Pulp

Un fiume sotterraneo di sangue scuro attraversa la letteratura di tutti i tempi: da Ipponatte a Cecco Angiolieri, da Verlaine a Rimbaud, da Oscar Wilde a Pasolini, da Kerouac a Salinger, da Hornburg a Edoardo Nesi. Sono i poeti maledetti: quelli che vivono la propria esistenza come una discesa all’inferno, un dolce scivolare sull’acqua, verso la paura.

Accanto alla letteratura, il fiume sotterraneo di sangue scuro ha impregnato anche la musica (da Bob Marley agli Assalti Frontali), l’arte (da Caravaggio a Basquiat), il cinema (da Easy Rider a Pulp Fiction).

Anche Dante scese all’inferno, ma con la raccomandazione di Beatrice e con la guida di Virgilio, come in un percorso turistico a giusta distanza dai dannati: quel tanto che bastava per vederli friggere senza restarne scottato. Caravaggio, Rimbaud e Kerouac hanno invece condiviso gli stessi bassifondi dei loro personaggi, hanno rischiato in prima persona i coltelli notturni delle vendette, hanno inseguito con le proprie gambe le allucinazioni delle droghe e delle violenze.

Il problema è: poiché il tempo di vita si allunga, il tempo di lavoro si accorcia e, dunque, il tempo libero aumenta, quanti cederanno alla tentazione fatale di riempire i propri giorni vuoti con una discesa all’inferno? Cosa è meglio: un viaggio ai Caraibi reclamizzato dalle riviste patinate, o una fuga tra i pestaggi, le feste rave e gli smidollati strafatti di Portland e di New York?

Si sta facendo di tutto perché un numero crescente di giovani troppo a lungo disoccupati e un numero crescente di anziani troppo presto pensionati preferiscano la via dell’inferno.

Non so se avete visto a suo tempo il film Trainspotting: il giovane protagonista si sente costretto a scegliere tra una vita familiare con genitori idioti in una casetta disarmante per la sua linda banalità; e una vita grunge in luoghi fetenti, tra coetanei devastati dall’eroina ma comunque capaci di volare ancora alto nel delirio della droga. Se il dilemma fosse veramente questo, se davvero non esistesse una terza via tra il grigio squallore della vita piccoloborghese e la fosforescente autodistruzione della droga, ebbene: anche io sceglierei la droga.

Non so se avete letto La cenere degli angeli di Michael Hornburg: il protagonista David esercita la professione di eterno «ex aspirante» a qualcosa e vive il proprio bar di Portland come una «casa di riposo per i disoccupati terminali». Di fronte ai suoi cinici amici, i ragazzi di vita di Pasolini erano dei teneri cresimandi analfabeti. I duri di Portland, invece, tutti diplomati o laureati, sono capaci di ironie raffinatissime come di stupri spietati.

«Ero così stonato» dice David «che tutto aveva un doppio significato, questo diventava quello, era troppo rischioso azzardare delle conclusioni, anche se ne avevo la testa piena.» Quando gli capita di scorrere sul giornale gli annunci dei soliti McDonald’s, finisce per concludere che «l’aspetto più eccitante di questi lavori era la capacità psicologica di convincersi in qualche modo di non essere dei perdenti totali».

A Portland come a New York tutti cercano qualcosa per passare il tempo: «Passai molto tempo a perdere tempo, a prendere l’ecstasy, a seguire i piccoli punti di luce delle palle a specchio del City Club o del Metropolis. Passavo da un bicchiere vuoto all’altro, facevo l’amore con donne che non conoscevo, la vita mi sembrava senza senso». David conosce solo gente che fa amicizie sbagliate nel quartiere sbagliato col futuro sbagliato; tutti hanno qualcosa da cui vogliono fuggire; tutti – non importa dove vivano – vorrebbero essere da qualche altra parte. «Mai tanta gente ha perso così tanto tempo per ottenere così poco.»

Al nostro ex aspirante non resta dunque che concludere: «Spero a un certo momento di avere un alibi glorioso per coprire il miserabile fallimento della mia vita, come un incidente di macchina o un cancro al cervello». E una sua amica constata: «Tra pochissimo partirà il conto alla rovescia della fine-millennio, tutto diventerà gotico e sarà strano, sarà un mix tra un glam-new-age-di-fine-secolo e una specie di istantaneo Zeitgeist».

Sulla scorta di questi americani incazzati, anche alcuni giovanissimi scrittori italiani – da Ammaniti a Nove, da Governi a Nesi – si dimostrarono incazzatissimi. La candida Isabella Santacroce, ad esempio, così concluse il suo Destroy: «State aspirando sintetico Violence Vol.1 mentre il vostro cane sodomizza la Barbie fotomodella. Vi toccate quando lei urla slave. Succhiate vibratori d’acciaio. Le sue urla vi eccitano. Vi bagnano… Vorrei guardare le vostre teste esplodere. Vorrei esplodeste tutti. Come fuochi d’artificio in una notte nera e brillante».

La candida Isabella non ha avuto il nostro scalpo: eravamo troppo innamorati della vita per non sapere che tra l’inferno della disperazione e il limbo del consumismo c’è spazio per miliardi di angeli.

Una semplice rivoluzione
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