Mercato

Il mercato del lavoro è come un lago in cui alcuni affluenti immettono acqua e alcuni defluenti la espellono. Per una serie di motivi, l’acqua che resta nel bacino del lago è sempre meno di quella che vi vorrebbe entrare. Fuor di metafora: il numero di persone che cercano un impiego supera sempre più il numero dei posti disponibili e, se non si cambiano le regole del gioco, la disoccupazione esplicita e occulta è destinata a crescere in misura patologica.

I lavoratori potenziali aumentano perché aumenta la popolazione mondiale; perché la vita media si allunga; arrivano immigrati da altri Paesi; in molte nazioni è stato eliminato il periodo di leva e sono state ridotte le forze armate; diverse aziende, sostituendo il lavoro umano con quello meccanico e migliorando l’organizzazione, riducono i propri organici e immettono sul mercato disoccupati a caccia di reimpiego; molti giovani abbandonano i centri minori per cercare lavoro nei centri maggiori; la salute dei cittadini migliora e quindi ci sono meno malati sottratti al lavoro; anche le donne, i giovani, gli anziani, gli handicappati giustamente pretendono un lavoro, tanto più che le nuove tecnologie corrono in loro aiuto; aumenta il consumismo e, con esso, la necessità di ulteriori stipendi in famiglia; le donne hanno pochi figli e, quindi, più tempo da dedicare alla carriera.

D’altra parte vi sono parecchi motivi per cui, nei Paesi del Primo Mondo, l’offerta di lavoro è inferiore alla domanda: in questi Stati il Pil cresce più lentamente che in quelli emergenti o addirittura decresce, per cui ci sono meno capitali da investire; il costo del lavoro è alto, per cui non sono convenienti gli investimenti in imprese labour intensive; il progresso tecnologico rende capital intensive le imprese, che tendono a sostituire l’apporto umano con quello di macchine sempre più veloci e intelligenti; lo sviluppo organizzativo avviato da Taylor e da Ford ha fatto ulteriori passi e, intrecciandosi con il progresso tecnologico, ha consentito di produrre più beni e più servizi con minore impiego di persone; la globalizzazione rende sempre più conveniente comprare all’estero molti beni e servizi che prima si producevano in casa.

Il gioco complicato della domanda e dell’offerta fa sì che, mentre ottant’anni fa Keynes avrebbe considerato disastrosa una disoccupazione superiore al 2 per cento, oggi veleggiamo disinvoltamente oltre il 10 per cento, attribuendo questo tasso a una crisi congiunturale che prima o poi sarà superata ma che, nei fatti e in termini occupazionali, non cessa mai. Se in passato erano le aziende fallimentari a ridurre il proprio personale, oggi licenziano anche le aziende di successo, perché possono permettersi tecnologie più sofisticate e, quindi, più sostitutive di manodopera e mentedopera. In altri termini, non è vero che gli investimenti eliminano la disoccupazione: oggi, se un imprenditore ha più soldi a sua disposizione, non li investe assumendo uomini ma li investe acquistando robot.

Se si guarda al mercato internazionale del lavoro nel suo insieme, ci si accorge che si è andata creando al suo interno una compresenza di tre diversi tipi di Paesi, che svolgono ruoli sempre più specializzati. Quelli del Primo Mondo, che corrispondono grosso modo ai 34 Stati dell’Ocse, hanno un Pil pro capite superiore a 20.000 euro e un alto costo del lavoro; piuttosto che produrre beni, questi Paesi tendono a condurre operazioni finanziarie, a produrre idee scientifiche ed estetiche sotto forma di brevetti, design, moda, film, programmi televisivi, musica, banche dati, motori di ricerca, internet eccetera.

Vi sono poi i Paesi emergenti del Secondo Mondo, graziosamente accomunati sotto etichette come Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e Civets (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sudafrica) che stanno diventando le fabbriche e gli uffici del pianeta, dove il Pil pro capite è inferiore ai 10.000 dollari, il lavoro costa meno della metà di quanto costa nel Primo Mondo, le norme che regolano il lavoro e salvaguardano l’ambiente sono meno restrittive e meno osservate. Perciò il Primo Mondo tende a dislocarvi le proprie fabbriche che, rispetto ai centri direzionali, ai laboratori scientifici, alle case di moda, alle banche e alle borse, rendono molto meno e inquinano molto più. Se guardate bene dietro ogni prodotto della Apple vi troverete scritto in caratteri quasi invisibili: «Designed by Apple in California, assembled in China». Una diecina di Paesi emergenti, cumulando i bassi costi rurali con l’alta produttività industriale e con la prodigiosa tecnologia postindustriale, riescono a correre molto più dei Paesi ricchi: negli ultimi tempi il Pil della Cina ha superato quello del Giappone, il Pil del Brasile ha superato quello dell’Italia, il Pil dell’India ha superato quello della Spagna.

Infine, il Terzo Mondo, soprattutto l’Africa subsahariana, produce bocche da sfamare e, per ora, non possiede altra merce di scambio se non le materie prime da svendere, le braccia della propria manodopera da prestare a sottocosto, le basi militari e la subordinazione politica da barattare con la sopravvivenza.

Come è noto, i lavoristi distinguono, nell’ambito della popolazione complessiva, la fascia «attiva» da quella «inattiva». Nella popolazione attiva collocano tutti coloro che lavorano e tutti coloro che cercano attivamente un lavoro. Nella popolazione inattiva, oltre a determinate categorie (benestanti e proprietari, casalinghe esplicite, studenti, pensionati, infermi e inabili permanenti, condannati a più di 5 anni, mendicanti), collocano gli «scoraggiati»: cioè coloro che non cercano più lavoro perché hanno capito che non lo troverebbero.

Con il passaggio dalla società industriale alla società postindustriale, questo mercato del lavoro ha subìto molteplici trasformazioni. La prima è la tripartizione internazionale di cui abbiamo già parlato. La seconda trasformazione riguarda il mutato peso tra i diversi settori produttivi. In Italia, ad esempio, durante l’ultimo mezzo secolo, gli addetti all’agricoltura sono scesi dal 29 al 4 per cento; gli addetti all’industria sono scesi dal 41 al 29 per cento; gli addetti ai servizi sono saliti dal 30 al 67 per cento. A livello mondiale, oggi il contributo dell’agricoltura al Pil complessivo è del 30 per cento; quello dell’industria è del 24 per cento; quello dei servizi è del 45 per cento.

La terza trasformazione riguarda la composizione dei lavoratori occupati. Nelle imprese industriali di metà Ottocento occorreva molta forza lavoro; la stragrande maggioranza degli occupati erano manovali e operai che svolgevano mansioni di natura fisica, parcellizzata e ripetitiva; non più del 10 per cento era addetto a mansioni intellettuali, prevalentemente impiegatizie.

Oggi, invece, la produzione di beni e servizi non solo richiede meno lavoro umano ma lo ripartisce in modo molto diverso. Circa un terzo degli occupati svolge funzioni intellettuali di tipo creativo come quelle dello scienziato, dell’artista, del professore, del giornalista, del libero professionista, dell’imprenditore, del banchiere, del dirigente, del manager. Si tratta di funzioni espressive che, per loro natura, si occupano di informazioni, richiedono molta preparazione, mal si prestano a essere controllate quantitativamente, a essere imbrigliate in luoghi, procedure, tempi e ritmi predefiniti rigidamente, fanno ricorso sempre più frequente a tecnologie informatiche e a reti di conoscenze, hanno continuo bisogno di stimoli e di formazione, producono novità ed emozioni, anticipano bisogni, richiedono tempi di incubazione apparentemente morti, comportano una continua tensione inventiva che non sempre si traduce in una produttività costante di idee. I creativi non si staccano mai dal loro mezzo di produzione – il cervello – e dunque non si staccano mai dalla loro attività, che prosegue persino nel sonno e nel dormiveglia. Essi possono esprimersi ovunque e dovunque, per tutta la vita, attraverso un’attività che possiamo chiamare «ozio creativo» in cui lavoro, studio e gioco si confondono tra loro, si destrutturano nel tempo e nello spazio, si femminilizzano, si organizzano per obiettivi, dipendono, per quantità e per qualità, soprattutto dalla motivazione del lavoratore.

Un altro terzo degli occupati, armato di strumenti informatici, svolge funzioni intellettuali di tipo flessibile o relazionale come quelle dell’impiegato, dell’artigiano, del portiere d’albergo, del commesso, della hostess, del vigile, della badante: tutti lavoratori che debbono seguire delle regole in modo intelligente e duttile, adattandole di volta in volta alle situazioni contingenti, sempre diverse l’una dall’altra. Si tratta di funzioni meno espressive, retribuite e garantite rispetto alle funzioni svolte dai creativi; spesso gregarie rispetto a queste. Mansioni che richiedono parecchia preparazione e motivazione ma che possono essere sottoposte a una programmazione precisa e, dunque, a un controllo puntuale. Sulla carta, questo tipo di lavoro impegna ciascun addetto per circa 2000 ore all’anno, lungo un arco di 40 anni, per un complesso di 80.000 ore nel corso della vita. Ma sono questi i lavoratori ai quali i capi impongono più disinvoltamente l’overtime e la cosiddetta «reperibilità», invadendo la loro vita privata. E sono questi i lavoratori più disposti ad alienarsi immolando all’azienda e al capo aliquote crescenti di tempo libero.

Questi lavoratori flessibili, il cui rendimento è valutabile in base alla qualità oltre che alla quantità, potranno trarre dal progresso tecnologico supporti sempre più capaci di ridurre la fatica richiesta dai loro compiti, ricavandone maggiore spazio mentale per migliorare l’affidabilità dei loro risultati, la qualità del loro lavoro e della loro vita. Ma non saranno mai sostituibili interamente dalle macchine né saranno del tutto intercambiabili tra di loro. Per questa tipologia di lavoratori, l’unica possibilità di arricchirsi culturalmente, di coltivare i propri affetti e i propri hobby può venire dal blocco degli straordinari e dalla riduzione dell’orario di lavoro.

Un ultimo terzo degli occupati, dotato di strumenti meccanici e ora anche informatici, è costituito dagli operai che producono beni e servizi attraverso mansioni fisiche e ripetitive. Si tratta di compiti che richiedono poca creatività, organizzati in base alle vecchie regole di Taylor e di Ford, secondo le quali un lavoratore vale l’altro, tutti sono intercambiabili, tutti debbono lavorare come scimmie addestrate a una rigida programmazione e soggette a un rigido controllo, vendendo prestazioni inferiori alle loro effettive capacità.

La vita lavorativa di questi proletari è regolata e garantita dalle norme, dai contratti e dalla combattività. La sua durata complessiva è di circa 80.000 ore e lo straordinario è retribuito. In attesa che nuove macchine liberino questo terzo degli occupati dalle vecchie torture del lavoro inumano denunziato da Marx e da Weber, non esiste altra soluzione intermedia che la riduzione dell’orario di lavoro con un salario calcolato in proporzione diretta della produzione e della produttività.

Fin quando, per vivere, una parte dell’umanità avrà bisogno di svolgere un lavoro esecutivo – qualunque lavoro esecutivo –, quella parte dell’umanità sarà costretta a contrabbandare la stupidità per il salario. Lo certifica Adam Smith fin dal Settecento, anticipando Marx e Tocqueville: «L’uomo la cui vita è interamente dedicata all’esecuzione di poche semplici operazioni, i cui effetti inoltre sono per lo più sempre gli stessi, o quasi, non ha occasione per esercitare la propria intelligenza… Egli, perciò, perde naturalmente l’abitudine a un simile esercizio e in genere diventa stupido e ignorante tanto quanto è possibile che lo diventi una creatura umana».

Una semplice rivoluzione
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