Fabbrica
A partire da Francesco Bacone (1561-1626) e poi durante i due secoli che vanno dal 1750 al 1950 e che noi ricordiamo come «società industriale», il lavoro intellettuale e quello fisico sono stati composti in una unità organizzativa – la fabbrica moderna – dove l’antica separazione netta tra padroni e schiavi si è trasformata in più morbide divisioni sociali tra datori di lavoro e lavoratori, tra lavoratori di concetto e lavoratori d’ordine, tra azionisti, manager e dipendenti.
Alla fine dell’Ottocento le posizioni in campo erano queste: la Chiesa considerava il lavoro come un castigo, un dovere e un riscatto «perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato», come dice l’enciclica Rerum Novarum; il comunismo considerava il lavoro come essenza stessa dell’uomo, non mercificabile e, dunque, non alienabile; il pensiero liberale considerava il lavoro come base del valore, forza produttiva e parametro di confronto in un mercato libero e concorrenziale.
A Manchester, la città allora più industrializzata del mondo, il 94 per cento dei lavoratori dipendenti erano operai, il resto era costituito dai capisquadra, dai capireparto, dalla direzione e dagli imprenditori. Marx si adoperò per accorpare gli operai nel proletariato e costringere tutti gli altri nella borghesia, tentando di innescare una lotta di classe tra due soli contendenti e arrivare così all’abolizione della proprietà privata e al dominio del lavoro sul capitale. Per quanto aspra possa essere stata questa lotta, essa è comunque rimasta una competizione tra parti che si riconoscevano «umane» e si confrontavano, ciascuna con le proprie armi, su un terreno comune (la fabbrica) e con una medesima posta in gioco (la proprietà dei mezzi di produzione e l’appropriazione del plusvalore, che poteva pendere verso i profitti o verso i salari).
L’organizzazione della fabbrica industriale non è stata inventata tutta d’un colpo, ma ha avuto 150 anni di evoluzione finché due ingegneri americani, Frederick Taylor a Filadelfia e Henry Ford a Detroit non le conferirono la forma scientifica moderna, contraddistinta dalla catena di montaggio. Uno dei tratti peculiari di questa organizzazione è di essere inclusiva, cioè in grado di utilizzare anche persone di infima intelligenza e istruzione per sostituirle alle bestie e agli schiavi. È stato J.K. Galbraith – come vedremo meglio in seguito – a sottolineare che, addestrando persone normali in un settore limitato e coordinandole con altre persone altrettanto specializzate e altrettanto normali, si può organizzare un cervello collettivo capace di prestazioni geniali.
Così l’organizzazione taylor-fordista è riuscita a inglobare nel suo sistema sociotecnico ogni apporto umano, venisse pure da un cieco, un sordo, uno storpio. Nel 1914 Ford fece condurre un’indagine dalla quale risultò che, nella sua fabbrica, i lavoratori potevano essere raggruppati in 7882 mansioni diverse. Meno della metà di queste mansioni richiedeva esecutori in normale condizione fisica mentre per 4034 mansioni bastava che solo una parte del corpo funzionasse. Per la precisione, 670 mansioni potevano essere eseguite da persone prive di entrambe le gambe; 2637 da persone con una gamba sola; 2 da persone prive di entrambe le braccia; 715 da persone con un braccio solo; 10 da ciechi.
Con la catena di montaggio il lavoro si parcellizza e perde qualità perché impiega il corpo degli operai prescindendo dalla loro mente. In compenso, la produttività cresce a vista d’occhio: «Nell’ottobre del 1913» scrive Ford «ci volevano 9 ore e 54 minuti di tempo lavorativo per montare un motore; sei mesi dopo, con il metodo del montaggio a catena mobile, questo tempo era stato ridotto a 5 ore e 56 minuti». Negli anni successivi la catena di montaggio fu ulteriormente perfezionata fino a quadruplicare il rendimento di ciascun addetto. Con lo stesso orgoglio con cui ricorda questo successo, Ford annota: «Il risultato netto dell’applicazione di questi princìpi è la riduzione della necessità di pensare da parte dell’operaio e la riduzione al minimo dei suoi movimenti. Per quanto è possibile, l’operaio fa soltanto una cosa con un unico movimento».
Il fatto che l’operaio alla catena di montaggio sia deprivato della possibilità di pensare non preoccupa minimamente Ford che, dal successo come imprenditore, ricava la legittimazione a sentenziare anche come psicologo: «Il lavoro ripetitivo, il fare continuamente, sempre nello stesso modo, un’unica cosa, è una prospettiva terrificante per un certo genere di mentalità. È terrificante anche per me. Io non riuscirei mai a fare la stessa cosa tutti i giorni, ma per altri tipi di persone, e direi forse per la maggioranza delle persone, le operazioni ripetitive non sono motivo di terrore. In realtà, per alcuni tipi di mentalità, pensare è veramente una pena. Per loro il lavoro ideale è quello in cui l’istinto creativo non deve esprimersi. I lavori nei quali occorre mettere cervello e muscoli hanno pochi aspiranti… L’operaio medio, mi spiace doverlo dire, desidera un lavoro nel quale non debba erogare molta energia fisica, ma soprattutto desidera un lavoro nel quale non debba pensare».
Impiegando milioni di operai senza farli pensare, la fabbrica taylor-fordista, rinnovata sul piano tecnologico e su quello organizzativo, ha consentito di ridurre i tempi di produzione, di ridurre l’orario di lavoro, di aumentare i salari, i profitti e i consumi.
Nei suoi scritti, Taylor fornisce vari esempi di questi benefici effetti. Impiegando macchine ancora alimentate a vapore ma rivoluzionando l’organizzazione, egli riuscì a ottenere da 35 persone che lavoravano 8,5 ore al giorno la stessa mole di lavoro prima svolta da 120 persone che lavoravano 10 ore al giorno. Appena Taylor prendeva in mano l’organizzazione di una fabbrica e applicava i suoi metodi organizzativi, i risultati erano sorprendenti: alla Midvale, alla Manufacturing Investment, alla Simonds, alla Bethlehem, per fare la stessa, precedente quantità di prodotti bastava l’80 per cento del personale; i giorni lavorativi della settimana erano ridotti da sei a cinque; l’orario di lavoro giornaliero scendeva da dieci a otto ore; i profitti triplicavano; i salari raddoppiavano.
Fin dal 1914, Ford portò il minimo salariale a cinque dollari al giorno (il più alto del settore) e la giornata lavorativa a otto ore (la più corta del settore). Nel 1921 la Ford sfornava la sua cinquemilionesima vettura: l’americano medio poteva comprarla a meno di 600 dollari.
Entriamo per un momento nella fabbrica pensata da Taylor e realizzata da Ford all’inizio del Novecento. Questa fabbrica non era fatta per ideare nuovi prodotti ma per realizzare in grandi serie un prototipo nato dalla mente dell’imprenditore. Il Modello T, che Ford mise in produzione nel 1908 e smise di produrre nel 1932, dopo averne vendute 16 milioni di copie non molto diverse dal prototipo, è costruito in base a un progetto e secondo un processo ideati da Ford. Quasi tutti gli altri attori della vicenda sono operai, chiamati a ripetere migliaia di volte al giorno gli stessi semplici gesti richiesti dalla catena di montaggio, messa in azione a partire dal 1911. Questa macchina organizzativa, nella quale gli impiegati non superano il 15 per cento di tutta la forza lavoro e grazie alla quale migliaia di uomini analfabeti e abbrutiti riescono a produrre oggetti geniali e complessi, è pensata per portare alla massima sofisticatezza le tecniche di controllo dei lavoratori, sottoposti al massimo ritmo produttivo.
Dentro l’azienda, l’imprenditore fruisce della superiorità culturale che lo innalza al di sopra dei propri dipendenti; fuori dell’azienda fruisce del vantaggio di produrre beni numericamente inferiori a quanti il mercato ne richieda. Questo modello – che oggi diremmo product oriented – consente all’impresa di imporre alla società sia i suoi prodotti, sia i suoi criteri produttivi, sia i suoi princìpi filosofici: standardizzazione, consumismo, sincronizzazione dei tempi di lavoro e dei tempi di vita. In una parola, la razionalizzazione, cioè la produzione costretta in unità di tempo e di luogo, la considerazione della conflittualità come patologia, il maschilismo, l’esecutività passiva e solerte, l’espulsione dai luoghi di lavoro della dimensione emotiva, della creatività, dell’estetica, della soggettività. Non sono sacrifici da poco, ma appaiono tuttavia preferibili alla miseria e all’ignoranza della società rurale, in funzione di una classe media che l’industria auspica sempre più numerosa e benestante.
Tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento la stragrande maggioranza della popolazione attiva lavora nell’agricoltura e i dipendenti delle industrie rappresentano ancora un’esigua minoranza, ma di lì a poco sarebbero diventati la massa nettamente più numerosa e, di conseguenza, avrebbero costretto la società tutta intera a diventare e a sentirsi «industriale». Il concetto e l’etichetta di «società industriale» saranno introdotti da Lorenz von Stein solo nel 1850.
Nel corso dei suoi due secoli di vita, l’organizzazione manifatturiera ha distillato via via i princìpi operativi descritti poi da Alvin Toffler nella Terza ondata e che, tutti insieme, sono diventati i pilastri dell’intera società industriale. Come abbiamo già visto, essi comprendono la standardizzazione dei processi, dei metodi, dei prodotti e dei prezzi, la parcellizzazione dei compiti, l’assetto piramidale e gerarchico del potere, l’efficienza intesa come impiego di mezzi minimi in vista di risultati massimi, l’economia di scala.
L’applicazione di questi princìpi ha comportato una rivoluzione radicale che ha sradicato milioni di lavoratori dalle campagne e dalle botteghe, gli ha fatto dimenticare tutte le abitudini artigianali e contadine, gli ha inculcato come abito mentale il modo di produzione e di vita industriale: urbanesimo, democrazia politica, organizzazione gerarchica, concorrenza, macchinismo, razionalizzazione, secolarizzazione, produttività, scolarizzazione, maschilismo, ridistribuzione della ricchezza, aumento del potere d’acquisto, aumento del tempo libero, consumismo.
Charles Wright Mills ha osservato che, così facendo, «nel corso di una sola generazione un sesto dell’umanità è passato da uno stato feudale e arretrato alla più progredita e temibile modernità». In effetti, quando la società industriale ha preso avvio, a partire dalla metà del Settecento, la durata della vita media in Europa si aggirava intorno ai 40 anni e l’umanità tutta intera non superava i 600 milioni di individui. Quando la società industriale ha concluso la sua parabola, nella seconda metà del Novecento, la vita media in Europa superava gli 80 anni e gli abitanti della Terra sfioravano i 6 miliardi. I Paesi industrializzati, grazie al progresso, sono riusciti a vincere la fame, la fatica e il dolore fisico; non sono riusciti a debellare la morte ma almeno ad allungare la vita.
C’è anche un altro notevole merito che va accreditato all’industria. La fabbrica è una grande macchina i cui ingranaggi – alcuni di ferro, altri di carne; alcuni pensanti, altri operanti; alcuni principali, altri secondari – sono tutti interconnessi e indispensabili ai fini della produzione. Se uno qualsiasi si ferma, l’intera produzione si blocca. Ciò ha conferito al proletariato una forza inedita, che gli ha permesso di contrattare le sue condizioni di lavoro in fabbrica e di ottenere forme democratiche di governo nello Stato. Gli intellettuali «organici», i partiti democratici e i sindacati dei lavoratori hanno ispirato, organizzato e guidato questa marcia verso una maggiore eguaglianza e una maggiore giustizia.
Così, per una fortunata eterogenesi dei fini, la fabbrica, che al suo interno ha mantenuto una gerarchia rigidamente piramidale, nella società esterna ha contribuito a far crescere la democrazia e a farla coincidere con una modernità più progredita e meno temibile di quella paventata da Wright Mills.