Limite
«Il capitale» dice Marx «percepisce ogni limite come un intralcio.» Dunque, si è impegnato fino allo spasimo per superare ogni limite, sbrecciare ogni barriera, frantumare ogni record, trasformare ogni dato in ipotesi. A questa mania compulsiva Serge Latouche ha dedicato una sua riflessione intitolata Limite, dove passa in rassegna gli strumenti escogitati dalla modernità capitalista per sfidare i vari tipi di limite con la megalomane pretesa di aggirarli o superarli. Per vanificare i limiti giuridici, ad esempio, ha costruito leggi ad hoc, paradisi fiscali, zone franche, network di mafie e di narcotrafficanti transnazionali, eccezioni alle regole ed eccezioni alle eccezioni. Trasformando le guerre in guerriglie e gli scontri tra eserciti in battaglie tra droni, ha cercato di rendere porose le barriere tra Stati e popoli nonché di ridurre le distinzioni tra civili e militari.
Per superare i limiti culturali, i gruppi egemoni del sistema capitalista hanno imposto alle masse subalterne – omologandole – desideri, bisogni, racconti, lingue, modelli di produzione, di consumi e di pensieri. La corsa maniacale alla dismisura non ha risparmiato i limiti del corpo umano, stressati per ottenere dagli atleti performance sovrumane ricorrendo al doping di farmaci e droghe capaci di accrescere la massa e la forza muscolare, di moltiplicare l’apporto di ossigeno ai tessuti, di ridurre la percezione del dolore, di variare il peso corporeo.
Spostandoci su scala macroscopica, troviamo che migliaia di etnie (forse 5000, forse 20.000) sono state spinte a combattersi, confondersi, estinguersi. Delle 20.000 lingue parlate in epoca neolitica, ne sono rimaste solo 6000, destinate a dimezzarsi entro questo secolo. Intanto, la metà di tutta la popolazione mondiale parla solo cinque lingue: cinese, inglese, russo, spagnolo e hindi. La globalizzazione, che potrebbe fecondare un prodigioso meticciato culturale, una fertilizzazione incrociata delle diverse culture, si riduce invece al dominio devastante di una civiltà colonizzatrice su una civiltà colonizzata.
Invece, per sfondare i limiti ecologici, la modernità ha stressato le risorse non rinnovabili inquinando l’aria e l’acqua, distruggendo la fauna e la flora, impoverendo la biodiversità. E ha sprecato in modo incosciente le risorse rare o non rinnovabili ponendo se stessa di fronte alla Terra come forza antagonista capace di intervenire e sconquassare i grandi cicli della vita planetaria.
Questo tipo di dismisura opera su piani diversi. Nicolas Georgescu-Roegen fa giustamente notare che «non possiamo produrre frigoriferi, automobili o aerei a reazione migliori e più grandi senza produrre anche rifiuti migliori e più grandi». Per assorbire la quantità di CO2 prodotta da ogni litro di benzina che bruciamo, occorrono cinque metri quadri di foresta. Dal momento che la superficie terrestre è di 51 miliardi di ettari, di cui due terzi sono sommersi, lo spazio bio-riproduttivo, cioè utile per la nostra riproduzione, è di appena 12 miliardi di ettari, pari a 1,8 ettari a testa. È questa la nostra «impronta ecologica». Poiché già oggi noi ne consumiamo 2,9 a testa (a essere precisi, un americano ne consuma 9,6 e un indiano 0,8), ciò significa che già allo stato attuale abbiamo ampiamente sforato i limiti della nostra impronta ecologica e che ancora di più la sforeremo continuando a crescere, come cresciamo, del 3 per cento ogni anno. Se poi anche i Paesi poveri conquistassero, come è loro legittima aspirazione, il modo di vita dei Paesi ricchi, il nostro solo pianeta non basterebbe più a soddisfare l’impronta biologica di tutti i viventi e ne occorrerebbero da tre a sei.
Nel settore agricolo l’ecosistema è minacciato dall’erosione dei suoli, dalla salinizzazione, dall’inquinamento da pesticidi e fertilizzanti, dall’inquinamento delle falde acquifere. Nel settore industriale l’ecosistema è minacciato sia per l’inquinamento dell’acqua e dell’aria, provocato dalla produzione di rifiuti e di rumori, sia per l’esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili. Nel settore energetico l’ecosistema è minacciato sia nella fase di produzione, che nella fase di trasporto e di consumo dell’energia. In ogni caso, per quanto riguarda il consumo pro capite di energia, resta forte e iniqua la differenza (1 a 5) tra Paesi poveri e Paesi ricchi, nonché tra zone urbane (più sprecone e più inquinate) e zone rurali (più sobrie e più sane).
Se il pianeta non fosse circondato dall’atmosfera la temperatura media della Terra sarebbe di -19°; grazie all’atmosfera, si aggira intorno a +15°. Purtroppo, però, l’ultimo rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’Onu e dell’Organizzazione meteorologica mondiale ci avverte che «il tasso previsto di riscaldamento è decisamente superiore ai cambiamenti rilevati nel XX secolo e molto probabilmente non ha precedenti negli ultimi 10.000 anni». Se il bilancio naturale, che sarebbe rimasto in equilibrio, è stato turbato in modo così preoccupante, il fenomeno va imputato all’emissione e alla concentrazione dei gas serra (anidride carbonica, ossidi di azoto, ozono eccetera), dovuti specialmente all’uso delle fonti energetiche, e capaci di intrappolare calore all’interno dell’atmosfera.
Altre minacce all’ecosistema vengono dalla deforestazione (ogni minuto scompaiono tra i 20 e i 50 ettari di foreste e ogni anno viene deforestata una superficie quasi grande come l’Italia, con conseguenze devastanti sia sulla biodiversità che sull’equilibrio idrogeologico), dalla minaccia alla biodiversità (per cui si riduce di anno in anno la varietà degli oltre 5 milioni di specie di piante, animali e microrganismi presenti sul pianeta), dall’assottigliamento dello strato di ozono che protegge il pianeta (per cui cresce l’esposizione al sole e, con essa, crescono le varie forme di cancro della pelle), dalle precipitazioni di piogge acide dovute soprattutto alla produzione termoelettrica del carbone, che contengono agenti inquinanti come il biossido di zolfo o gli ossidi di azoto (con danni agli edifici, agli alberi, ai raccolti, alle falde acquifere e, di conseguenza, alla salute dell’uomo).
Oltre ai limiti giuridici, culturali ed ecologici, l’uomo moderno ha condotto un assalto sistematico ai limiti economici. Come prima cosa egli ha sostenuto che questi vincoli, di fatto, non esistono perché la creatività umana riuscirà sempre a superarli e la mano invisibile del mercato riuscirà sempre ad appianarne gli effetti. È dunque possibile accumulare, investire, spendere e consumare all’infinito. Anche le crisi possono rientrare nella ciclicità del progresso economico per cui, dopo ogni crisi, ci sarà certamente una nuova crescita, e chi nega questo dogma è un gufo menagramo. Aspettando il Godot della crescita reale, basta far crescere i desideri con la relativa presunta felicità che ci si aspetta dal loro appagamento.
Qui è d’obbligo, anche se noioso, citare le cose che, dette e ridette, rimbalzano da Hobbes, Smith, Hegel e Marx, fino a Marcuse e Baudrillard. Dice Hobbes nel Leviatano: «La felicità di questa vita non consiste nel riposo di uno spirito soddisfatto… La felicità è un continuo flusso di desiderio, da un oggetto a un altro, e la conquista del primo non è che la via per conquistarne un altro». La natura del desiderio e l’oggetto su cui scaricarlo non sono naturali e spontanei ma indotti, come aveva capito Hegel già agli albori della società consumista, quando scriveva: «Il bisogno di un maggiore comfort non nasce esattamente dentro di voi; vi viene suggerito da coloro che sperano di ricavare un profitto dalla sua creazione». Se il bisogno venisse soddisfatto, cesserebbe di essere bisogno e non spingerebbe a ulteriori acquisti. Solo chi è infelice e, insieme, alienato è veramente disponibile ad acquistare beni dai quali si illude di ricavare il rimedio alla propria infelicità. «Nel mio mestiere» confessa spudoratamente il pubblicitario sedicente pessimista e edonista Frédéric Beigbeder «nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.» Il processo è questo: «Ciò che provoca l’infelicità umana è la contraddizione fra la nostra condizione e i nostri desideri» dice Jean-Jacques Rousseau. Dunque occorre sbattere in faccia al consumatore la sua insolvibilità in modo da renderlo particolarmente infelice. Dopodiché basta offrirgli il salvagente del consumo a credito perché egli resti inchiodato alla droga del consumismo compulsivo. Scrive Jean Paul Baudrillard nel saggio Il sistema degli oggetti: «È il credito, che sembra avere un’assonanza con il magico e che ha sconvolto la percezione e la gestione del nostro tempo… Prima della sua comparsa, l’acquisto era preceduto dal risparmio, per cui doveva trascorrere un periodo di faticoso lavoro, spesso lungo e doloroso, affinché fosse possibile disporre dei mezzi finanziari necessari a soddisfare i bisogni seri, per esempio l’acquisto di mobili. Bisognava produrre prima di consumare. Con la monetizzazione delle economie e lo sviluppo del credito, la logica si è invece ribaltata e l’immediatezza è stata innalzata a nuovo imperativo sociale: non si deve più rimandare il piacere!». Lo sbocco sociale di questa parabola della dismisura, che inizia con la fabbrica industriale, prosegue con l’economia del credito e arriva nel centro commerciale, è il famoso incipit dell’Uomo a una dimensione di Herbert Marcuse: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico».
Ormai quella parabola è un circolo chiuso: i produttori insaziabili sono inseguiti continuamente dallo spettro della concorrenza, i consumatori insaziabili sono inseguiti continuamente dallo spettro dei debiti e l’intera società insaziabile, inseguita continuamente dallo spettro basculante di inflazione e deflazione, attinge livelli crescenti di infelicità persino in presenza di livelli crescenti di ricchezza. Dice Marx: «Siccome una società, secondo Smith, non è felice dove la maggioranza soffre… bisogna concludere che l’infelicità della società è lo scopo dell’economia politica. Gli unici ingranaggi che l’economia politica mette in moto sono l’avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza».
Mentre la scienza moderna andava coltivando l’idea di una natura infinita, da sostituire all’idea medievale di un Dio infinito, la popolazione mondiale andava aumentando in proporzione geometrica: negli anni in cui Augusto era vivo a Roma e Cristo in Palestina, l’umanità era di 330 milioni. Poi ha impiegato 1700 anni per arrivare ai 791 milioni dell’epoca del Re Sole e degli Illuministi. Alle soglie del Duemila eravamo 6 miliardi; da allora cresciamo al ritmo di 200 individui al minuto; oggi siamo 7 miliardi; nel 2025 saremo 8 miliardi.
Questa dismisura demografica ha avuto effetti dirompenti sulla situazione socioambientale: «Io, che ho compiuto i sessant’anni di età» ha scritto Gianfranco Bologna nel saggio Natura Spa. La Terra al posto del Pil, «nell’arco della mia vita ho vissuto il raddoppio della popolazione mondiale e ho potuto percepire gli effetti ambientali, sociali ed economici delle straordinarie trasformazioni legate a questa crescita. Più esseri umani si aggiungono alla comunità umana sul pianeta, più diventa urgente e indifferibile trovare soluzioni fattibili e concrete al degrado ambientale e sociale.»
Poiché resta sostanzialmente valida la legge enunziata da Thomas R. Malthus nel suo celebre Saggio sul principio della popolazione (1798) secondo cui l’umanità cresce in proporzione geometrica mentre i mezzi di sussistenza crescono in proporzione aritmetica, la soluzione «fattibile e concreta» adottata finora consiste in una iniqua e vergognosa distribuzione delle risorse per cui il Pil pro capite nel Principato di Monaco è di 173.377 dollari mentre quello della Somalia è di 133 dollari. Si tenga conto che nel 2025 a ogni abitante dei Paesi ricchi ne corrisponderanno cinque nei Paesi poveri, per cui la smisurata ricchezza di pochi ricchi graverà sui cinque sesti della popolazione composti da poveri e si farà di tutto perché questi cinque sesti restino affogati in una povertà perpetua, altrimenti la loro impronta ecologica impedirebbe ai ricchi di restare ricchi.
Ovviamente, la dismisura dei fatti è consustanziale alla dismisura della teoria che li giustifica. I teorici della dismisura vagheggiano l’astroenergetica, la biometallurgia, i biotransistor fino a Francis Fukuyama che prevede un mondo prossimo venturo senza handicap e senza lotta di classe in cui «la storia umana sarà finita, perché avremo abolito gli esseri umani in quanto tali. E comincerà una nuova storia, oltre l’umano». Secondo questi tecnoutopisti, l’associazione di nanotecnologie, biotecnologie e informatica consentirà la nascita del cyberman postumano per il quale tutti i discorsi contenuti in questo mio libro saranno completamente superati anche perché, come prometteva il rapporto 2003 Converging Technologies for Improving Human Performance della National Science Foundation, avremo presto una pace universale, un benessere globale di ordine materiale e spirituale, una pacifica, vantaggiosa e prodigiosa interazione uomo-macchina, una totale possibilità di comunicazione a prescindere dalle barriere linguistiche, la disponibilità di fonti energetiche inesauribili, la fine del degrado dell’ambiente, persino «un grado superiore di compassione e realizzazione».
Credere in questa dismisura delle dismisure ci esime dall’avere scrupoli o rammarico di ogni genere, ma non ci esime dal tenere conto che, per la prima volta nella storia umana, possiamo mettere in atto azioni che chiamano in causa non la distruzione di una città o la sottomissione di un esercito nemico ma la continuazione della vita sulla Terra.