Cellulare

La mia infanzia è stata popolata da figure dotate di ubiquità e di invisibilità. Insegnanti fantasiosi, parroci fabulosi, zie educate sui romanzi della «Scala d’oro» mi raccontavano di folletti e «munacielli» invisibili ma capaci di apparire all’improvviso, nelle circostanze più impreviste, per spiare senza essere visti, per premonire da pericoli imminenti, per annunziare buone novelle, per fornire numeri al lotto. Santi che volavano da una parte all’altra della Terra, capaci di lievitare nel buio e di concretizzarsi contemporaneamente in più luoghi; angeli custodi capaci di stare simultaneamente in cielo presso Dio e in Terra, vigili e discreti, alle mie spalle.

Poi, dopo gli dèi dell’Olimpo, tutti dotati di invisibilità e bilocazione, dopo gli ippogrifi, gli elfi e i folletti della letteratura ariostesca e mozartiana, vennero gli eroi dei fumetti: i Mandrake, i Batman, gli Uomini Mascherati, tutti prodigiosamente invisibili e ubiqui grazie a virtù magiche o grazie a velocità e destrezza fuori del comune.

Infine arrivarono, sul grande e sul piccolo schermo, gli incontri ravvicinati del terzo tipo con effetti speciali e personaggi virtuali, capaci di trapassare pareti d’acciaio e trasmigrare da un pianeta all’altro, senza forza di gravità, sospinti come missili da propellenti nucleari.

Per ottocento generazioni, dall’uomo di Neanderthal a mio nonno, l’ubiquità e l’invisibilità sono rimaste come un patetico sogno umano, un medesimo delirio di onnipotenza simile a quello che ci faceva vagheggiare la liberazione dal dolore, dalla fame, dalla fatica, dalla morte.

Poi, quasi all’improvviso, almeno nei nostri Paesi ricchi, il dolore è stato debellato con gli analgesici, la fame è stata debellata con la produzione di massa, la fatica è stata debellata con i robot.

E l’invisibilità? E l’ubiquità? La radio ci ha permesso di prolungare il nostro udito e la televisione di prolungare la nostra vista, ma entrambe, prima dell’avvento dei transistor, ci costringevano a restare inchiodati in un determinato luogo, davanti a un mobile mastodontico, magico e domestico al tempo stesso, dal quale traboccavano parole, suoni e immagini provenienti da mondi ignoti e lontani. Noi, rimanendo fermi e perfettamente localizzabili, ricevevamo messaggi trasmessi da fonti lontane ma altrettanto localizzabili e fisse. Eravamo dei Batman incatenati.

In questo limbo sospeso tra stanzialità e ubiquità, solo nell’ultimo decennio del XX secolo, all’improvviso, il cellulare fu.

Ricordo la circostanza precisa in cui dovetti prenderne atto: in occasione dei campionati mondiali di calcio, una signora, amante dello sponsor della grande manifestazione, ne esibì vistosamente un esemplare, destando stupore, sospetto e invidia in noi che ne eravamo sguarniti, che non sapevamo di essere già nel mirino dei persuasori occulti. I quali, attizzati dai demoni rinascenti della privatizzazione, della competitività e del profitto, si gettarono sul nostro target con uno spiegamento di forze e di lusinghe mai visto prima. Per una diecina d’anni, a tutte le ore di tutti i giorni e di tutte le notti, siamo stati tartassati da spot, da pagine e da cartelloni pubblicitari che ci hanno incitato ad arruolarci nell’esercito degli ubiqui: marziani e ranocchie, bionde testimonial e puttanone creole sono stati convocati allo scopo di tentare il nostro antico delirio di onnipotenza fino all’acquisto del telefonino e alla sottoscrizione dell’abbonamento.

Ci hanno promesso invisibilità e ubiquità. E ce le hanno date, con tutti gli inconvenienti che possono derivarne. Se ai tempi della guerra di Troia ci fosse stato il telefonino, certamente qualche Acheo se lo sarebbe dimenticato acceso nella pancia del cavallo, mandando all’aria tutto lo stratagemma dell’astuto Ulisse.

Noi, invece, insaziabili viandanti consumisti di fine secolo, grazie alle diavolerie del piccolo, docile, magico cellulare, possiamo collegarci da qualunque punto con qualunque punto del pianeta, senza che il nostro interlocutore sappia dove realmente ci troviamo. Per i nativi digitali la cosa non desta sorpresa, ma per noi, nativi analogici, presenta tutti i tratti del magico e del taumaturgico.

Le potenzialità di questa nuova diavoleria sono infinite, e noi tutte le inaugurammo: scherzi di nuovo conio; forme più spericolate di adulterio; supporti insperati per truffatori e commercianti; naufraghi salvati dalle acque; stuprande provvidamente avvertite del pericolo in agguato; amanti ghermite in occasioni fugaci che, prima dell’era cellulare, sarebbero andate sprecate; casalinghe messe in grado di calare la pasta al momento giusto, onde ottenere la perfetta cottura del cibo e la perfetta goduria del coniuge. Ma, soprattutto, la possibilità finalmente offerta al manager alienato di lavorare sempre e dovunque – nei treni, nelle toilette, nelle alcove, perfino nei propri uffici – senza staccare mai la spina del proprio carrierismo.

Oggi un popolo di miliardi di «utenti», presto destinati a raddoppiare e triplicare sotto l’urto delle bordate pubblicitarie, può finalmente parlare d’amore o di lavoro ovunque e in qualsiasi momento, senza pudore e senza reticenze, convinto di essere invisibile anche al compagno di treno o di ristorante, che lo vede benissimo e, purtroppo, lo ascolta.

Il cuore del cellulare è quella scheda piccola e dorata che noi gli inculchiamo con un gesto rapido e ormai competente. Quella scheda contiene un microprocessore che, per la legge di Moore di cui abbiamo già parlato, raddoppia la sua potenza ogni 18 mesi e fra una diecina di anni sarà centinaia di miliardi di volte più potente di quello attuale.

Così i piccoli cellulari crescono restando apparentemente piccoli. Se prima ci permettevano solo di parlare con chiunque da qualunque luogo, ora ci consentono anche di ascoltare dischi e radio, vedere televisione e film, collegarci con tutto e con tutti mediante internet, localizzare noi, i nostri amici e i nostri nemici in Terra, gli astri e gli aerei nel cielo, giocare, fare affari, organizzare viaggi e avventure, prenotare un aereo o un carro funebre.

Al cellulare affidiamo ormai la nostra memoria e il nostro senso di orientamento. La sua presenza rende sempre più difficile coltivare abitudini ormai connaturate nel genere umano ma vanificate dal progresso tecnologico: preservare la nostra privacy, isolarci, perderci, dimenticare, ignorare, annoiarci. Flaiano diceva che nelle ore di punta è impossibile perfino l’adulterio. Figurarsi cosa direbbe oggi!

Una semplice rivoluzione
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