Welfare

Per parlare di welfare chiedo al lettore di accompagnarmi pazientemente nella lettura di alcuni numeri. Del resto, nulla è più leggero e convincente dei numeri.

In media, ogni italiano può vantare un prodotto lordo di 36.000 dollari. Non è poco, se si pensa che il Pil di un cinese è di 7000 dollari e quello di un brasiliano è di 11.000. Ma il Pil complessivo della Cina aumenta di sette-dieci punti l’anno e nel 2020 supererà quello degli Stati Uniti mentre il Pil del Brasile, che è cresciuto per trent’anni consecutivi, ora si sta avvitando in una pericolosa recessione.

Anche noi italiani crescemmo di cinque punti nei lontani anni Sessanta, ma poi abbiamo rallentato la corsa e il nostro prodotto interno lordo è cresciuto di tre punti negli anni Ottanta, di due punti negli anni Novanta, di un solo punto nei primi quindici anni del Duemila.

Tutto questo induce almeno a tre riflessioni. La prima è che il rallentamento del nostro Pil è un fenomeno pluridecennale di cui, purtroppo, economisti e governanti non ci avevano avvisato. Se lo avessero fatto in tempo, ci saremmo adeguati man mano, senza avere poi bisogno dell’attuale terapia d’urto.

Tra i 196 Paesi del pianeta l’Italia si colloca al settimo posto per quanto riguarda il prodotto interno lordo, al quinto per quanto riguarda la produzione industriale e al nono per quanto riguarda le esportazioni. Siamo, dunque, una grande potenza economica ma abbiamo il più grande debito pubblico del mondo dopo il Giappone e la Grecia e, per di più, come abbiamo appena visto, di anno in anno rallentiamo la nostra crescita.

La seconda osservazione è che, invece di prenderne atto, continuiamo a vagheggiare un’improbabile crescita prossima ventura, anche se in tutti noi cova il dubbio che questa crescita, cioè questa inversione di tendenza dopo quarant’anni di sistematico rallentamento, appartenga più al mondo dei media che alla realtà.

La terza osservazione è che, nell’incertezza di un’effettiva ripresa, tanto vale che ciascuno di noi progetti per sé e per la propria famiglia un «piano B» basato sull’ipotesi della decrescita. Cosa avverrebbe e come dovremmo comportarci se, nei prossimi anni, il nostro prodotto lordo pro capite calasse di sedici punti, passando da 36.000 a 20.000 dollari e tornando così al Pil pro capite che avevamo nel Duemila?

Il 10 per cento dei nostri connazionali (pari a 6 milioni) è talmente ricco che neppure se ne accorgerebbe. Il 5 per cento (pari a 3 milioni) vive già a un tale livello di povertà che peggio di così non potrebbe stare.

Ma tutti coloro che stanno nel mezzo sarebbero costretti a rimodulare i loro bilanci familiari, imparando a vivere con parsimonia. È possibile essere meno ricchi ma non per questo meno felici? È possibile, a due condizioni: che noi impariamo a concentrare le nostre spese su ciò che realmente ci soddisfa; e che lo Stato impari a ridistribuire equamente la ricchezza tramite il welfare.

Il 23 febbraio 2012, in un’intervista al «Wall Street Journal», il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi dichiarò: «Quel che si profila in Grecia è un nuovo mondo che abolirà il vecchio regime e ci libererà dei sepolcri imbiancati. All’esterno paiono belli ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Lo stato sociale è morto».

A ben vedere, i modelli statali che oggi vanno per la maggiore nel mondo sono quattro: quello americano che, in estrema sintesi, consiste in un fondamentalismo economico basato sull’estremismo consumista; quello cinese che consiste in un fondamentalismo autoritario basato sull’estremismo statalista; quello islamico, che consiste in un estremismo espansionista basato sul fondamentalismo religioso; quello europeo – superato, secondo Draghi – che potremmo sintetizzare in un fondamentalismo umanista basato sull’equità dello Stato sociale. L’opinione del presidente della Bce è che lo Stato sociale europeo è morto, ma a sua difesa si potrebbero alzare voci prestigiosissime, a cominciare dal grande economista e sociologo William Beveridge, collaboratore di Sidney e Beatrice Webb, che con il suo Report of the Inter-Departmental Committee on Social Insurance and Allied Services, pose la base per la famosa riforma dello Stato sociale britannico. Se fosse vivo, Beveridge rintuzzerebbe la sventata affermazione di Draghi ricordandogli che il welfare aiuta a liberare la società da quattro mostri: il bisogno, la malattia, l’ignoranza e l’inerzia.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Vienna viveva la sua stagione più felice. Così la descriveva nel già citato Il mondo di ieri il grande Stefan Zweig: «Fu l’età d’oro della sicurezza… Tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario poteva con certezza cercare nel calendario l’anno dell’avanzamento o quello della pensione… Il secolo della sicurezza divenne anche l’età d’oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la casa contro l’incendio e il furto, la campagna contro la grandine e i temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie, si acquistavano pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe regolate e le casse malattia».

Ma non tutto l’impero austroungarico né tantomeno il resto d’Europa godevano della stessa, invidiabile sicurezza. Anzi, nei Paesi più smaccatamente liberisti, ci si cominciava a rendere conto che nessuna mano invisibile sarebbe venuta a riequilibrare le profonde ingiustizie del libero mercato e, parallelamente, montava l’azione antisistemica del proletariato, spinta dalle ideologie comuniste, socialiste e anarchiche.

Per rimediarvi almeno in parte, il cancelliere Otto von Bismarck nel 1883 rese obbligatorie in Germania le assicurazioni dei lavoratori e nel 1889 il pensionamento. In quello stesso anno l’Italia introdusse l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro. Da allora il welfare si è esteso via via ad altri aspetti del lavoro e della vita: vecchiaia, invalidità, morte del coniuge, malattia, disoccupazione, carichi familiari insostenibili, servizi sociali per persone non autosufficienti, reddito minimo garantito, pensioni, formazione (sussidi, congedi, anni sabbatici eccetera), servizi per l’impiego, sostegni alla mobilità, ammortizzatori passivi, politiche attive, congedi per motivi di cura parentale, congedi di maternità e di paternità.

Possiamo dire che il welfare ha contribuito alla modernizzazione dell’Europa bilanciando gli eccessi del liberismo, riducendo la conflittualità, stabilizzando l’economia di mercato, consolidando le istituzioni democratiche, fornendo risposte originali ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. In sintesi, ha rappresentato il «modello sociale europeo» cui si sono poi ispirati molti altri Paesi del mondo, dal Giappone all’Australia. In pratica il welfare costituisce la correzione socialdemocratica del liberismo e rappresenta il modello socioeconomico europeo, contrapposto a quello americano, molto più cinico nei confronti dell’indigenza, calvinisticamente imputata non a difetti del sistema sociale ma a colpe individuali di cui la società non deve farsi carico.

Con il neoliberismo di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, a partire dagli anni Ottanta si rafforzarono e diffusero alcune convinzioni conservatrici – di cui è un esempio la dichiarazione di Mario Draghi – secondo cui l’Europa ha un eccesso di socialità di cui deve liberarsi in nome dell’utilitarismo e del liberismo; la socialità europea non è una conquista e non va difesa a tutti i costi. Il sistema americano, lungi dal discriminare generando povertà e disuguaglianza, impiega le risorse pubbliche meglio dell’Europa e genera più occupazione.

Si tratta di affermazioni generiche e infondate, tanto più che esistono in Europa almeno quattro tipi di welfare, differenziati in base ad alcuni parametri. Un primo parametro prende in considerazione chi fruisce del welfare: se il criterio è l’universalismo, la copertura è totale per tutti i rischi; se il criterio è la cittadinanza, la copertura è assicurata ai soli cittadini; se il criterio è il targeting, la copertura è riservata solo a determinate categorie e per determinati rischi. Un secondo parametro prende in considerazione chi finanzia il welfare, che perciò può essere retributivo o contributivo. Un terzo parametro prende in considerazione chi gestisce il welfare: lo Stato, gli enti pubblici, i privati, o un regime misto.

Quindi vi sono in Europa quattro tipi di welfare. Un primo tipo è quello adottato nei Paesi scandinavi, dove la protezione sociale è un diritto di cittadinanza, finanziata con gettito fiscale e gestita dallo Stato (solo l’assicurazione contro la disoccupazione è gestita dai sindacati); la copertura è universale anche per i non lavoratori; per ciascun rischio sono previste delle somme fisse; vi sono prestazioni integrative da parte dello Stato.

In Gran Bretagna e Irlanda la copertura è per tutti e fiscalizzata solo in campo sanitario. Tranne le prestazioni assistenziali, tutte le altre assicurazioni sono contributive. La garanzia del reddito è assicurata dalla National Insurance (con esclusione degli inattivi e di chi ha un salario basso). La gestione è interamente pubblica.

L’Europa continentale, cioè Francia, Germania, Benelux, Austria e Svizzera, adotta un terzo tipo di welfare, di tradizione bismarckiana. Vi è un collegamento diretto tra posizione lavorativa e prestazioni sociali per cui l’obbligo assicurativo scatta appena si inizia una occupazione produttrice di reddito. Gran parte della popolazione è assicurata ma vi è una marcata diversificazione tra i gruppi professionali. Ovunque vige la gestione autonoma di imprenditori e sindacati.

Infine, l’Europa meridionale (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia) presenta una situazione frammentata, senza una rete protettiva minima di base. Il servizio sanitario è nazionale, basato sul diritto di cittadinanza, universale e fiscalizzato. Le prestazioni sono standardizzate. Le erogazioni, spesso clientelari e fraudolente, sono l’altra faccia delle evasioni contributive.

Come si può vedere, in tre casi su quattro il welfare rappresenta un modello di civiltà originale e positivo, al quale ora anche gli Stati Uniti si stanno ispirando. Nel quarto caso, piuttosto che sancire la sua morte, sarebbe meglio correggerne i difetti.

Di fronte ai problemi enormi che pone già oggi il rapporto sbilanciato tra produzione e distribuzione della ricchezza, si impone l’urgenza di un nuovo patto sociale – un rinnovato welfare – tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra autoctoni e immigrati, tra ricchi e poveri, tra occupati e disoccupati, per ridistribuire in modo equo la ricchezza, il lavoro, il sapere, il potere, le opportunità e le tutele. «Vasto programma» direbbe il generale De Gaulle.

Una semplice rivoluzione
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