Team
Fin quando l’umanità ha affidato il suo progresso alla creatività dei singoli geni, ha proceduto con lentezza. La grande trovata, a partire dalla metà dell’Ottocento, sta nell’avere escogitato metodi capaci di ottenere strepitosi risultati creativi facendo a meno dei geni. John K. Galbraith ne attribuisce il merito all’industria americana: «La reale conquista della scienza e della tecnologia moderna consiste nel prendere delle persone normali, nell’istruirle a fondo in un settore limitato e quindi nel riuscire, grazie a un’adeguata organizzazione, a coordinare la loro competenza con quella di altre persone specializzate, ma egualmente normali. Ciò consente di fare a meno dei geni».
In realtà l’idea di formare gruppi geniali mettendo insieme persone non geniali era decisamente europea, riallacciandosi alla gloriosa tradizione dei ginnasi greci e latini, delle botteghe rinascimentali, delle accademie e delle universitas studiorum. Ma fu tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento – proprio mentre gli Stati Uniti, soprattutto con Taylor e con Ford, escogitavano tecniche geniali per organizzare le masse operaie addette alla produzione in grandi serie – che l’Europa sperimentò metodi originali per organizzare i gruppi creativi di natura artistica e scientifica. L’Istituto Pasteur a Parigi, la Stazione zoologica a Napoli, la Wiener Werkstätte a Vienna, le Bauhaus a Weimar e Berlino, il Circolo di Bloomsbury a Londra, l’Istituto per la ricerca sociale a Francoforte, il gruppo dei fisici diretti a Roma da Enrico Fermi rappresentano altrettanti casi eccellenti di questa via europea all’organizzazione creativa. I loro fondatori, escogitando i metodi per lavorare creativamente in team, hanno precorso i nostri tempi. Oggi, infatti, i lavoratori sono sempre più scolarizzati; le macchine possono svolgere quasi tutti i compiti ripetitivi ed esecutivi; il mercato apprezza prodotti sempre più innovativi, sofisticati e personalizzati. Dunque, occorre valorizzare al massimo l’attività creativa, che resta monopolio degli esseri umani, e di cui l’esperienza europea ha fornito e tuttora fornisce esempi straordinari e metodi efficaci.
Il genio, come ho detto, possiede in misura straordinaria sia la fantasia che la concretezza mentre, per quanto riguarda la maggior parte degli individui, alcuni sono prevalentemente fantasiosi, altri sono prevalentemente concreti. E i fantasiosi preferiscono frequentare i fantasiosi mentre i concreti preferiscono frequentare i concreti. Qualcosa di analogo accade per i gruppi organizzati: quelli di natura artistica tendono a selezionare in partenza solo persone molto fantasiose; quelli di natura aziendale tendono a selezionare in partenza solo persone molto concrete. Così gli uni rischiano di diventare velleitari e gli altri rischiano di burocratizzarsi.
Invece i leader dei primi gruppi creativi europei che ho citato – i Pasteur, i Dohrn, i Perutz, i Gropius, gli Hoffmann – ottennero risultati strepitosi mettendo per la prima volta insieme, nel medesimo gruppo, persone dotate soprattutto di grande fantasia con persone dotate soprattutto di grande concretezza. Dettero così vita a una sorta di «genio collettivo», schiudendo possibilità inimmaginabili di ideazione e determinando il passaggio dalla small art e dalla small science alla big art e alla big science.
Naturalmente non si limitarono a una semplice composizione meccanica del gruppo ma, dopo avere messo insieme persone così diverse, essi seppero dare, grazie al loro carisma, una precisa direzione – una vision – agli sforzi compiuti dai singoli membri del gruppo, seppero creare un clima di reciproca stima; seppero rendere questo clima incandescente grazie a una mission condivisa e a una leadership carismatica, seppero mantenere una organizzazione interclassista, antiburocratica, internazionalista, attenta alla dimensione etica ed estetica, propensa alla modernità tecnologica, capace di darsi modalità ludiche di lavoro, pronta a trasformare i vincoli in opportunità, i conflitti in stimoli, l’agonismo in collaborazione. In tal modo essi anticiparono la società postindustriale dotandola di metodi preziosi per organizzare i gruppi creativi e potenziare il gioco di squadra.
Ancora oggi un film, un edificio, una nuova macromolecola sono dotati di intensa creatività solo se sono frutto di questo mix, di questa commistione quasi magica di fantasiosi e di concreti, entusiasti del loro lavoro, guidati da una regia carismatica e visionaria.
Con l’avvento del nazismo e del fascismo un numero enorme di scienziati, letterati e artisti si trasferì dall’Europa in America ponendo fine a quell’egemonia della creatività europea che, dopo i grandi, antichissimi exploit della Mesopotamia e dell’Egitto, aveva dominato ininterrottamente in Occidente, dall’età di Omero fino al XX secolo. A partire dagli anni Trenta del Novecento, il grande esodo dei creativi europei abituò il Nuovo Mondo a un surplus di creatività che gli Stati Uniti seppero meritarsi mettendo a disposizione dei geni immigrati una dovizia di mezzi, di gratificazioni e di libertà. Ne derivò, nell’opinione pubblica americana, una diffusa sensazione di primato indiscusso, che fu incrinata solo nel 1957, quando il mondo fu colto di sorpresa dall’annunzio che, intorno al nostro pianeta, orbitava un satellite artificiale inventato non a Stanford o al Mit ma in Unione Sovietica.
Gli studiosi e gli imprenditori americani reagirono con la fiduciosa razionalità che gli è propria: gli uni potenziando e gli altri finanziando le ricerche sulla creatività e sulle eventuali tecniche per incrementarla.
Il secondo colpo a quella che lo studioso americano Thomas Kiely ha orgogliosamente chiamato «insita capacità inventiva dell’intelligenza americana» venne vent’anni più tardi dalla concorrenza giapponese, che in molti settori riuscì a trovare soluzioni più geniali, più pratiche ed esteticamente più gradevoli di quelle adottate negli Stati Uniti. Questi, per la prima volta dopo due guerre mondiali portate vittoriosamente a termine, videro minacciata la propria supremazia tecnico-commerciale e le imprese americane, che per alcuni decenni avevano guidato il progresso mondiale insieme ai laboratori universitari che con esse agivano di concerto, si scoprirono a corto di idee.
Anche questa volta l’intraprendenza americana rispose con rinnovato ardore di studi e investimenti: le aziende stanziarono fondi lauti per la formazione alla creatività, i formatori attinsero a un ricco armamentario di tecniche apprestate da nuovi guru e le sperimentarono su schiere di manager, docili cavie desiderose di diventare geniali. Queste tecniche vendute dai guru-missionari, comprate dai formatori-adepti e inflitte ai lavoratori-cavie supponevano che ogni formando fosse costituzionalmente creativo ma non riuscisse a produrre e implementare idee nuove perché bloccato da una caparbia resistenza psicologica ai cambiamenti. La formazione alla creatività avrebbe provveduto a sbrecciare questa resistenza e a dare finalmente libero corso alle innate capacità ideative che ciascuno possiede nel proprio patrimonio genetico. Solo molto lentamente si è compreso che le deficienze creative in azienda non dipendono tanto dai blocchi psicologici dei singoli lavoratori quanto piuttosto dalle barriere che la struttura aziendale oppone alla creatività individuale rifiutando proposte innovative perché insidiose per gli assetti del potere costituito. Rifiutando intuizioni e proposte originali, la gerarchia aziendale riduce sia la propensione dei lavoratori a ideare, sia la tenacia nel portare avanti le loro intuizioni.
Di qui la necessità di tornare alla lezione dei vecchi gruppi creativi europei, tuttora esempi insuperati di organizzazione capace di produrre nuove idee, nuovi prodotti e nuovi paradigmi perché ispirati a un modello interclassista, antiburocratico, internazionalista, universalista, attento alla dimensione etica ed estetica, propenso alla modernità tecnologica, capace di darsi modalità ludiche di lavoro, di trasformare i vincoli in opportunità, i conflitti in stimoli, l’agonismo in collaborazione, radicato alla propria storia ma teso al futuro.
Insomma, un gruppo non diventa creativo se non sono messi in seria discussione sia l’assetto dei poteri sia i metodi di gestione del sistema in cui il gruppo opera. Un setting dotato di contagioso entusiasmo, il carisma dei leader, la libertà di espressione e di azione, l’organizzazione flessibile, destrutturata nei suoi tempi e nei suoi spazi, la curiosità intellettuale, la cura estetica dei modi e dei luoghi fanno miracoli più di qualsiasi guru e di qualsiasi astruso armamentario di tecniche, troppo spesso più adatte a stupire i manager e a rimpinguare i guru, che non a confortare le aziende con esiti imprenditoriali all’altezza della «capacità inventiva insita nell’intelligenza americana».
Insieme ai collaboratori della Cattedra di Sociologia del Lavoro dell’università La Sapienza di Roma ho studiato per oltre quindici anni circa 400 gruppi creativi, dalle troupe cinematografiche, come quella di Fellini, ai laboratori scientifici, come quello del premio Nobel Rita Levi Montalcini, alle grandi orchestre, come quelle del sistema Abreu.
In estrema sintesi, quali sono le conclusioni sia pure provvisorie cui siamo pervenuti? Nella maggioranza dei gruppi creativi da noi studiati, abbiamo riscontrato che il lavoro viene svolto con modalità proprie del gioco più che della fatica. Le équipe creative e anche quelle scientifiche somigliano molto più a un gruppo di persone che si diverte che non a una squadra di operai alla catena di montaggio o a un ufficio di bancari alle prese con le pratiche quotidiane.
Al loro interno e verso l’esterno i team creativi sviluppano una sorta di agonismo solidale più che di competitività distruttiva. Quando calano la coesione e il successo, al loro interno si crea il fenomeno buffo e crudele del «capro espiatorio»: si comincia a mormorare che quel tale è un incapace, che è un pallone gonfiato, che è la palla al piede del gruppo, che addirittura porta jella e, da quel momento in poi, qualsiasi défaillance viene addebitata al malcapitato. Mia madre, qualunque guaio succedesse, dava sempre la colpa al diavolo; allo stesso modo, soprattutto nelle troupe cinematografiche e teatrali, una volta designato il capro espiatorio, tutte le colpe e tutte le tensioni si scaricano su di lui.
Quando in un gruppo creativo uno o più membri è nevrotico, il team funziona egualmente bene se il leader è equilibrato. Così è avvenuto, ad esempio, nel gruppo di Enrico Fermi, nonostante la presenza di uno scienziato come Ettore Majorana, che spesso si isolava dal gruppo e che morì suicida.
Quasi sempre i gruppi creativi riescono a trasformare i conflitti con i gruppi concorrenti in gare eccitanti e in stimoli ulteriori alla ricerca e al successo. Così è avvenuto, ad esempio, tra i biologi del Cavendish Institute di Cambridge e quelli del King’s College di Londra nella corsa per la scoperta della struttura del Dna.
Altrettanto spesso i gruppi creativi riescono a trasformare la scarsità di mezzi e i vincoli oggettivi in altrettante opportunità, come è avvenuto, ad esempio, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nella Stazione zoologica di Napoli creata da Anton Dohrn o nel Circolo matematico di Palermo organizzato da Giovan Battista Guccia.
I gruppi creativi coltivano il culto della loro memoria, amano riandare al loro passato, celebrare gli anniversari, nutrire continuamente il loro lavoro con il ricordo dei successi e degli insuccessi trascorsi. I loro uffici traboccano di fotografie e di attestati. Ricordo la gioia con cui Sergio Leone, Lina Wertmüller e Federico Fellini amavano ripercorrere mille episodi della loro lunga esperienza cinematografica.
I gruppi creativi non sono né razzisti né classisti: sono universalisti. Apprezzano un’idea per il suo valore intrinseco, non per chi l’ha pensata. Ricco o povero, bianco o nero, cattolico, ebreo o agnostico, chi sta su un set o in un laboratorio o in una squadra di calcio è apprezzato per quello che realmente vale, non per la sua estrazione sociale, la sua fede o il colore della sua pelle.
Per lo più i gruppi creativi sono molto attenti all’estetica, anche quando il loro lavoro non riguarda la moda, il design o le arti. Le stanze del Cavendish erano decisamente squallide, ma Krick (ventisei anni) e Watson (ventun anni) amavano il cinema e la bellezza. L’idea che l’elica del Dna fosse doppia venne loro proprio guardando una scena del film Bellezze al bagno di George Sidney. Mentre i biologi del King’s College disegnavano e testavano una per volta le possibili strutture del Dna, i due giovani scienziati del Cavendish disegnarono tutta una vasta serie di possibili strutture e poi si accinsero a testarle iniziando da quella che gli sembrava più bella, e che si rivelò quella giusta. «È troppo bella per non essere vera» commenterà più tardi la scienziata e concorrente Rosalind Franklin.
I gruppi creativi amano nutrirsi di stimoli culturali diversissimi, sono disponibili all’ascolto di punti di vista divergenti, intrecciano interazioni con altri gruppi e con persone significative. Ad esempio, i ragazzi di via Panisperna diretti da Enrico Fermi visitavano e frequentavano i più importanti gruppi scientifici di tutta Europa, con i quali intrattenevano rapporti professionali e amicali.
I gruppi creativi sono propensi alle novità tecnologiche e pongono costantemente l’accento sul divenire, sono antiaccademici e odiano le lungaggini burocratiche. A loro, prima o poi, si ispireranno tutti i gruppi che intendono produrre qualunque cosa, anche nelle fabbriche. Dunque a loro sono affidati il nostro futuro e parte della nostra felicità.