Overtime

Certamente sapete che il nylon è una macromolecola che appartiene al gruppo delle poliammidi alifatiche. Ma forse non sapete come è nata la parola «nylon». Prima che gli Stati Uniti sconfiggessero il Giappone nella Seconda guerra mondiale, essi l’avevano già battuto commercialmente nella guerra delle fibre tessili. L’America infatti comprava dalla Cina la seta necessaria per costruire i paracadute per i propri soldati ma il Giappone ne ostacolava l’approvvigionamento. Per aggirare questo ostacolo gli Stati Uniti accelerarono le ricerche chimiche per produrre una fibra sintetica capace di svolgere le stesse funzioni della seta cinese. La leggenda metropolitana vuole che, messa a punto la formula giusta, alla nuova fibra fu dato il nome «nylon» che, in sigla, dovrebbe significare Now You Loose Old Nippon: ora sei fottuto, vecchio Giappone!

Per vendicarsi di questa e delle altre ben più gravi sconfitte subite, il Giappone del dopoguerra si è ammazzato di fatica nel tentativo di mettere in ginocchio l’economia americana e, con essa, l’intero Occidente. Senza però riuscire nel suo intento: oggi infatti il Pil degli Stati Uniti è di 17.000 miliardi di dollari contro i 5000 del Giappone; nell’indice Onu dello sviluppo umano gli Stati Uniti sono dodici posizioni avanti al Giappone; il Pil pro capite di un americano supera di 14.000 dollari quello di un giapponese; gli Stati Uniti detengono il 12 per cento delle esportazioni mondiali contro il 4,5 per cento del Giappone; il debito pubblico nipponico (il maggiore del mondo) è più del doppio di quello americano; la produzione industriale degli Stati Uniti è doppia di quella giapponese; la produzione agricola è quasi tripla; la produzione di energia è diciotto volte maggiore.

Comunque sia, la sferzata giapponese alla produttività, il suo culto dell’efficienza, della dedizione al lavoro assunto come regolatore assoluto della vita umana e della società, l’identificazione quasi religiosa con l’impresa di appartenenza e con i suoi riti hanno indotto l’Occidente a imitarlo, desistendo dalle best practices che andava adottando nelle sue human relations e accogliendo con candida ingenuità le sperimentazioni organizzative che il Giappone esibiva come taumaturgiche. L’efficientismo nipponico, con i suoi circoli di qualità, con il suo just-in-time, il suo muda, la sua total quality e la sua lean production conquistarono le business school occidentali e parvero avveniristiche al top management nostrano, forse capace di capire dove vanno la Borsa e i mercati, meno capace però di capire dove va il mondo.

Proprio in quegli anni l’Europa andava comprendendo che il progresso tecnologico, se non accompagnato da parallele riduzioni degli orari di lavoro, crea disoccupazione, accresce le disuguaglianze sociali, blocca la distribuzione della ricchezza e, quindi, la propensione ai consumi di massa, infine sottrae ai lavoratori i vantaggi della tecnologia liberatrice. Prendendo atto di quanto Keynes aveva auspicato già nel 1930, la Volkswagen ridusse l’orario settimanale a 28 ore e l’intera industria tedesca si avviò verso le 30 ore; in Francia furono introdotte le 35 ore; in Italia cadde addirittura un governo, travolto dal dibattito intorno alla riduzione dell’orario.

Se quell’ondata benefica fosse andata avanti, oggi non avremmo una disoccupazione a doppia cifra, la ricchezza non si sarebbe accumulata in così poche mani, i consumi non ristagnerebbero, la produzione crescerebbe a ritmi fisiologici e la crisi, se pure ci fosse, sarebbe molto più blanda. Solo pochi politici lungimiranti, economisti colti e imprenditori illuminati compresero il bivio di fronte al quale si trovavano e la possibilità insperata di imprimere al capitalismo un ritmo più dolce. Il grosso dei datori di lavoro vide invece nella riduzione dell’orario una ennesima, intollerabile vittoria del proletariato, che avrebbe costretto a rivoluzionare in senso pericolosamente democratico l’organizzazione del lavoro e della società.

Ignoranza, oscurantismo e pigrizia si consorziarono, il vento giapponese dell’efficientismo soffiò in favore di un nuovo culto della laboriosità e invertì la tendenza, allora in atto, a ridurre l’orario di lavoro e a migliorare la qualità della vita dei dipendenti.

La febbre del lavoro riprese a contagiare tutto l’Occidente. Tra le grandi imprese europee e il Giappone iniziò un viavai di manager nostrani e di guru nipponici. Nei reparti di produzione e negli uffici furono accelerati i ritmi e ridotte le pause. Nel Nord Italia molti ragazzi smisero di studiare dopo la scuola dell’obbligo per correre in fabbrica e i padroncini, ritenendo superfluo far studiare i propri figli, li trattennero al loro fianco nell’aziendina familiare per farne rapidamente i loro alter ego.

Il risvolto di questo attivismo produttivistico a livello impiegatizio e manageriale fu diverso a seconda delle culture nazionali. Nei Paesi protestanti, Germania in testa, i manager e gli impiegati di concetto, salvo che nei giorni di punta, continuarono a lavorare – e tutt’ora lavorano – per le ore previste dal contratto, non un minuto in più, dedicando il resto del tempo alla famiglia, agli hobby, all’impegno politico e civile, allo svago. È questo uno dei motivi per cui i Paesi protestanti, oggi come ai tempi di Max Weber, funzionano assai meglio di quelli cattolici. Nel famoso saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Weber scrive: «Uno sguardo alla statistica professionale di un paese di confessioni miste ci mostra con sorprendente frequenza un fenomeno: il carattere prevalentemente protestante della proprietà e dell’impresa capitalistica e delle élite operaie più colte, e specialmente del più alto personale tecnico e commerciale delle imprese moderne… Il Protestante preferisce mangiar bene mentre il Cattolico vuol dormire tranquillo».

Invece nei Paesi di cultura cattolica (dall’Italia alla Spagna, dal Portogallo al Brasile, dal Cile e all’Argentina), le aziende, soprattutto quelle private, costringono psicologicamente la grande maggioranza dei colletti bianchi a restare in ufficio fino a tarda sera per smaltire i propri carichi di lavoro, eccessivi per definizione. Nella maggioranza dei casi l’overtime degli impiegati di concetto e dei manager finisce per diventare di ordinaria amministrazione, non è retribuito e acquista il sapore di un sacrificio spontaneamente offerto alla propria azienda in segno di fedele integrazione ma, sotto sotto, con la speranza di ricavarne vantaggi di carriera. Le imprese incoraggiano questo comportamento e, mentre si appropriano truffaldinamente di migliaia di ore di lavoro non retribuite, poi considerano il tempo come una risorsa preziosa da gestire con parsimonia quando ne contrattualizzano la gestione. Di recente una delle imprese italiane più prestigiose, per fare fronte alla crisi è arrivata a ridurre di cinque minuti l’orario dei pasti. Time is money, direbbe Benjamin Franklin.

In realtà tutte le liturgie procedurali che accompagnano questo assillo impiegatizio e manageriale, e che hanno preso il posto delle lunghe e cruente lotte proletarie per la riduzione degli orari, rappresentano un grande teatro, una grande finzione capace di avvelenare l’esistenza di milioni di impiegati e manager che neppure se ne rendono conto, essendo artefici e vittime della propria alienazione.

Il campanello d’allarme fu suonato qualche anno fa da un’azienda giapponese al di sopra di qualsiasi sospetto di lassismo: la Fuji Bank rese noto uno studio dal quale risultava che almeno il 4 per cento dei propri dipendenti restava tutto il giorno in ufficio senza fare assolutamente nulla. Io ne ricavai l’ipotesi che anche nelle imprese italiane accadesse qualcosa del genere e perciò decisi di intervistare a fondo centinaia di manager che lamentavano carichi di lavoro stressanti, straordinari non retribuiti, necessità professionale di sacrificare sistematicamente il proprio tempo libero trascurando svaghi, amori e famiglia.

I dati raccolti convalidarono l’ipotesi che, per svolgere tutti i propri compiti giornalieri, alla stragrande maggioranza di questi manager sarebbero bastate non più di quattro o cinque ore al giorno. Ma il risultato più sorprendente fu che, quanto meno tempo occorreva a un manager per completare il proprio lavoro quotidiano, tanto più egli tendeva a restare in ufficio oltre l’orario di lavoro. Avendo ormai appreso come si finge di lavorare quando si ha poco da fare, egli cercava di usare questo suo anomalo know-how per apparire super-gravato di lavoro agli occhi del capo e per estendere questa sua capacità di finzione anche oltre l’orario canonico.

In altri termini, lo stress manageriale esiste, ma buona parte di esso non dipende dal super-lavoro dei manager bensì dalla frustrazione per avere poco da fare e, nello stesso tempo, per dover dimostrare di essere indaffaratissimi.

Le cause principali di questo paradosso sono quattro. La prima è di ordine storico. L’assillo per gli orari si consolidò nelle vecchie aziende manifatturiere dove la maggioranza dei lavoratori era costituita da operai addetti alla catena di montaggio e dove in tot minuti si dovevano produrre tot pezzi. Per comodità organizzativa, il controllo minuzioso dei tempi fu esteso dalle officine agli uffici, dove i travet svolgevano centinaia di pratiche al giorno, tutte uguali e quindi assoggettabili agli stessi tempi e metodi adottati per la produzione dei bulloni. Sempre per comodità dei capi del personale, gli stessi metodi sono oggi applicati al lavoro manageriale che, pur dovendo produrre idee e non bulloni, è tuttavia trattato come se la sua produttività fosse direttamente proporzionale al tempo trascorso tra le quattro mura dell’ufficio.

La seconda causa è di ordine tecnologico. Le macchine automatiche hanno ridotto il tempo necessario per produrre bulloni; le macchine elettroniche hanno ridotto il tempo necessario per sbrigare pratiche e persino per produrre idee. Ciononostante, il tempo che i manager trascorrono in ufficio è rimasto immutato in ossequio alla loro natura conservatrice.

La terza causa è di ordine culturale. Fin dai primi giorni della loro assunzione in azienda, i giovani manager sono sottoposti a un rito di iniziazione al lavoro prolungato. Quando, allo scoccare delle otto ore contrattuali, il neoassunto riordina la propria scrivania e si avvia all’uscita, le occhiate sollecite dei colleghi più anziani gli fanno capire che la sua futura carriera è legata alla quantità di tempo extraorario che egli è disposto a offrire al proprio capo. Così il neoassunto si abitua man mano a prolungare la propria permanenza giornaliera nel recinto aziendale, anche se non ha compiti urgenti da svolgere.

Dopo qualche mese, completato l’addomesticamento di neofita a queste regole non scritte, il nostro nuovo funzionario modello, divenuto ormai portatore insano del virus efficientistico, è pronto a contagiare a sua volta le reclute successive. A questo punto, capo e dipendente sono legati a filo doppio: entrambi sanno benissimo che le otto ore contrattuali sarebbero più che sufficienti per espletare i loro compiti, ma ormai l’ufficio è diventato per essi l’unico palcoscenico su cui entrambi si sentono a proprio agio per recitare la parte di lavoratori stressati. Per tacito patto umanitario, ogni dipendente resterà in ufficio oltre l’orario soprattutto per tenere compagnia al proprio capo che, a sua volta, farà altrettanto con il proprio capo. E così via, su su, fino al vertice della piramide aziendale.

Non meno determinante delle altre tre, la quarta causa che tiene inchiodati impiegati e manager alla loro scrivania oltre l’orario d’ufficio non è tanto l’amore per il lavoro quanto l’odio per la famiglia. Passano gli anni, i figli crescono e diventano problematici, le mogli invecchiano e inacidiscono, la convivenza diventa scabrosa, la vita familiare perde ogni appeal erotico. In ufficio, invece, la segretaria è rinnovabile, i collaboratori pure, l’aria condizionata funziona meglio e non costa, quasi tutto è sotto controllo.

Man mano i nostri impiegati di concetto e i nostri manager smarriranno il gusto del tempo libero, perderanno potere in casa e ne acquisteranno in azienda, dove troveranno rifugio full time e saranno pagati quasi esclusivamente per farsi reciproca compagnia. Somiglieranno sempre più a quel solerte funzionario evocato da Leo Longanesi, che tiene per tutta la vita il ritratto dei figli sulla scrivania e solo sul letto di morte viene a saper che uno o due non erano suoi.

Una semplice rivoluzione
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