal di fuori. Ai dipendenti (persino a quelli di altissimo rango) non resta che prendere atto delle nuove nomine, apprendendole non dal proprio superiore gerarchico ma dalle pagine del «Sole 24 Ore», di «Valor» o del «Financial Times».

Se, dopo alcuni secoli dalla scoperta della democrazia, gli Stati democratici funzionano ancora malissimo, è proprio perché essi, come sfere riempite di piccole piramidi, dentro un involucro egualitario nutrono gruppi ancora gestiti dittatorialmente. Quale membro familiare ha mai eletto il proprio capofamiglia? Quale fedele ha mai eletto il proprio parroco? e quale parroco il proprio vescovo? Quale studente il proprio professore e quale professore il proprio direttore amministrativo? La partecipazione, sancita per i riti solenni come l’elezione del parlamento o del sindaco, è bandita dalle organizzazioni quotidiane, quelle che davvero contano per la nostra felicità.

Il geniale Alexis de Tocqueville, quando nel 1831 dalla Francia monarchica approdò all’America repubblicana, rimase stupito dalle libertà costituzionali del Nuovo Mondo ma si accorse subito delle magagne che esse celavano. In quel capolavoro insuperato che è La democrazia in America, egli scrisse: «Credo che la libertà sia meno necessaria nelle grandi che nelle piccole cose, perché è nel particolare che è pericoloso asservire l’uomo. Significa contrariare ogni momento l’individuo, snervarlo, e fargli presente a ogni piè sospinto la sua condizione… Una costituzione che sia repubblicana nel cervello e ultra-monarchica in tutte le altre parti, mi è sempre apparsa un mostro effimero. I vizi dei governanti e l’imbecillità dei governati non tarderebbero a condurla in rovina».

L’ultra-monarchia delle aziende comporta che, ogni tanto, a ondate, si sparga per i corridoi la voce che il monarca in carica comincia a vacillare. Allora, giù giù per i rami dell’organigramma, tutti quelli che hanno goduto delle sue grazie cominciano a tremare, mentre tutti gli altri, esclusi dalla sua cordata, sollevano le loro teste e, col misero orgoglio d’un tempo che fu, arrotano i coltelli delle loro notturne vendette.

Ogni cambio di guardia al vertice dei grattacieli direzionali provoca terremoti che, prima di assestarsi, proiettano i loro effetti sismici fino ai piani sottostanti dei direttori, a quelli ancora inferiori dei manager e degli impiegati, a quelli infimi dei commessi e degli uscieri.

In alcune stanze cinicamente si brinda ai nuovi padroni, mentre in altre cala il terrore: qualcuno tenta di occultarsi in attesa di oblio e di tempi migliori; qualche altro cerca di cambiare bandiera correndo in aiuto dei vincitori; qualche altro ancora si dimette o si suicida.

Tutto avviene in modo felpato e silente. Se qualcuno parla ai livelli alti, lo fa concedendo una signorile intervista ad «Affari&Finanza» o a «Forbes»; se qualcuno parla ai livelli bassi, lo fa bisbigliando nei corridoi. Mai nessuno che chieda ai nuovi padroni le credenziali e le competenze; mai nessuno che li affronti di petto, per contrattare il proprio destino o almeno per soccombere a testa alta.

Manager che hanno costruito la loro carriera lavorando sodo per anni, rinunziando alle gioie della famiglia, della cultura e del tempo libero per accumulare una debordante professionalità, accettano supini di essere diretti dai nuovi arrivati, assolutamente ignoranti di tutto ciò che si progetta, si produce e si vende nel loro nuovo regno, guadagnato non per meriti specifici ma per fedeltà a un ministro, a un segretario di partito, a una loggia massonica, a una congrega religiosa.

«Tutto sommato» è l’acuta osservazione del profetico Tocqueville «mi pare che l’aristocrazia industriale di oggi è tra le più dure che siano mai esistite… È da questa porta che la democrazia deve temere un ritorno all’ineguaglianza sociale.»

Una semplice rivoluzione
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