Politici
Nel 1960 il presidente di un’azienda privata americana guadagnava il doppio del presidente degli Stati Uniti. Oggi guadagna 62 volte di più. È questo un sintomo non secondario di come è andato mutando in tutto il mondo industriale il rapporto di forze tra economia e politica. Allo stato attuale di questo processo si può dire che ormai l’economia ha colonizzato il mondo politico, la finanza ha colonizzato il mondo economico, le agenzie di rating hanno colonizzato il mondo finanziario. Con un attacco a tutto campo, le ragioni dell’impresa hanno soppiantato quelle della polis e le ragioni della Borsa hanno soppiantato quelle dell’impresa.
I criteri organizzativi dell’azienda finanziaria si sono candidati per regolare anche la gestione della vita pubblica. Si parla di università come impresa, sanità come impresa, Stato come impresa, quasi che il buon funzionamento di qualsiasi istituzione, Stato compreso, fosse possibile solo adottando le stesse regole che l’industria segue per massimizzare i suoi profitti. Di conseguenza, gli imprenditori e i manager, per il fatto stesso di aver concluso affari in base a quei princìpi, si reputano legittimati, essi soli, a gestire anche le organizzazioni politiche e sociali. In Italia più volte Berlusconi ha ribadito che il suo successo come imprenditore costituisce una garanzia delle sue capacità di statista. E in tutto il mondo sono sempre più numerosi i candidati alle elezioni politiche che ostentano la loro carriera manageriale come il migliore pedigree per entrare in parlamento.
Così, quasi senza accorgercene, stiamo vivendo una delle trasformazioni più profonde della nostra vita pubblica. Mai prima d’oggi, infatti, la visione aziendocentrica aveva osato affermare in modo così esplicito che la cultura imprenditoriale e manageriale è migliore di ogni altra cultura, compresa quella politica, amministrativa e burocratica: dunque, ha diritto di colonizzare anche il parlamento e la pubblica amministrazione. Ma in che cosa consiste questa cultura manageriale che sta soppiantando quella politica? Di quale dignità scientifica essa è dotata? È un bene o un male che essa colonizzi tutta la nostra società?
L’industria, e la società industriale che da essa prende il nome, è un prodotto storico e, come tale, ha avuto una sua incubazione, una sua nascita, un suo sviluppo e un suo declino, reso evidente e certificato dal sorpasso della società postindustriale. Come abbiamo già visto, il modo di produzione industriale, sconosciuto fino all’Ottocento, parte dal razionalismo illuminista approssimativamente applicato ai bisogni della produzione di massa, proclama che ogni mansione lavorativa deve essere programmata e realizzata scientificamente, espelle dai luoghi di produzione ogni residuo di emotività, estetica e solidarietà per fare posto alla razionalità, alla pratica, alla competitività, all’utilitarismo.
Se la religione persegue uno scopo etico, se la politica persegue uno scopo sociale, se l’arte persegue uno scopo estetico, se il partito persegue uno scopo di consenso, l’impresa persegue uno scopo di profitto. L’importante è che ciascun sistema resti coerente con il proprio scopo e impedisca l’irruzione entro i propri confini di logiche provenienti da altri sistemi: così, ad esempio, gli affari sono affari e non debbono farsi fuorviare da impulsi emotivi o da caritatevoli slanci filantropici. Sulla divisione dei poteri è basata la democrazia moderna.
Queste staccionate ideologiche e operative, prima rigide e insormontabili, sono via via diventate più elastiche e porose; negli ultimi decenni, le distanze tra la filosofia dei partiti e la filosofia delle imprese si sono accorciate sempre di più; i politici hanno adottato tecniche squisitamente manageriali come i bilanci, il marketing, le selezioni con test attitudinali; i manager, soprattutto attraverso le fondazioni, hanno sconfinato in campi come l’ecologia o la conservazione dei monumenti.
Man mano che l’azione politica si indeboliva sotto i colpi sadici delle destre e quelli masochisti delle sinistre, è aumentata la tentazione dei manager di colmare il vuoto politico con la propria razionalità efficientistica.
Quando, infine, la magistratura ha scoperchiato il marcio che accomunava politica e affari, il mondo industriale, grazie ai mezzi d’informazione di cui si era superdotato, ha preso in mano le redini del cambiamento, è riuscito a addossare ai politici quasi tutta la responsabilità degli scandali, si è proposto come partito, ha riscosso la fiducia della maggioranza e ha preteso di governare improntando le proprie azioni ai criteri manageriali di cui si sente depositario.
Ma quali sono questi criteri? Che garanzie democratiche offrono?
La cultura manageriale è caratterizzata dalla preferenza per tutto ciò che è standardizzato, specializzato, piramidale. L’efficienza, intesa come massimi risultati quantitativi nel minimo tempo, costituisce il metodo e, contemporaneamente, il parametro più intransigente di giudizio.
Questi princìpi fondano quasi una religione. È grazie a essi, del resto, che la società industriale ha sconfitto la fame, l’ignoranza, il dolore, la tradizione, il feudalesimo dei Paesi industrializzati.
Accanto a essi, il manager coltiva una visione aggressiva della vita, assillata dal bisogno di distruggere o inglobare i concorrenti; un atteggiamento acritico verso gli ordini che derivano dall’alto; una tendenza a monetizzare tutto, sottovalutando gli aspetti umanistici, etici ed estetici della vita; una preferenza per tutto ciò che è pianificato, prevedibile, sotto controllo; una buona dose di cinismo verso tutto ciò che è perdente; un’inclinazione a innovare le tecnologie senza però modificare gli assetti sociali; un modernismo economico accoppiato al tradizionalismo culturale; un’attenzione più marcata verso il dovere di impronta quasi militare che verso la convivenza di natura solidale. Basterebbe, come esempio, il ruolo tuttora gregario riservato alle donne nelle imprese e l’attenzione quasi maniacale dei manager per la sfera lavorativa, a scapito della vita familiare e della crescita culturale.
Alla ricerca cocciuta di procedure standardizzanti, di regole accentratrici, di separazioni innaturali fra tempo di vita e tempo di lavoro, il manager accompagna la propensione a escludere un numero crescente di lavoratori dal processo produttivo in nome della competitività globale assunta come un prius rispetto alla solidarietà umana e alla qualità della vita. Ogni volta che la nave dell’economia si incaglia nelle secche della crisi, l’impresa riprende il suo viaggio gettando a mare tutta la zavorra di giovani, donne, anziani, marginali che l’appesantiscono. Intanto la tecnologia procede nella sua marcia trionfale e fagocita un numero crescente di mansioni, liberando il lavoro ma costringendo masse crescenti di lavoratori prima alla condizione avvilente di «esuberi» e poi alla condizione disperata di disoccupati.
Lo stress da sottoutilizzazione dei cervelli dentro le aziende e lo stress da disoccupazione fuori delle aziende sono diretta conseguenza di un’organizzazione del lavoro ormai decrepita, che andrebbe ripensata dal profondo delle sue fondamenta con una rivoluzione postindustriale di portata pari a quella industriale di duecento anni fa.
Il mondo manageriale, insieme a quello politico, intellettuale, scolastico e sindacale dovrebbe contribuire all’elaborazione di un nuovo modello di lavoro e di vita, basato sull’equa ridistribuzione della ricchezza, del lavoro, del sapere e del potere. Invece esso offre disinvoltamente il più spudorato esempio di recrudescenza delle disuguaglianze. Eravamo ancora alle soglie del XXI secolo quando un rapporto elaborato dall’Institute for Policy Studies, non a caso intitolato Executive Excess 2000, certificava che nei dieci anni precedenti il salario di un lavoratore medio americano era aumentato del 27 per cento, i profitti aziendali erano aumentati del 116 per cento, il valore delle aziende in Borsa era aumentato del 297 per cento, la remunerazione degli amministratori delegati era aumentata del 535 per cento. Il rapporto confessava: «Crediamo che differenze eccessive siano incompatibili con i principi di sana democrazia e di giustizia economica». I top manager delle imprese che occupavano i primi cinquanta posti nella classifica di «Fortune», da soli, detenevano stock option per un valore cinque volte più grande di quanto guadagnavano i 91 milioni di americani collocati nella fascia più povera della popolazione statunitense. Negli ultimi quindici anni queste disuguaglianze sono aumentate in misura tanto più scandalosa quanto più mordente è diventata la crisi mondiale scatenata dalle banche americane. Questa è la cultura di cui sono portatori i manager. Oscar Niemeyer, il più grande architetto del XX secolo, ha detto: «Io mi vergognerei se fossi un uomo ricco», ma i nostri top manager considerano il denaro come misura di tutte le cose e si vergognerebbero se guadagnassero meno dei loro concorrenti super retribuiti.
A questa cultura del potere e del denaro, a questa cultura della competitività distruttiva si ispira quella filosofia manageriale che sempre più spesso si propone come toccasana per gestire non solo l’economia ma anche la scuola, la sanità, la politica, insomma l’intera nazione e le sue strutture statali.
Forse questa colonizzazione del pubblico da parte del privato riuscirà a diffondere una propensione all’autodisciplina, alla programmazione, alla dedizione acritica. Ma la cultura manageriale non è solo questo. Essa veicola pure una pericolosa inclinazione al cinismo, al maschilismo e all’aggressività; una sistematica sottovalutazione della qualità etica ed estetica della vita, della sfera affettiva, della soggettività; una propensione al compromesso, ai rapporti gerarchici; una sopravvalutazione del successo economico, del consumismo, del particolarismo, del denaro come misura del successo.
I manager stentano a recepire tutte le conquiste sociali che la politica ha consentito; diffidano della politica stessa, la reputano vuota di per sé: un rumore di fondo nella vita attiva e un intralcio sulla via delle grandi realizzazioni materiali. Essi tendono a semplificare le dinamiche sociali, riducendo infantilmente ogni variabile alla semplice dimensione economica, e considerano perciò astrusa ogni azione di più vasto raggio e di ottica più allargata. Sottovalutano in modo sistematico le esigenze della base, subordinandole a quelle dei vertici, con cui si identificano.
Il quadro che ho reso è forse troppo fosco perché si riferisce al modello imprenditoriale di tipo taylorista e fordista. È però vero che, da alcuni anni a questa parte, le scienze manageriali vanno proponendo la sostituzione di una strategia veteroindustriale product oriented, orientata al prodotto e basata sul controllo, con una strategia postindustriale marketing oriented, orientata al cliente e basata sulla motivazione. Secondo questa strategia innovativa, l’atteggiamento illuminista e paternalista, per cui l’imprenditore pretendeva di essere capace, lui solo, di prevedere, valutare, decodificare, sfruttare sia i bisogni dei suoi dipendenti, sia i bisogni dei suoi potenziali clienti, immaturi e ignoranti per definizione, appartiene a una fase ormai obsoleta della storia industriale.
Oggi, secondo questo nuovo approccio, un imprenditore moderno o un manager al passo coi tempi, prima di impostare una nuova linea di prodotti, deve preoccuparsi di individuare, tramite una seria ricerca di mercato, quali di quei prodotti già corrispondono ai bisogni espliciti e pressanti dei destinatari, per cui richiedono una semplice campagna di advertising, e quali, invece, per essere imposti al mercato, hanno bisogno di una massiccia propaganda manipolativa che ottenga la costumer satisfaction, come si dice in gergo.
Trasposto sul piano politico, ciò significa che il leader politico dell’era postindustriale deve saper manipolare i cittadini in modo che gli chiedano ciò che lui aveva già programmato di dargli. Così, all’inizio del XXI secolo, siamo approdati nella situazione alienante che Tocqueville aveva paventato due secoli orsono: la società composta da una massa di sudditi ridotti allo stato puerile, su cui si eleva un immenso potere tutelare che si adopera affinché essi restino fissati in un’infanzia perpetua e divertente.